Corte Costituzionale – Ordinanza n.90 del 26 maggio
2015
Ritenuto che,
con ordinanza del 27 febbraio 2014, il Tribunale ordinario di Bergamo, in
funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 2,
3, 4, 23, 24, 36, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione, questione
di legittimità costituzionale dell'art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30
marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze
delle amministrazioni pubbliche);
che il giudice
rimettente premette di essere stato investito dal ricorso proposto da alcuni
infermieri professionali dipendenti dell'Azienda Ospedaliera Bolognini di
Seriate, con il quale gli stessi chiedono accertarsi che l'Azienda medesima non
ha il diritto di pretendere, in base alla disposizione oggetto di censura, il
versamento delle somme da essi percepite per prestazioni infermieristiche
svolte presso terzi al di fuori dell'orario di lavoro ma «senza premurarsi di
ottenere la previa autorizzazione» dell'amministrazione di appartenenza;
che il
rimettente sottolinea come l'amministrazione ospedaliera, dopo aver comminato
le sanzioni disciplinari reputate adeguate ed aver iniziato ad esigere
ratealmente le somme pretese, non ha mancato di puntualizzare, nei
provvedimenti disciplinari, che «ciascuno dei dipendenti sanzionati aveva
mantenuto un elevato standard qualitativo nello svolgimento del servizio, che
lo svolgimento dell'attività lavorativa esterna non aveva recato danni
all'azienda in relazione all'organizzazione del lavoro [...], che lo
svolgimento dell'attività lavorativa esterna non aveva pregiudicato il
principio di imparzialità e il buon andamento dell'azione amministrativa ed
infine che non vi era stato alcun nocumento all'immagine aziendale»;
che il Tribunale
reputa incontestabile l'obbligo per i pubblici dipendenti di osservare il
principio di esclusività del rapporto di pubblico impiego, che trova fondamento
nell'art. 98, primo comma, Cost., e considera altrettanto ovvio che la
trasgressione del dovere di chiedere l'autorizzazione integri - secondo la
stessa norma denunciata - un comportamento censurabile sul piano disciplinare;
che l'obbligo,
tuttavia, di restituire all'amministrazione i compensi percepiti in assenza di
autorizzazione sarebbe in contrasto, anzitutto, con l'art. 36 Cost.,
trattandosi di attività lavorativa lecita nell'ordinamento generale e correlato
ad una violazione meramente formale, in quanto priva di connessione rispetto ad
un eventuale danno per la pubblica amministrazione, sul piano della
organizzazione e del buon andamento dell'azione amministrativa;
che sarebbe,
altresì, violato l'art. 3 Cost., risultando previsto uno stesso trattamento
sanzionatorio (restituzione dell'intero compenso) tanto per chi abbia
effettivamente violato il dovere di fedeltà ed esclusività (ad esempio in caso
di attività incompatibili), quanto per chi tali doveri non abbia concretamente
violato (ad esempio per attività che non interferisca con quella di ufficio),
tenuto anche conto, a proposito di incompatibilità, del progressivo delinearsi,
nel «diritto vivente della Costituzione», di un concetto «più flessibile» di
esclusività;
che violato
sarebbe pure il «principio costituzionale di proporzionalità e modulazione
delle sanzioni (artt. 1-2-3 Cost.)»;
che
l'automatismo di cui alla previsione censurata impedirebbe, infatti, di
bilanciare il bene preservato (esclusività del servizio in favore
dell'amministrazione) con il valore costituzionale del lavoro, inteso quale
strumento che concorre al progresso della società (art. 4 Cost.), pure se
prestato da un dipendente pubblico fuori dell'orario di lavoro, tanto più in
quanto «Il lavoro svolto nel caso concreto non era immorale, degradante o
disonesto» e «non comportava dispersione di competenze o di segreti
professionali, né svilimento della funzione svolta in principalità per la
P.A.»;
che «il
principio del necessario bilanciamento degli interessi in gioco e dei valori»
sarebbe «sotteso dall'ordinamento costituzionale a tutti i procedimenti e
provvedimenti sanzionatori (penali, amministrativi e privatistici)», cosicché
al recupero delle somme sarebbe da riconnettere, accanto ad una funzione
«general-preventiva tipica della punizione», anche una «funzione individuale di
punire l'effrazione in concreto (funzione individuale-successiva)»;
che dunque la
sanzione automatica, svincolata dal principio di proporzionalità, risulterebbe
in contrasto con gli artt. 2, 3, 23 e 24 Cost.;
che, inoltre,
prescindendosi da qualsiasi profilo di danno, l'amministrazione verrebbe di
fatto a conseguire un ingiustificato arricchimento, «di dubbia compatibilità
con il principio di imparzialità e buon andamento di cui all'art. 97 Cost.»;
che
l'automaticità della sanzione non sarebbe, infatti, compatibile con il
«concetto di buon andamento della P.A.», inteso quale «principio di
democraticità dell'operato della P.A.», postulando questo un'adeguatezza
nell'esercizio del potere amministrativo sia rispetto ai benefici per la
collettività sia anche al principio del minor sacrificio per le posizioni
giuridiche dei destinatari;
che hanno
depositato memoria di costituzione i dipendenti pubblici parti nel giudizio a
quo, chiedendo l'accoglimento della questione;
che la
previsione censurata determinerebbe un'illogica duplicazione, al di là del
piano disciplinare, di conseguenze derivanti da un unico comportamento, senza
collegamento con la gravità dell'inadempimento e con la sussistenza di un danno
nonché con il profilo psicologico degli inadempienti;
che, d'altra
parte, la norma denunciata contrasterebbe, oltre che con il principio di
ragionevolezza, con i principi di adeguatezza e proporzionalità dei trattamenti
sanzionatori, anche per la sostanziale assenza di un diritto al ricorso
effettivo ad un giudice, imposto dall'art. 24 della Costituzione e dagli artt.
47 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea proclamata a
Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, evidenziandosi,
peraltro, una disparità di trattamento tra personale medico - la cui attività
libero-professionale non richiederebbe autorizzazione - e personale
infermieristico;
che è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi inammissibile
e infondata la questione proposta;
che l'art. 36
Cost. non verrebbe in discorso, dal momento che la norma denunciata non esclude
il diritto del dipendente al compenso;
che neppure
sarebbe violato l'art. 3 Cost., in quanto si comparerebbero fra loro situazioni
diverse, quali quella del dipendente che ha chiesto e ottenuto l'autorizzazione
allo svolgimento della attività presso terzi e del dipendente che, invece, tale
autorizzazione non ha provveduto a chiedere;
che
l'automatismo della sanzione sarebbe, poi, in linea con la circostanza che
«l'entità del compenso percepito dal dipendente per lo svolgimento
dell'attività non autorizzata è immediatamente rappresentativa dell'entità
quantitativa e qualitativa dell'impegno richiesto e, dunque, della rilevanza
dell'autorizzazione non richiesta» e, infine, della gravità della violazione
addebitabile;
che non
risulterebbero poi comprensibili «le ragioni di incompatibilità» della lamentata
ipotesi di ingiustificato arricchimento della pubblica amministrazione,
considerato che un rafforzamento del divieto di attività non autorizzate
costituirebbe, piuttosto, «un ulteriore disincentivo a tale condotta»;
che, con
ordinanza del 10 luglio 2014, il Tribunale amministrativo regionale per la
Puglia ha sollevato anch'esso, in riferimento all'art. 36, primo comma, Cost.,
questione di legittimità costituzionale dell'art. 53, comma 7, del d.lgs. n.
165 del 2001;
che il giudizio
principale è stato instaurato su ricorso di un ufficiale pilota
dell'aeronautica militare, il quale, durante un periodo di congedo
straordinario senza assegni concessogli dall'amministrazione, aveva svolto,
senza autorizzazione, attività lavorativa retribuita quale pilota di elicotteri
presso una società spagnola, e che, successivamente, ripreso il proprio
servizio, si era visto richiedere le somme percepite a titolo di compenso;
che la
previsione di cui all'art. 36 Cost., secondo la quale al lavoratore spetta,
"in ogni caso", una retribuzione sufficiente ai bisogni propri e
della propria famiglia, dovrebbe «ritenersi una norma precettiva e di immediata
applicazione», imponendo la tutela del lavoratore anche nel caso di rapporto
illegittimamente conseguito o radicalmente nullo o di mero fatto;
che, nel
prevedere la restituzione integrale della retribuzione, la norma censurata
priverebbe «il lavoratore e la famiglia dei mezzi di sussistenza necessari»,
risultando, invece, conforme ai principi costituzionali «la restituzione della
sola parte eccedente gli emolumenti che il dipendente avrebbe percepito
nell'ambito del rapporto di impiego con l'Amministrazione di appartenenza, al
fine di sanzionare in tal modo l'indebita locupletazione che il lavoratore si
sarebbe illegittimamente procurato, svolgendo un'attività lavorativa non
autorizzata e in violazione degli obblighi assunti»;
che è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale ha chiesto dichiararsi
inammissibile e infondata la questione proposta;
che il d.lgs. n.
165 del 2001 non si applicherebbe al personale delle Forze armate, sottoposto
alla disciplina dettata dal relativo ordinamento;
che il giudice a
quo avrebbe, quindi, dovuto prendere in considerazione il decreto legislativo
15 marzo 2010, n. 66 (Codice dell'ordinamento militare), il quale, all'art.
901, regola l'aspettativa per motivi privati, facendo salve le eventuali
disposizioni speciali adottate in sede di concertazione con i rappresentanti
del personale;
che, d'altra
parte, l'art. 18, comma 2, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di
incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro) espressamente prevede che ai dipendenti collocati in
aspettativa senza assegni non siano applicabili le incompatibilità di cui
all'art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001;
che si
imporrebbe, dunque, la restituzione degli atti al giudice rimettente, «affinché
provveda a prendere in compiuta considerazione tutti gli elementi desumibili
dal quadro normativo applicabile nella materia».
Considerato che
il Tribunale ordinario di Bergamo, in funzione di giudice del lavoro, solleva,
in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 23, 24, 36, primo comma, e 97, primo
comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.
53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali
sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche);
che, a parere
del Tribunale rimettente, tale disciplina, imponendo al «dipendente pubblico
l'obbligo di restituire automaticamente all'Amministrazione di appartenenza i
compensi percepiti per incarichi extraistituzionali privi della prescritta
autorizzazione», si porrebbe in contrasto anzitutto con l'art. 36, primo comma,
Cost., «che prevede il diritto alla retribuzione per il lavoro prestato,
conformandone la misura», trattandosi di compensi «che pure derivano da
attività lavorativa lecita nell'ordinamento generale, seppure non autorizzata
dalla P.A.» e risultando la sanzione correlata ad una violazione meramente
formale, in quanto priva di connessione rispetto ad un eventuale danno per la
pubblica amministrazione, sul piano della organizzazione e del buon andamento
dell'azione amministrativa;
che vulnerati
sarebbero anche gli artt. 1, 2 e 3 Cost., in quanto l'automatismo della
previsione censurata contrasterebbe con il «principio costituzionale di
proporzionalità e modulazione delle sanzioni»;
che, in
particolare, la sanzione automatica, «svincolata da un principio di proporzione
con la gravità del fatto concreto, con il suo disvalore oggettivo e con il
grado di colpevolezza soggettiva», contrasterebbe con «il principio del
bilanciamento degli interessi che trova il suo puntello costituzionale negli
artt. 2, 3, 23, 24 Cost.»;
che, ancora,
risulterebbe violato l'art. 97 Cost., giacché, prescindendosi totalmente
dall'apprezzamento del danno per la pubblica amministrazione, si determinerebbe,
per essa, un ingiustificato arricchimento, di dubbia compatibilità con il
principio di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione;
che, infine, vi
sarebbe violazione degli artt. 1, 2, 3 (e 4) Cost., in quanto la normativa
censurata apparirebbe in contrasto con il «principio di democraticità
dell'operato della P.A.», dovendosi questa, prima di operare, «prefigurarsi le
conseguenze della propria azione non solo in termini di beneficio per la
collettività, ma anche negli esiti pregiudizievoli che essa potrà comportare
per le posizioni giuridiche dei soggetti destinatari, all'uopo adottando le
soluzioni migliori nel caso concreto alla luce di un principio di democrazia e
giustizia»;
che si sono
costituiti in giudizio i dipendenti pubblici parti nel giudizio a quo,
chiedendo l'accoglimento della questione;
che è
intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi inammissibile
e infondata la questione proposta;
che una
questione sostanzialmente identica è stata sollevata anche dal Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia, il quale reputa che l'art. 53, comma 7,
del d.lgs. n. 165 del 2001 sia in contrasto con l'art. 36, primo comma, Cost.,
in quanto, nel prevedere la restituzione integrale della retribuzione,
«priverebbe il lavoratore e la famiglia dei mezzi di sussistenza necessari»,
mentre apparirebbe, viceversa, conforme ai principi costituzionali «la
restituzione della sola parte eccedente gli emolumenti che il dipendente
avrebbe percepito nell'ambito del rapporto di impiego con l'Amministrazione di
appartenenza, al fine di sanzionare in tal modo l'indebita locupletazione che
il lavoratore si sarebbe illegittimamente procurato, svolgendo un'attività
lavorativa non autorizzata e in violazione degli obblighi assunti»;
che nel giudizio
è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi inammissibile
e infondata la questione proposta;
che i giudizi,
avendo ad oggetto la medesima questione, vanno riuniti per essere definiti con
un'unica pronuncia;
che la questione
deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto entrambi i
giudici rimettenti, trascurando di compiere una esauriente ricognizione del
contesto regolativo di riferimento, hanno completamente omesso di esaminare e
di risolvere motivatamente il problema relativo alla sussistenza della
rispettiva giurisdizione in ordine alla specifica domanda a ciascuno devoluta;
che, infatti, il
comma 7-bis dello stesso art. 53 del d.lgs. 165 del 2001, come introdotto
dall'art. 1, comma 42, lettera d), della legge 6 novembre 2012, n. 190
(Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e
dell'illegalità nella pubblica amministrazione), stabilisce che «L'omissione
del versamento del compenso da parte del dipendente pubblico indebito
percettore costituisce ipotesi di responsabilità erariale soggetta alla
giurisdizione della Corte dei conti»;
che, del resto,
le sezioni unite civili della Corte di cassazione, pronunciandosi su ricorsi
per regolamento di giurisdizione, avevano, in precedenza, con ordinanza del 2
novembre 2011, n. 22688, avuto modo di affermare che sussiste la giurisdizione
della Corte dei conti in materia di responsabilità amministrativa di un
soggetto che, legato all'amministrazione da un rapporto di impiego o di
servizio, causi un danno con azioni od omissioni connesse alla violazione non
soltanto dei doveri tipici delle funzioni concretamente svolte, ma anche di
quelli ad esse strumentali, attinendo al merito e, dunque, ai limiti interni
della potestas iudicandi, ogni questione attinente al tipo e all'ammontare del
danno stesso diverso da quello all'immagine;
che, dunque, i
giudici a quibus hanno, in particolare, omesso di indicare le ragioni per le
quali ciascuno di essi implicitamente esclude che la disciplina di cui al
richiamato comma 7-bis possa trovare applicazione alle vicende di cui ai
giudizi loro devoluti, le quali, per di più, apparendo del tutto analoghe anche
sotto il profilo della normativa applicabile, risulterebbero tuttavia
contemporaneamente attribuite sia alla giurisdizione ordinaria sia a quella
amministrativa;
che, accanto a
ciò, la questione proposta dal TAR Puglia va dichiarata manifestamente
inammissibile anche per carente motivazione sulla rilevanza, avendo il giudice
rimettente insufficientemente descritto le circostanze di fatto di cui al
giudizio a quo, relative alla situazione di un ufficiale pilota
dell'aeronautica militare collocato in aspettativa;
che, d'altra
parte, questo giudice rimettente non ha mostrato di tenere, in alcun modo,
conto di quanto specificamente previsto sia dallo stesso art. 53 del d.lgs. n.
165 del 2001 - il quale, al comma 6, lettera e), esclude dalla disciplina
sanzionatoria, tra gli altri, proprio i compensi derivanti «da incarichi per lo
svolgimento dei quali il dipendente è posto in posizione di aspettativa, di
comando o di fuori ruolo» -; sia, come eccepito dall'Avvocatura generale dello
Stato, dall'art. 18, comma 2, della legge 4 novembre 2010, n. 183 (Deleghe al
Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi,
aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di
incentivi all'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché
misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di
controversie di lavoro) - secondo cui nel periodo dell'aspettativa «non si
applicano le disposizioni in tema di incompatibilità di cui all'articolo 53 del
decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni» -; sia,
infine, eventualmente, dall'art. 901 del decreto legislativo 15 marzo 2010, n.
66 (Codice dell'ordinamento militare), che disciplina l'aspettativa per motivi
privati, prevedendo l'interruzione della retribuzione e dell'anzianità di
servizio.
P.Q.M.
riuniti i
giudizi,
dichiara la
manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale
dell'art. 53, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme
generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni
pubbliche), sollevata, in riferimento agli artt. 1, 2, 3, 4, 23, 24, 36, primo
comma, e 97, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di
Bergamo e, in riferimento all'art. 36, primo comma, dal Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia, con le ordinanze descritte in epigrafe.
Nessun commento:
Posta un commento