Corte di Cassazione – Sentenza n.11206 del 29 maggio
2015
Svolgimento del
processo
1. La Corte
d’Appello di Perugia, con la sentenza n. 519/10, decidendo sull’impugnazione
proposta da (...) nei confronti della (...) in ordine alla sentenza resa tra le
parti dal Tribunale di Perugia il 9 dicembre 2009 rigettava l’appello.
2. Il (...), al
quale era stato contestato di aver effettuato dal terminale in sua dotazione, e
con la password 243, ingiustificate indagini informative su conti correnti,
correlati a pratiche di successione, e fatti oggetto di prelievi abusivi,
consumati o tentati, aveva impugnato dinanzi al Tribunale il licenziamento
intimatogli dalla (...) con lettera pervenuta il 9 dicembre 2004, e aveva
chiesto che ne fosse dichiarata l’illegittimità.
In subordine,
chiedeva che fosse affermato che il licenziamento era avvenuto per giustificato
motivo soggettivo, con condanna della Banca a versargli l’indennità per mancato
preavviso e l’indennità di malattia dal 3 dicembre 2004 all’ 11 marzo 2005,
ovvero in ulteriore subordine, la sola indennità di malattia.
3. Il Tribunale
di Perugia aveva respinto le domande.
4. Per la
cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre (...) prospettando
due motivi di impugnazione.
5. La (...)
resiste con controricorso, assistito da memoria depositata in prossimità
dell’udienza.
Motivi della
decisione
1. Con il primo
motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del
1970, e dell’art. 2119 cc; la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106
cc. Omessa, insufficiente e illogica motivazione ex art. 360 cpc, n. 5, su
fatti controversi e decisivi della causa.
2. Il ricorrente
ricorda il contenuto della lettera di contestazione dell’addebito del 23 giugno
2004, con la quale si faceva presente che, da indagini svolte dalla direzione
Auditing in merito a truffe/tentativi di truffe perpetrati inoltrando a diverse
agenzie (...) della piazza di Roma falsi ordini di liquidazione di pratiche di
successione - apparentemente disposte dall’area funzionale legale del centro
servizi che li disconosceva denunciando i fatti alla competente autorità - era
emerso che esso (...), quando era addetto all’Area funzionale legale:
- nel periodo
gennaio 2003 - febbraio 2004 aveva effettuato dal terminale in dotazione e con
la sua password ben 243 inquiry informativi (richieste di saldi ed estratti
conto) sui conti correnti correlati alle pratiche di successione oggetto delle
anzidette truffe/tentativi di truffa, senza che ve ne fosse alcuna necessità
per motivi di lavoro (infatti si trattava di posizioni immobilizzate da anni a
causa della irreperibilità degli eredi e per le quali non erano sopravvenuti
elementi di novità);
- aveva eseguito
tali inquiry quasi ogni giorno, talvolta anche per più volte al giorno -
intervallandoli con un notevolissimo numero di accessi sui suoi conti personali
- per la maggior parte in date prossime agli anzidetti eventi criminosi, come
dettagliato e riportato in ricorso.
Quindi, espone
il ricorrente, nella lettera di contestazione si affermava che, in relazione a
tutti i suddetti fatti, che evidenziavano un diretto coinvolgimento del Galante
nelle truffe e nei tentativi di truffa di cui all’inizio, veniva aperto un
procedimento disciplinari nei confronti dello stesso.
Riporta, inoltre
che la BNL, esponeva che nel corso degli anzidetti accertamenti era emersa una
abnorme movimentazione dei conti correnti intestati al Galante, non correlata
allo status di dipendente di banca, sia per entità che per tipologia di
operazioni, come specificato e riportato in ricorso.
Con successiva
missiva del 23 novembre 2004 veniva irrogato il licenziamento per giusta causa,
atteso il venir meno dell’elemento fiduciario che era alla base del rapporto di
lavoro.
Tanto premesso,
il (...) con ampie deduzioni, che richiamavo passi della sentenza di primo
grado e proprie difese, censura la sentenza di appello per aver ritenuto, in contrasto
con la comunicazione del 23 giugno 2004, che non era stata espressa alcuna
accusa al Galante di diretto coinvolgimento nelle truffe perpetrate, ma che ciò
non era necessario in quanto oggetto della contestazione era l’anomalia dei
comportamenti così segnalati nelle suddette circostanze di fatto di per sé
sufficienti a costituire illecito disciplinare in assenza di adeguate
spiegazioni da parte del dipendente e tali da prospettare chiaramente il
sospetto quantomeno di una connivenza.
La pronuncia della
Corte d’Appello di Perugia sarebbe incorsa in vizio di motivazione, e
violazione dell’art. 2106 cc, in ordine al principio di proporzionalità tra
infrazione e sanzione.
3. Il motivo non
è fondato e deve essere rigettato.
La statuizione
della Corte d’Appello, oggetto del suddetto primo motivo di ricorso, è stata
effettuata nel vagliare la dedotta, da parte dell’appellante, mancanza di
specificità della contestazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del
1970, né il (...) ha prospettato, riproducendolo nel presente ricorso, un
diverso motivo di appello, a cui andava ricondotta la statuizione oggi
impugnata, in contrasto con quanto affermato dal giudice di appello.
Questa Corte,
con riguardo alla specificità, ha avuto modo di affermare che la previa
contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti
qualificabili come disciplinari, non richiede l’osservanza di schemi
prestabiliti e rigidi, ed ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata
difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è
integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per
individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di
lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in
violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.; l’accertamento
relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto
di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la
verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito
(cfr., Cass., n. 5115 del 2010, n. 11045 del 2004) ha ritenuto la stessa
sussistente.
La Corte
d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, con congrua
motivazione, laddove ha affermato che le interrogazioni informatiche, nella
lettera di addebito, erano state poste in diretta correlazione con gli episodi
di truffa, consumati o tentati; veniva data indicazione specifica del numero
degli accessi per ogni singolo conto, era stata prospettata la non
giustificatezza di tali accessi, soprattutto in relazione al numero ed alla
circostanza che i depositi erano inoperosi da anni; era stata fatta espressa
menzione della illiceità delle operazioni di prelievo eseguite e della
circostanza che le relative pratiche erano state asportate.
Anche
l’affermazione, circa la mancanza di una espressa accusa al (...) di un diretto
coinvolgimento nelle truffe perpetrate, che, espone il (...) sarebbe stata,
invece, presente nella lettera di contestazione, si inscrive sempre nella
valutazione della specificità della contestazione, e non presenta la dedotta
contraddittorietà, considerato che la Corte d’Appello, nella prima parte dei
"motivi della decisione", precisa la contestazione nell’avere il
dipendente effettuato dal terminale in propria dotazione, e con la propria
password 243, ingiustificate indagini informative su conti correnti, correlati
a pratiche di successione, e fatti oggetto di prelievi abusivi, consumati o
tentati, e, quindi, ritiene la specificità della contestazione, in quanto
oggetto della stessa era l’anomalia dei comportamenti in questione, di per sé
sufficienti, peraltro, a costituire illecito disciplinare in assenza di
adeguate spiegazioni, e tali da prospettare chiaramente il sospetto quantomeno
di una connivenza.
Occorre, quindi,
ricordare che la giusta causa di licenziamento è nozione legale.
Il giudice può
ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un
grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o
del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave
comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di
legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto
fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass., n. 4060 del 2011).
L’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata
solamente in presenza d’un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali,
ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto
di lavoro.
Come si è
accennato, la valutazione della gravita del comportamento e della sua idoneità
a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel
proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità
del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al
rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento
soggettivo) è funzione del giudice del merito, che, adeguatamente motivata,
come nel caso di specie, in sede di legittimità è insindacabile.
4. Con il
secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 5 della legge n.
604 del 1966, e dell’art. 2967 cc. Contraddittoria e insufficiente motivazione
su un punto controverso e decisivo del giudizio.
Il ricorrente
censura la decisione della Corte d’Appello in quanto la stessa, con carente motivazione,
avrebbe disatteso l’art. 2697 cc, che onera il datore di lavoro della prova del
fatto posto alla base della sanzione disciplinare, nella specie con riguardo
alla effettuazione degli accessi da parte del (...).
Dalla
documentazione in atti (documento 12/a allegato alla relazione ispettiva del 31
maggio 2004, la cui produzione in giudizio era ordinata dal Tribunale con
ordinanza del 28 agosto 2006, ordine ottemperato da esso Galante con deposito
del 5 dicembre 2006), assume il ricorrente, risultava un numero di gran lunga
inferiore di complessive interrogazioni e la comparazione con l’attività degli
altri colleghi era priva di riscontro, né poteva assumere rilievo
l’affermazione della Corte d’Appello che il (...) aveva la concreta possibilità
di esaminare e sottrarre le pratiche relative ai conti in questione.
La Corte
d’Appello avrebbe operato un acritico e asettico recepimento delle
argomentazioni del Tribunale, omettendo di analizzare le argomentazioni di esso
ricorrente.
Il vizio di
motivazione emergerebbe, altresì nella mancata ammissione dei mezzi di prova
chiesti nei precedenti gradi di giudizio.
5. Occorre
premettere che è inammissibile la censura prospettata nel suddetto motivo con
riguardo alla mancata ammissione dei mezzi di prova che sarebbero stati
richiesti nei precedenti gradi di giudizio, perché il ricorrente si limita a
riferimenti generici, senza indicare specificamente, anche ai fini della
rilevanza degli stessi, quando tali mezzi sarebbero stati richiesti e quale
specifico oggetto avrebbero avuto.
Inammissibile è
anche la censura relativa alla valutazione della prova documentale e per testi,
prodotta ed espletata in primo grado (tabulato prodotto in primo grado circa il
numero delle interrogazioni, teste (...) escusso in primo grado), atteso che il
(...) non ha dedotto di aver censurato con specifico motivo d’appello, che
avrebbe dovuto riprodurre nel presente ricorso, le risultanze istruttorie in
questione.
Nel resto il
motivo non è fondato.
Assume il
ricorrente che il datore di lavoro avrebbe dovuto dare la prova diretta che gli
accessi erano stati fatti da esso dipendente.
La censura non
può trovare accoglimento.
In tema di
licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il
fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con
riferimento all’elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a
quest’ultimo la prova di una esimente (cfr., Cass., n. 4368 del 2009).
Nella specie, a
fronte della prova datoriale della riferibilità al (...) della postazione
computer dalla quale venivano fatti gli accessi ingiustificati (lo stesso
ricorrente, contesta nella parte finale del ricorso l’uso esclusivo, non l’uso
della postazione computer), circa l’effettuazione degli accessi, come affermato
dalla Corte d’Appello, il (...) avrebbe dovuto indicare almeno le ragioni e le
circostanze per cui qualcun altro avrebbe ipoteticamente conosciuto le sue
chiavi informatiche di accesso ed utilizzato la sua postazione, al fine di
accentrare su di esso ricorrente i sospetti.
6. Il ricorso
non è fondato e deve essere rigettato.
7. Le spese
seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il
ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che
liquida in euro cento per esborsi, euro tremilacinquecento per compensi
professionali, oltre accessori come per legge.
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