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sabato 6 giugno 2015

Licenziamento disciplinare: la previa contestazione dell’addebito non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti

Nella sentenza n.11206 del 29 maggio 2015, la Corte di Cassazione ha ribadito che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, ed ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari.

Corte di Cassazione – Sentenza n.11206 del 29 maggio 2015

Svolgimento del processo

1. La Corte d’Appello di Perugia, con la sentenza n. 519/10, decidendo sull’impugnazione proposta da (...) nei confronti della (...) in ordine alla sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Perugia il 9 dicembre 2009 rigettava l’appello.

2. Il (...), al quale era stato contestato di aver effettuato dal terminale in sua dotazione, e con la password 243, ingiustificate indagini informative su conti correnti, correlati a pratiche di successione, e fatti oggetto di prelievi abusivi, consumati o tentati, aveva impugnato dinanzi al Tribunale il licenziamento intimatogli dalla (...) con lettera pervenuta il 9 dicembre 2004, e aveva chiesto che ne fosse dichiarata l’illegittimità.

In subordine, chiedeva che fosse affermato che il licenziamento era avvenuto per giustificato motivo soggettivo, con condanna della Banca a versargli l’indennità per mancato preavviso e l’indennità di malattia dal 3 dicembre 2004 all’ 11 marzo 2005, ovvero in ulteriore subordine, la sola indennità di malattia.

3. Il Tribunale di Perugia aveva respinto le domande.

4. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre (...) prospettando due motivi di impugnazione.

5. La (...) resiste con controricorso, assistito da memoria depositata in prossimità dell’udienza.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, e dell’art. 2119 cc; la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 cc. Omessa, insufficiente e illogica motivazione ex art. 360 cpc, n. 5, su fatti controversi e decisivi della causa.

2. Il ricorrente ricorda il contenuto della lettera di contestazione dell’addebito del 23 giugno 2004, con la quale si faceva presente che, da indagini svolte dalla direzione Auditing in merito a truffe/tentativi di truffe perpetrati inoltrando a diverse agenzie (...) della piazza di Roma falsi ordini di liquidazione di pratiche di successione - apparentemente disposte dall’area funzionale legale del centro servizi che li disconosceva denunciando i fatti alla competente autorità - era emerso che esso (...), quando era addetto all’Area funzionale legale:

- nel periodo gennaio 2003 - febbraio 2004 aveva effettuato dal terminale in dotazione e con la sua password ben 243 inquiry informativi (richieste di saldi ed estratti conto) sui conti correnti correlati alle pratiche di successione oggetto delle anzidette truffe/tentativi di truffa, senza che ve ne fosse alcuna necessità per motivi di lavoro (infatti si trattava di posizioni immobilizzate da anni a causa della irreperibilità degli eredi e per le quali non erano sopravvenuti elementi di novità);

- aveva eseguito tali inquiry quasi ogni giorno, talvolta anche per più volte al giorno - intervallandoli con un notevolissimo numero di accessi sui suoi conti personali - per la maggior parte in date prossime agli anzidetti eventi criminosi, come dettagliato e riportato in ricorso.

Quindi, espone il ricorrente, nella lettera di contestazione si affermava che, in relazione a tutti i suddetti fatti, che evidenziavano un diretto coinvolgimento del Galante nelle truffe e nei tentativi di truffa di cui all’inizio, veniva aperto un procedimento disciplinari nei confronti dello stesso.

Riporta, inoltre che la BNL, esponeva che nel corso degli anzidetti accertamenti era emersa una abnorme movimentazione dei conti correnti intestati al Galante, non correlata allo status di dipendente di banca, sia per entità che per tipologia di operazioni, come specificato e riportato in ricorso.

Con successiva missiva del 23 novembre 2004 veniva irrogato il licenziamento per giusta causa, atteso il venir meno dell’elemento fiduciario che era alla base del rapporto di lavoro.

Tanto premesso, il (...) con ampie deduzioni, che richiamavo passi della sentenza di primo grado e proprie difese, censura la sentenza di appello per aver ritenuto, in contrasto con la comunicazione del 23 giugno 2004, che non era stata espressa alcuna accusa al Galante di diretto coinvolgimento nelle truffe perpetrate, ma che ciò non era necessario in quanto oggetto della contestazione era l’anomalia dei comportamenti così segnalati nelle suddette circostanze di fatto di per sé sufficienti a costituire illecito disciplinare in assenza di adeguate spiegazioni da parte del dipendente e tali da prospettare chiaramente il sospetto quantomeno di una connivenza.

La pronuncia della Corte d’Appello di Perugia sarebbe incorsa in vizio di motivazione, e violazione dell’art. 2106 cc, in ordine al principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione.

3. Il motivo non è fondato e deve essere rigettato.

La statuizione della Corte d’Appello, oggetto del suddetto primo motivo di ricorso, è stata effettuata nel vagliare la dedotta, da parte dell’appellante, mancanza di specificità della contestazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300 del 1970, né il (...) ha prospettato, riproducendolo nel presente ricorso, un diverso motivo di appello, a cui andava ricondotta la statuizione oggi impugnata, in contrasto con quanto affermato dal giudice di appello.

Questa Corte, con riguardo alla specificità, ha avuto modo di affermare che la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti qualificabili come disciplinari, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, ed ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c.; l’accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un’indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (cfr., Cass., n. 5115 del 2010, n. 11045 del 2004) ha ritenuto la stessa sussistente.

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione dei suddetti principi, con congrua motivazione, laddove ha affermato che le interrogazioni informatiche, nella lettera di addebito, erano state poste in diretta correlazione con gli episodi di truffa, consumati o tentati; veniva data indicazione specifica del numero degli accessi per ogni singolo conto, era stata prospettata la non giustificatezza di tali accessi, soprattutto in relazione al numero ed alla circostanza che i depositi erano inoperosi da anni; era stata fatta espressa menzione della illiceità delle operazioni di prelievo eseguite e della circostanza che le relative pratiche erano state asportate.

Anche l’affermazione, circa la mancanza di una espressa accusa al (...) di un diretto coinvolgimento nelle truffe perpetrate, che, espone il (...) sarebbe stata, invece, presente nella lettera di contestazione, si inscrive sempre nella valutazione della specificità della contestazione, e non presenta la dedotta contraddittorietà, considerato che la Corte d’Appello, nella prima parte dei "motivi della decisione", precisa la contestazione nell’avere il dipendente effettuato dal terminale in propria dotazione, e con la propria password 243, ingiustificate indagini informative su conti correnti, correlati a pratiche di successione, e fatti oggetto di prelievi abusivi, consumati o tentati, e, quindi, ritiene la specificità della contestazione, in quanto oggetto della stessa era l’anomalia dei comportamenti in questione, di per sé sufficienti, peraltro, a costituire illecito disciplinare in assenza di adeguate spiegazioni, e tali da prospettare chiaramente il sospetto quantomeno di una connivenza.

Occorre, quindi, ricordare che la giusta causa di licenziamento è nozione legale.

Il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass., n. 4060 del 2011). L’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza d’un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Come si è accennato, la valutazione della gravita del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo) è funzione del giudice del merito, che, adeguatamente motivata, come nel caso di specie, in sede di legittimità è insindacabile.

4. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta la violazione dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966, e dell’art. 2967 cc. Contraddittoria e insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo del giudizio.

Il ricorrente censura la decisione della Corte d’Appello in quanto la stessa, con carente motivazione, avrebbe disatteso l’art. 2697 cc, che onera il datore di lavoro della prova del fatto posto alla base della sanzione disciplinare, nella specie con riguardo alla effettuazione degli accessi da parte del (...).

Dalla documentazione in atti (documento 12/a allegato alla relazione ispettiva del 31 maggio 2004, la cui produzione in giudizio era ordinata dal Tribunale con ordinanza del 28 agosto 2006, ordine ottemperato da esso Galante con deposito del 5 dicembre 2006), assume il ricorrente, risultava un numero di gran lunga inferiore di complessive interrogazioni e la comparazione con l’attività degli altri colleghi era priva di riscontro, né poteva assumere rilievo l’affermazione della Corte d’Appello che il (...) aveva la concreta possibilità di esaminare e sottrarre le pratiche relative ai conti in questione.

La Corte d’Appello avrebbe operato un acritico e asettico recepimento delle argomentazioni del Tribunale, omettendo di analizzare le argomentazioni di esso ricorrente.

Il vizio di motivazione emergerebbe, altresì nella mancata ammissione dei mezzi di prova chiesti nei precedenti gradi di giudizio.

5. Occorre premettere che è inammissibile la censura prospettata nel suddetto motivo con riguardo alla mancata ammissione dei mezzi di prova che sarebbero stati richiesti nei precedenti gradi di giudizio, perché il ricorrente si limita a riferimenti generici, senza indicare specificamente, anche ai fini della rilevanza degli stessi, quando tali mezzi sarebbero stati richiesti e quale specifico oggetto avrebbero avuto.

Inammissibile è anche la censura relativa alla valutazione della prova documentale e per testi, prodotta ed espletata in primo grado (tabulato prodotto in primo grado circa il numero delle interrogazioni, teste (...) escusso in primo grado), atteso che il (...) non ha dedotto di aver censurato con specifico motivo d’appello, che avrebbe dovuto riprodurre nel presente ricorso, le risultanze istruttorie in questione.

Nel resto il motivo non è fondato.

Assume il ricorrente che il datore di lavoro avrebbe dovuto dare la prova diretta che gli accessi erano stati fatti da esso dipendente.

La censura non può trovare accoglimento.

In tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità, sia con riferimento all’elemento psicologico del lavoratore, mentre spetta a quest’ultimo la prova di una esimente (cfr., Cass., n. 4368 del 2009).

Nella specie, a fronte della prova datoriale della riferibilità al (...) della postazione computer dalla quale venivano fatti gli accessi ingiustificati (lo stesso ricorrente, contesta nella parte finale del ricorso l’uso esclusivo, non l’uso della postazione computer), circa l’effettuazione degli accessi, come affermato dalla Corte d’Appello, il (...) avrebbe dovuto indicare almeno le ragioni e le circostanze per cui qualcun altro avrebbe ipoteticamente conosciuto le sue chiavi informatiche di accesso ed utilizzato la sua postazione, al fine di accentrare su di esso ricorrente i sospetti.

6. Il ricorso non è fondato e deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro cento per esborsi, euro tremilacinquecento per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

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