Tribunale di Chieti – Sentenza n.224 del 28 maggio
2015
Ragioni di fatto
e di diritto della decisione
Con ricorso
depositato il 09.01.2014 la ricorrente esponeva:
- di aver
lavorato alle dipendenze della società resistente dal 2003 al 25.06.2013 con la
mansione di infermiera caposala;
- di aver
vissuto un profondo malessere psicologico a partire da ottobre 2012, a seguito
dell’inserimento presso il centro dialisi di Francavilla al Mare della figura
del site manager nella persona del dott. A. S.;
- di essere
stata esclusa dalla partecipazione alle riunioni;
- di essere
stata progressivamente privata delle funzioni di caposala, assegnate a R. M.;
- di essere
stata isolata ed emarginata dagli altri colleghi;
- di essere
stata vittima di un comportamenti vessatori e persecutori, finalizzati ad
ottenere le sue dimissioni, rassegnate il 25.06.2013.
La ricorrente
deduceva, quindi, di aver sviluppato per effetto della condotte vessatorie
poste in esse dal datore di lavoro, una depressione e un disturbo da attacchi
di panico e chiedeva, pertanto, la condanna della parte resistente al
risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa del
denunciato mobbing.
La D. Italia srl
si costituiva in giudizio, contestando i fatti dedotti a fondamento delle
domande e chiedendo l’integrale rigetto del ricorso.
Acquisita la
documentazione ed escussi i testimoni, sulle conclusioni delle parti da
intendersi in questa sede integralmente trascritte, la causa veniva discussa e
decisa come da dispositivo e contestuale motivazione pubblicamente letti.
Il ricorso è
infondato e va pertanto rigettato per le ragioni di seguito esposte.
La ricorrente ha
allegato la sussistenza di condotte vessatorie e persecutorie integranti la
fattispecie del c.d. mobbing.
Orbene, senza
volersi addentrare nelle specifiche problematiche e definizioni del fenomeno, è
sufficiente in questa sede osservare che sia nella giurisprudenza di merito che
in quella di legittimità, è stata affermata la responsabilità datoriale ex art.
2087 c.c., in presenza di sistematici e reiterati comportamenti ostili, posti
in essere con la precipua finalità di prevaricare e perseguitare
psicologicamente il lavoratore. "Per mobbing si intende comunemente una
condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e
protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di
lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che
finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica,
da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del
dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso
della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del
datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti
di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati
singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico
e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo
della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la
condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità
psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè
dell'intento persecutorio" (cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, 17/02/2009, n.
3785; Cass. civ., sez. lavoro, sent. n. 17698 del 06/08/2014).
"Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e
protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di
lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi,
idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi,
sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di
arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. (Nella
specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, come adeguatamente
motivato dalla corte territoriale, non ricorressero gli estremi della condotta
mobbizzante nella mera denegata partecipazione ai corsi professionali, in sé gestiti
con metodo clientelare, nonché nell'omessa dotazione di supporti informatici
per lo svolgimento dell'attività professionale e nella messa a disposizione di
ambienti di lavoro particolarmente ristretti, attesa l'assenza della prova di
una esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista
di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento
persecutorio- Cass. civ., sez. lavoro, sent. n. 18836 del 07/08/2013).
Ancora, la
giurisprudenza di legittimità ha affermato che "la condotta datoriale
sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche
vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e della personalità morale del
prestatore di lavoro, tutelate dall'art. 2087 c.c., rappresenta una violazione
dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma a carico del datore. Tale
illecito si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del
datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi
contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La
sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere
verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in
giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta del
datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata
dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e
discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e
pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti
alla tutela del lavoratore subordinato" ( cfr. Cass. civ., Sez. lavoro,
06/03/2006, n. 4774).
Non può, invece,
ritenersi sussistente un’ipotesi di mobbing in presenza di una fisiologica
situazione di conflittualità che può instaurarsi in un ambiente di lavoro a
causa di incomprensioni o tensioni dovute ad una diversità di vedute.
Come più volte
precisato dalla giurisprudenza di legittimità, l'art. 2087 c.c. è una norma di
chiusura del sistema, che impone al datore di lavoro di adottare tutte le
cautele necessarie a preservare l’integrità psicofisica e la personalità del
lavoratore, valori questi di rilevanza costituzionale.
Dalla natura
contrattuale della dedotta responsabilità ex art. 2087 c.c. della società
resistente e dall’applicazione del principio generale sancito dall’art. 2697
c.c., discende che la ricorrente è onerata dell'allegazione e della prova dei
fatti costituenti inadempimento dell'obbligo di sicurezza, ossia dei
comportamenti posti in essere con intento persecutorio, dei danni subiti e del
nesso causale tra tali danni e gli inadempimenti prospettati, mentre la
resistente ha l'onere di allegare e dimostrare di aver adempiuto al generale
obbligo di sicurezza a suo carico, ossia di aver adottato le idonee misure
protettive e preventive. In particolare si è affermato che "l'art. 2087
cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la
responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi
di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze
sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che
lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla
salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività
dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il
lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di
lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad
impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è
ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Né la riconosciuta dipendenza
delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o
può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di
insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla
qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal
logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per
un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art.
2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri
probabilistici e non solo possibilistici" (Cass. civ., sez. lavoro, sent.
n. 20138/2013).
L’esame del
materiale istruttorio acquisito sia in forma orale che documentale, porta ad
affermare che non via sia alcuna prova dell’esistenza nella specie dei tratti
caratterizzanti la fattispecie "mobbing", rappresentati dalla
reiterazione e sistematicità di condotte ostili e dall'intenzionalità della
strategia persecutoria finalizzata all'emarginazione del lavoratore. Occorre in
primo luogo esaminare i singoli episodi denunciati dalla ricorrente come
"parti" di un più ampio disegno criminoso, onde verificare se agli
stessi, valutati singolarmente e nel loro complesso, possa attribuirsi quel
carattere di illiceità posto a base della domanda di risarcimento dei danni.
La ricorrente ha
lamentato di essere stata vittima di atteggiamenti di aperta ostilità e di
distacco da parte del site manager A. S. e, in particolare, di essere stata
esclusa dalla partecipazione alle riunioni del personale, tenute a porte chiuse
sempre in orari in cui la ricorrente era assente. La S. ha dedotto, inoltre, di
essere stata destinataria di una contestazione disciplinare e di essere stata
progressivamente privata - a partire dal novembre del 2012 - del ruolo di
caposala, affidato all’infermiera R. M., di non essere stata invitata alla cena
di Natale del 2012, di essere stata vittima di trattamenti irriguardosi da
parte del dott. L. Di L. e del dott. A. S., in occasione della riunione
tenutasi il 21.02.2013. I fatti allegati in ricorso non hanno trovato riscontro
probatorio, atteso che l’unica testimone che ha confermato - peraltro solo in
parte - alcuni degli episodi descritti in ricorso, è M. D’A., le cui
dichiarazioni contrastano tuttavia con quanto dichiarato da tutti gli altri
testimoni. In particolare la testimone D’A. ha dichiarato che il sig. S.
evitava di salutare la ricorrente e convocava gli infermieri nella propria
stanza per delle riunioni sempre di sera, ossia quando la ricorrente non era in
servizio. La testimone ha poi dichiarato di avere assistito a litigi tra la
ricorrente e la M. sulla predisposizione dei turni di lavoro e di aver visto la
M. predisporre i turni di lavoro al posto della ricorrente e partecipare al
giro delle visite al posto della ricorrente. La testimone ha poi riferito di un
atteggiamento di distacco da parte degli altri colleghi nei confronti della
ricorrente a partire dal suo rientro al lavoro dopo la malattia (novembre
2012). Il testimone Bianchini ha riferito di un atteggiamento generale di
ostilità nei confronti della ricorrente da parte dei colleghi, precisando che
gli stessi non rispondevano alle sue domande e non le rivolgevano la parola.
Ebbene, anche ove si volessero ritenere provati i fatti riferiti dai predetti
testimoni, gli stessi potrebbero al più ritenersi sintomatici di una situazione
di conflittualità venutasi a creare nei rapporti tra la S. e i suoi colleghi di
lavoro, ma non anche indicativi dell’esistenza di un disegno persecutorio
attuato dalla società resistente. Ciò è tanto più vero ove si consideri che i
testimoni Luigi Amoroso e A. S., hanno confermato che vi era molta
conflittualità tra la caposala e gli altri infermieri e che tale situazione non
consentiva di svolgere serenamente l’attività lavorativa all’interno del
centro, sì da rendere necessaria una richiesta di intervento alla direzione
della D.. I predetti testimoni hanno riferito di aver ricevuto più volte
lamentele da parte di tutto il personale infermieristico per atteggiamenti
autoritari della ricorrente e di avere per tale motivo richiesto alla società resistente
di adottare una soluzione che riportasse la serenità all’interno del centro. La
sussistenza di una situazione di alta conflittualità, è comprovata anche dalla
lettera inviata alla società resistente da parte di tutti gli infermieri del
centro dialisi di Francavilla al Mare, nella quale vengono denunciate
prevaricazioni e disparità di trattamento da parte della ricorrente, nonché il
clima di scarsa collaborazione e sfiducia dalla stessa creato (doc. 31 fasc.
res.).
I testimoni S. e
Amoroso, del tutto disinteressati all’esito della lite, trattandosi di medici
dipendenti della ASL di Cheti, i quali prestano servizio presso il centro
dialisi di Francavilla al Mare in forza di una convenzione stipulata con la
società resistente, hanno dichiarato di non aver mai escluso la ricorrente
dalle attività del centro e di aver sempre fatto riferimento alla S. per tutte
le attività di caposala. In particolare il testimone Amoroso ha riferito:
nell’ambito del personale infermieristico la M. era quella che aveva maggiore
anzianità ed esperienza, per cui in assenza della ricorrente sia io che il
dott. S. ci rivolgevamo a lei. Da quello che mi risulta la M. ha assunto la
funzione di coordinamento del personale infermieristico quando la ricorrente è
andata via e nel periodo in cui la stessa è stata assente. Per quanto riguarda
il giro delle visite, io chiamavo la ricorrente se c’era; se non c’era chiamavo
la M. e se non c’era la M. altra infermiera. Anche dopo il rientro dalla
malattia la ricorrente ha continuato a svolgere l’attività di coordinatrice del
personale infermieristico....per quanto riguarda me, non è vero che non
coinvolgevo la ricorrente. Quando era presente io mi rivolgevo sempre a
lei...la ricorrente aveva i codici di accesso al computer per la gestione amministrativa
dei pazienti e degli ordini. Poiché vi era la necessità di formare anche altro
personale nell’eventualità che fosse necessario impiegarlo in altro centro
dialisi, abbiamo chiesto alla ricorrente di dare alla M. le password di accesso
al computer. Questo anche per consentire alla M. di sostituire adeguatamente la
ricorrente in caso di sua assenza...sia io che il dott. S. facemmo presente che
il clima che si era creato all’interno del centro non ci piaceva e invitai la
ricorrente a rivedere alcuni suoi atteggiamenti. In particolare, moliti
infermieri si erano lamentati con me del fatto che la ricorrente non
partecipava alle operazioni di inizio e fine dialisi e si recava al lavoro dopo
l’inizio della dialisi alle 8.00 circa. Qualcuno si era lamentato anche delle
modalità di determinazione dei turni e dell’atteggiamento eccessivamente
autoritario della ricorrente. Si lamentarono anche del fatto che la ricorrente
minacciava di prendere provvedimenti disciplinari. In occasione della riunione
riferimmo di queste lamentele alla ricorrente, la quale negò alcuni degli
episodi che noi le riferimmo, rimanendo ferma nelle sue posizioni.
Dichiarazioni di contenuto analogo ha reso anche il testimone S., il quale ha
precisato, come peraltro riferito anche da altri testimoni, che in occasione
della riunione del 21.02.2013, venne semplicemente chiesto alla ricorrente di
entrare in sala dialisi solo per eseguire il trattamento e non per parlare con
i pazienti e ciò in quanto "alcune volte la S. entrava in sala e cominciava
a parlare con i pazienti all’inizio o durante il trattamento, cosa non sempre
opportuna".
Alla luce di
quanto precede, deve escludersi che nei comportamenti dedotti dalla ricorrente,
sia singolarmente che unitariamente considerati, possano ravvisarsi gli estremi
del mobbing. Non sono emersi, infatti, dati di fatto tali da far ritenere
effettivamente vessatoria e persecutoria la condotta del datore di lavoro,
perché non vi è prova di una sistematica preordinazione di ogni singolo atto
all’emarginazione e all’isolamento della ricorrente, per cui le condotte
denunciate non vanno al di là di una situazione oggettivamente conflittuale,
originata probabilmente, da rapporti non distesi con i colleghi d lavoro, in
parte dovuti, a parere di chi scrive, anche alla difficoltà da parte della
ricorrente di accettare le critiche e le lamentele da parte dei colleghi di
lavoro.
L’inesistenza di
condotte vessatorie porta al rigetto della domanda di risarcimento dei danni.
Per le medesime ragioni deve rigettarsi anche la domanda di condanna al
pagamento dell’indennità di mancato preavviso, non essendovi prova alcuna della
sussistenza di una giusta causa di dimissioni da parte della ricorrente.
Il ricorso va
pertanto rigettato.
Le spese di lite
seguono la soccombenza e sono poste a carico della ricorrente nella misura
liquidata in dispositivo, secondo le previsioni di cui al D.M. n. 55/14 (cause
di lavoro-valore medio-scaglione da 52.000,01 a 260.000,00 euro).
P.Q.M.
In persona della
dott.ssa Ilaria Prozzo, definitivamente pronunciando, così provvede:
rigetta il
ricorso;
condanna la
ricorrente al rimborso in favore della parte resistente delle spese di lite,
liquidate in € 12.756,00, oltre rimborso spese forfetarie nella misura del 15%,
iva e cpa come per legge.
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