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sabato 6 giugno 2015

Non necessariamente una situazione di conflittualità può sfociare nel mobbing

Nella sentenza n.224 del 28 maggio 2015, il Tribunale di Chieti ha escluso che possa sussistere un’ipotesi di mobbing in presenza di una fisiologica situazione di conflittualità che può instaurarsi in un ambiente di lavoro a causa di incomprensioni o tensioni dovute ad una diversità di vedute.

Tribunale di Chieti – Sentenza n.224 del 28 maggio 2015

Ragioni di fatto e di diritto della decisione

Con ricorso depositato il 09.01.2014 la ricorrente esponeva:

- di aver lavorato alle dipendenze della società resistente dal 2003 al 25.06.2013 con la mansione di infermiera caposala;

- di aver vissuto un profondo malessere psicologico a partire da ottobre 2012, a seguito dell’inserimento presso il centro dialisi di Francavilla al Mare della figura del site manager nella persona del dott. A. S.;

- di essere stata esclusa dalla partecipazione alle riunioni;

- di essere stata progressivamente privata delle funzioni di caposala, assegnate a R. M.;

- di essere stata isolata ed emarginata dagli altri colleghi;

- di essere stata vittima di un comportamenti vessatori e persecutori, finalizzati ad ottenere le sue dimissioni, rassegnate il 25.06.2013.

La ricorrente deduceva, quindi, di aver sviluppato per effetto della condotte vessatorie poste in esse dal datore di lavoro, una depressione e un disturbo da attacchi di panico e chiedeva, pertanto, la condanna della parte resistente al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa del denunciato mobbing.

La D. Italia srl si costituiva in giudizio, contestando i fatti dedotti a fondamento delle domande e chiedendo l’integrale rigetto del ricorso.

Acquisita la documentazione ed escussi i testimoni, sulle conclusioni delle parti da intendersi in questa sede integralmente trascritte, la causa veniva discussa e decisa come da dispositivo e contestuale motivazione pubblicamente letti.

Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato per le ragioni di seguito esposte.

La ricorrente ha allegato la sussistenza di condotte vessatorie e persecutorie integranti la fattispecie del c.d. mobbing.

Orbene, senza volersi addentrare nelle specifiche problematiche e definizioni del fenomeno, è sufficiente in questa sede osservare che sia nella giurisprudenza di merito che in quella di legittimità, è stata affermata la responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., in presenza di sistematici e reiterati comportamenti ostili, posti in essere con la precipua finalità di prevaricare e perseguitare psicologicamente il lavoratore. "Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, 17/02/2009, n. 3785; Cass. civ., sez. lavoro, sent. n. 17698 del 06/08/2014). "Costituisce mobbing la condotta del datore di lavoro, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva, sul piano oggettivo, in sistematici e reiterati abusi, idonei a configurare il cosiddetto terrorismo psicologico, e si caratterizzi, sul piano soggettivo, con la coscienza ed intenzione del datore di lavoro di arrecare danni - di vario tipo ed entità - al dipendente medesimo. (Nella specie, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto che, come adeguatamente motivato dalla corte territoriale, non ricorressero gli estremi della condotta mobbizzante nella mera denegata partecipazione ai corsi professionali, in sé gestiti con metodo clientelare, nonché nell'omessa dotazione di supporti informatici per lo svolgimento dell'attività professionale e nella messa a disposizione di ambienti di lavoro particolarmente ristretti, attesa l'assenza della prova di una esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio- Cass. civ., sez. lavoro, sent. n. 18836 del 07/08/2013).

Ancora, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che "la condotta datoriale sistematica e protratta nel tempo che concreta, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell'integrità fisica e della personalità morale del prestatore di lavoro, tutelate dall'art. 2087 c.c., rappresenta una violazione dell'obbligo di sicurezza posto da questa norma a carico del datore. Tale illecito si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro indipendentemente dall'inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato. La sussistenza della lesione del bene protetto e delle sue conseguenze deve essere verificata - procedendosi alla valutazione complessiva degli episodi dedotti in giudizio come lesivi - considerando l'idoneità offensiva della condotta del datore di lavoro, che può essere dimostrata, per la sistematicità e durata dell'azione nel tempo, dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione, risultanti specificamente da una connotazione emulativa e pretestuosa, anche in assenza della violazione di specifiche norme attinenti alla tutela del lavoratore subordinato" ( cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, 06/03/2006, n. 4774).

Non può, invece, ritenersi sussistente un’ipotesi di mobbing in presenza di una fisiologica situazione di conflittualità che può instaurarsi in un ambiente di lavoro a causa di incomprensioni o tensioni dovute ad una diversità di vedute.

Come più volte precisato dalla giurisprudenza di legittimità, l'art. 2087 c.c. è una norma di chiusura del sistema, che impone al datore di lavoro di adottare tutte le cautele necessarie a preservare l’integrità psicofisica e la personalità del lavoratore, valori questi di rilevanza costituzionale.

Dalla natura contrattuale della dedotta responsabilità ex art. 2087 c.c. della società resistente e dall’applicazione del principio generale sancito dall’art. 2697 c.c., discende che la ricorrente è onerata dell'allegazione e della prova dei fatti costituenti inadempimento dell'obbligo di sicurezza, ossia dei comportamenti posti in essere con intento persecutorio, dei danni subiti e del nesso causale tra tali danni e gli inadempimenti prospettati, mentre la resistente ha l'onere di allegare e dimostrare di aver adempiuto al generale obbligo di sicurezza a suo carico, ossia di aver adottato le idonee misure protettive e preventive. In particolare si è affermato che "l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici" (Cass. civ., sez. lavoro, sent. n. 20138/2013).

L’esame del materiale istruttorio acquisito sia in forma orale che documentale, porta ad affermare che non via sia alcuna prova dell’esistenza nella specie dei tratti caratterizzanti la fattispecie "mobbing", rappresentati dalla reiterazione e sistematicità di condotte ostili e dall'intenzionalità della strategia persecutoria finalizzata all'emarginazione del lavoratore. Occorre in primo luogo esaminare i singoli episodi denunciati dalla ricorrente come "parti" di un più ampio disegno criminoso, onde verificare se agli stessi, valutati singolarmente e nel loro complesso, possa attribuirsi quel carattere di illiceità posto a base della domanda di risarcimento dei danni.

La ricorrente ha lamentato di essere stata vittima di atteggiamenti di aperta ostilità e di distacco da parte del site manager A. S. e, in particolare, di essere stata esclusa dalla partecipazione alle riunioni del personale, tenute a porte chiuse sempre in orari in cui la ricorrente era assente. La S. ha dedotto, inoltre, di essere stata destinataria di una contestazione disciplinare e di essere stata progressivamente privata - a partire dal novembre del 2012 - del ruolo di caposala, affidato all’infermiera R. M., di non essere stata invitata alla cena di Natale del 2012, di essere stata vittima di trattamenti irriguardosi da parte del dott. L. Di L. e del dott. A. S., in occasione della riunione tenutasi il 21.02.2013. I fatti allegati in ricorso non hanno trovato riscontro probatorio, atteso che l’unica testimone che ha confermato - peraltro solo in parte - alcuni degli episodi descritti in ricorso, è M. D’A., le cui dichiarazioni contrastano tuttavia con quanto dichiarato da tutti gli altri testimoni. In particolare la testimone D’A. ha dichiarato che il sig. S. evitava di salutare la ricorrente e convocava gli infermieri nella propria stanza per delle riunioni sempre di sera, ossia quando la ricorrente non era in servizio. La testimone ha poi dichiarato di avere assistito a litigi tra la ricorrente e la M. sulla predisposizione dei turni di lavoro e di aver visto la M. predisporre i turni di lavoro al posto della ricorrente e partecipare al giro delle visite al posto della ricorrente. La testimone ha poi riferito di un atteggiamento di distacco da parte degli altri colleghi nei confronti della ricorrente a partire dal suo rientro al lavoro dopo la malattia (novembre 2012). Il testimone Bianchini ha riferito di un atteggiamento generale di ostilità nei confronti della ricorrente da parte dei colleghi, precisando che gli stessi non rispondevano alle sue domande e non le rivolgevano la parola. Ebbene, anche ove si volessero ritenere provati i fatti riferiti dai predetti testimoni, gli stessi potrebbero al più ritenersi sintomatici di una situazione di conflittualità venutasi a creare nei rapporti tra la S. e i suoi colleghi di lavoro, ma non anche indicativi dell’esistenza di un disegno persecutorio attuato dalla società resistente. Ciò è tanto più vero ove si consideri che i testimoni Luigi Amoroso e A. S., hanno confermato che vi era molta conflittualità tra la caposala e gli altri infermieri e che tale situazione non consentiva di svolgere serenamente l’attività lavorativa all’interno del centro, sì da rendere necessaria una richiesta di intervento alla direzione della D.. I predetti testimoni hanno riferito di aver ricevuto più volte lamentele da parte di tutto il personale infermieristico per atteggiamenti autoritari della ricorrente e di avere per tale motivo richiesto alla società resistente di adottare una soluzione che riportasse la serenità all’interno del centro. La sussistenza di una situazione di alta conflittualità, è comprovata anche dalla lettera inviata alla società resistente da parte di tutti gli infermieri del centro dialisi di Francavilla al Mare, nella quale vengono denunciate prevaricazioni e disparità di trattamento da parte della ricorrente, nonché il clima di scarsa collaborazione e sfiducia dalla stessa creato (doc. 31 fasc. res.).

I testimoni S. e Amoroso, del tutto disinteressati all’esito della lite, trattandosi di medici dipendenti della ASL di Cheti, i quali prestano servizio presso il centro dialisi di Francavilla al Mare in forza di una convenzione stipulata con la società resistente, hanno dichiarato di non aver mai escluso la ricorrente dalle attività del centro e di aver sempre fatto riferimento alla S. per tutte le attività di caposala. In particolare il testimone Amoroso ha riferito: nell’ambito del personale infermieristico la M. era quella che aveva maggiore anzianità ed esperienza, per cui in assenza della ricorrente sia io che il dott. S. ci rivolgevamo a lei. Da quello che mi risulta la M. ha assunto la funzione di coordinamento del personale infermieristico quando la ricorrente è andata via e nel periodo in cui la stessa è stata assente. Per quanto riguarda il giro delle visite, io chiamavo la ricorrente se c’era; se non c’era chiamavo la M. e se non c’era la M. altra infermiera. Anche dopo il rientro dalla malattia la ricorrente ha continuato a svolgere l’attività di coordinatrice del personale infermieristico....per quanto riguarda me, non è vero che non coinvolgevo la ricorrente. Quando era presente io mi rivolgevo sempre a lei...la ricorrente aveva i codici di accesso al computer per la gestione amministrativa dei pazienti e degli ordini. Poiché vi era la necessità di formare anche altro personale nell’eventualità che fosse necessario impiegarlo in altro centro dialisi, abbiamo chiesto alla ricorrente di dare alla M. le password di accesso al computer. Questo anche per consentire alla M. di sostituire adeguatamente la ricorrente in caso di sua assenza...sia io che il dott. S. facemmo presente che il clima che si era creato all’interno del centro non ci piaceva e invitai la ricorrente a rivedere alcuni suoi atteggiamenti. In particolare, moliti infermieri si erano lamentati con me del fatto che la ricorrente non partecipava alle operazioni di inizio e fine dialisi e si recava al lavoro dopo l’inizio della dialisi alle 8.00 circa. Qualcuno si era lamentato anche delle modalità di determinazione dei turni e dell’atteggiamento eccessivamente autoritario della ricorrente. Si lamentarono anche del fatto che la ricorrente minacciava di prendere provvedimenti disciplinari. In occasione della riunione riferimmo di queste lamentele alla ricorrente, la quale negò alcuni degli episodi che noi le riferimmo, rimanendo ferma nelle sue posizioni. Dichiarazioni di contenuto analogo ha reso anche il testimone S., il quale ha precisato, come peraltro riferito anche da altri testimoni, che in occasione della riunione del 21.02.2013, venne semplicemente chiesto alla ricorrente di entrare in sala dialisi solo per eseguire il trattamento e non per parlare con i pazienti e ciò in quanto "alcune volte la S. entrava in sala e cominciava a parlare con i pazienti all’inizio o durante il trattamento, cosa non sempre opportuna".

Alla luce di quanto precede, deve escludersi che nei comportamenti dedotti dalla ricorrente, sia singolarmente che unitariamente considerati, possano ravvisarsi gli estremi del mobbing. Non sono emersi, infatti, dati di fatto tali da far ritenere effettivamente vessatoria e persecutoria la condotta del datore di lavoro, perché non vi è prova di una sistematica preordinazione di ogni singolo atto all’emarginazione e all’isolamento della ricorrente, per cui le condotte denunciate non vanno al di là di una situazione oggettivamente conflittuale, originata probabilmente, da rapporti non distesi con i colleghi d lavoro, in parte dovuti, a parere di chi scrive, anche alla difficoltà da parte della ricorrente di accettare le critiche e le lamentele da parte dei colleghi di lavoro.

L’inesistenza di condotte vessatorie porta al rigetto della domanda di risarcimento dei danni. Per le medesime ragioni deve rigettarsi anche la domanda di condanna al pagamento dell’indennità di mancato preavviso, non essendovi prova alcuna della sussistenza di una giusta causa di dimissioni da parte della ricorrente.

Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono poste a carico della ricorrente nella misura liquidata in dispositivo, secondo le previsioni di cui al D.M. n. 55/14 (cause di lavoro-valore medio-scaglione da 52.000,01 a 260.000,00 euro).

P.Q.M.

In persona della dott.ssa Ilaria Prozzo, definitivamente pronunciando, così provvede:

rigetta il ricorso;

condanna la ricorrente al rimborso in favore della parte resistente delle spese di lite, liquidate in € 12.756,00, oltre rimborso spese forfetarie nella misura del 15%, iva e cpa come per legge.

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