Corte di Cassazione – Ordinanza n.10984 del 27
maggio 2015
Fatto e diritto
La causa è stata
chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 21 aprile 2015, ai sensi
dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma
dell'art. 380 bis c.p.c.:
"Con
sentenza del 7 maggio 2013 la Corte di Appello di Catanzaro confermava, sia
pure con motivazione parzialmente diversa, la decisione del Tribunale di
Castrovillari di rigetto della domanda proposta da M. T. intesa ad ottenere
l’accertamento che la morte del di lei coniuge R. N. era avvenuta a seguito
dell’infortunio sul lavoro del 17.6.2005 e, conseguentemente, il riconoscimento
del diritto di essa ricorrente, in qualità di coniuge superstite del R., ad una
rendita mensile nella misura stabilita dalla legge, oltre rivalutazione ed
interessi, nonché al rimborso delle spese funerarie sostenute.
La Corte
territoriale ricostruita, sulla scorta delle risultanze istruttorie, la
dinamica dell’infortunio a seguito del quale il R. era deceduto giungeva a
ritenere che era da escludersi l’esistenza dell’occasione di lavoro in quanto
l’INAIL aveva provato la creazione di un rischio elettivo da parte dello stesso
lavoratore .
Esponeva: che il
R., dipendente dell’AFOR, il giorno dell’infortunio era intento, insieme ad
altri operai costituenti la propria squadra di lavoro, al rifacimento del tetto
di un rifugio di montagna ed alla predisposizione di misure antincendio,
consistenti nel taglio dell’erba e della vegetazione circostante, in località
"Piano Pichino Laghetto" del comune di Alessandria del Carretto; che,
dei componenti la squadra, tre si dedicavano al taglio dell’erba ed altri tre,
tra cui il R., alla sistemazione del tegole del tetto; che, dopo un primo
viaggio con un mezzo agricolo per trasportare le tegole dal luogo del deposito
al rifugio, quattro operai si erano recati a caricare altre tegole per un
secondo viaggio, un altro operario si era allontanato nei pressi della propria
auto, il caposquadra aveva fatto ritorno ad Alessandria del Carretto per
prendere il carburante necessario al funzionamento dei decespugliatoli mentre
il R. era rimasto solo vicino al rifugio; che gli operai, tornati nei pressi
del rifugio, notavano l’assenza del R. ed uno di essi, G. F., si accorgeva che
la scala artigianale destinata ad essere usata per salire sul tetto era
appoggiata ad un albero poco distante; che il G., avviatosi verso la scala
notava il R. disteso, in posizione supina, ai piedi dell’albero ove detta scala
era appoggiata e si accorgeva che perdeva sangue dalle orecchie ed era
inanimato; che i Carabinieri immediatamente avvisati, giunti sul posto,
constatavano il decesso del R..
La Corte
riteneva che dal complesso di elementi emersi dalle indagini penali svolte
nell’immediatezza dei fatti (in particolare, sulla scorta del verbale di
sopralluogo dei carabinieri, del referto stilato dal dottor D.M. che aveva
constatato il decesso, della informativa degli Ispettori del Servizio
Prevenzione, Igiene e Sicurezza degli Ambienti di Lavoro dell’Azienda Sanitaria
di Rossano) si doveva giungere alla conclusione che il decesso del R. era stato
determinato dalla caduta accidentale dalla scala sulla quale egli stesso era
salito per ragioni del tutto estranee alla propria attività lavorativa.
Precisava, altresì, che tali conclusioni non erano state confutate dalle
circostanze, parzialmente diverse, emergenti dalla dichiarazioni testimoniali
rese in primo grado. Riteneva, quindi, provata la ricorrenza di un rischio
elettivo cui ricollegare il verificarsi dell’infortunio.
Per la
Cassazione di tale decisione propone ricorso la M. affidato a due motivi.
L’INAIL resiste
con controricorso.
Con il primo
motivo di ricorso si deduce errata, contraddittoria, insufficiente e generica
motivazione.
In particolare,
si assume che tanto il Tribunale che la Corte di appello avevano escluso la
configurabilità dell’infortunio sul lavoro presumendo, senza alcun riscontro
oggettivo e soggettivo, che la morte del R. fosse stata causata da una caduta
da un albero, durante le ore di lavoro, sul quale si era arrampicato.
Con il secondo
motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli art. 1 e 2 del
d.P.R. n. 1124 del 1965.
Premesse varie
pronunce di questa Corte sulla nozione di infortunio sul lavoro, si sottolinea
che nel caso di specie non ricorrevano le condizioni per rinvenire nel
comportamento del R. i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità,
dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo, in quanto l’unico dato
certo era che il predetto aveva perso la vita in occasione di lavoro, battendo
il capo su un masso lapideo che gli aveva provocato la frattura della base
cranica; invero, nessun teste aveva mai dichiarato di aver visto il R. salire o
scendere dall’albero e di aver preso la scala per appoggiarla all’albero. In
effetti, l’incidente in questione doveva essere compreso tra quelli
etiologicamente riconducibili al rischio insito nell’ambiente di lavoro e cioè
al rischio determinato dallo spazio delimitato, dal complesso dei lavoratori in
esso operanti e dalla presenza di macchine e di altre fonti di pericolo.
Il primo motivo
è inammissibile sotto vari profili.
In primo luogo,
perché privo del requisito dell’autosufficienza non essendo stato riportato il
contenuto nella sua integrità delle deposizioni testimoniali che si assumono
non valutate (ex multis Cass. Ordinanza n. 17915 del 30/07/2010; Cass. n. 4405
del 28/02/2006).
È, altresì,
inammissibile alla luce del nuovo testo dell’art. 360, secondo comma, n. 5,
c.p.c. (come modificato dall’art. 54 d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. con
modifiche in legge 7 agosto 2012 n. 134) il quale prevede che la sentenza può
essere impugnata per cassazione "per omesso esame circa un fatto decisivo
per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti".
La norma si
applica ai ricorsi per cassazione contro provvedimenti pubblicati dopo 11
settembre 2012 (quindi al caso in esame).
Orbene, le
Sezioni Unite di questa Corte (SU 8053/14) hanno avuto modo di precisare che a
seguito della modifica dell’art. 360, comma 1° n. 5 cit., il vizio di
motivazione si restringe a quello di violazione di legge e, cioè, dell’art. 132
c.p.c., che impone al giudice di indicare nella sentenza "la concisa
esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione".
Ed infatti,
perché violazione sussista si deve essere in presenza di un vizio "così
radicale da comportare con riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4,
c.p.c. la nullità della sentenza per mancanza di motivazione" fattispecie
che si verifica quando la motivazione manchi del tutto oppure formalmente
esista come parte del documento, ma le argomentazioni siano svolte in modo
"talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di
riconoscerla come giustificazione del decisum.
Pertanto, a
seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla motivazione con
riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il controllo sulla
esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o della mera apparenza) e
sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e
dell’illogicità manifesta).
Inoltre, il
vizio può attenere solo alla questio farti (in ordine alle questio juris non è
configurabile un vizio di motivazione) e deve essere testuale; deve, cioè,
attenere alla motivazione in sè, a prescindere dal confronto con le risultanze
processuali.
Quanto invece
allo specifico vizio previsto dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5, c.p.c., in
cui è scomparso il termine motivazione, deve trattarsi di un omesso esame di un
fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo
della sentenza o dagli atti processuali che abbia costituito oggetto di
discussione e che abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato
avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Le Sezioni unite
hanno specificato che "la parte ricorrente dovrà indicare - nel rigoroso
rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo
comma, n. 4, c.p.c - il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato
testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti
processuali), da cui risulti l’esistenza, il come ed il quando (nel quadro
processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la
decisività del fatto stesso".
E’ evidente,
quindi, che il motivo all’esame non presenti alcuno dei requisiti di
ammissibilità richiesti dall’art. 360, comma 1, n. 5 così come novellato nella
interpretazione fornitane dalle Sezioni unite di questa Corte.
Peraltro, la
Corte di merito ha ampiamente esposto le ragioni del proprio convincimento con
una motivazione priva di contraddizioni e che dimostra un vaglio accurato delle
risultanze della istruttoria svolta. In definitiva, il motivo finisce con il
sollecitare una inammissibile duplicazione del giudizio di merito (cfr. Cass n.
6288 del 18/03/2011; Cass. 10657/2010, Cass. 9908/2010, Cass. 27162/2009, Cass.
13157/2009, Cass. 6694/2009, Cass. 18885/2008, Cass. 6064/2008).
Destituito di
fondamento è il secondo motivo.
Vale ricordare
che la nozione di occasione di lavoro di cui all'art. 2 d.P.R. n. 1124 del 1965
implica la rilevanza di ogni esposizione a rischio ricollegabile allo
svolgimento dell'attività lavorativa in modo diretto o indiretto (con il limite
del c.d. rischio elettivo) e, quindi, anche della esposizione al rischio insito
in attività accessorie o strumentali allo svolgimento della suddetta attività,
ivi compresi gli spostamenti spaziali compiuti dal lavoratore all'interno
dell'azienda nell'intervallo lavorativo contrattualmente previsto (Cass. n.
6511 del 07/05/2002; Cass. n. 5841 del 22/04/2002). E’ stato pure affermato che
l'indennizzabilità dell'infortunio subito dall'assicurato sussiste anche
nell'ipotesi di rischio improprio, non intrinsecamente connesso, cioè, allo
svolgimento delle mansioni tipiche del lavoro svolto dal dipendente, ma insito
in un'attività prodromica e strumentale allo svolgimento delle suddette
mansioni e, comunque, ricollegabile al soddisfacimento di esigenze lavorative,
a nulla rilevando l'eventuale carattere meramente occasionale di detto rischio,
atteso che è estraneo alla nozione legislativa di occasione di lavoro il
carattere di normalità o tipicità del rischio protetto (Cass. n. 14287 del
28/07/2004). Si è precisato che in materia di assicurazione obbligatoria contro
gli infortuni sul lavoro costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente
arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative,
che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione
della prestazione. Tale genere di rischio - che è in grado di incidere,
escludendola, sull'occasione di lavoro - si connota per il simultaneo concorso
dei seguenti elementi: a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico
ed estraneo alle finalità produttive; b) direzione di tale atto alla
soddisfazione di impulsi meramente personali; c) mancanza di nesso di
derivazione con lo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass. n. 15047 del
04/07/2007). Orbene, la Corte di appello ha fatto corretta applicazione dei
sopra richiamati principi affermati da questa Corte giungendo a ritenere che
l’attività posta in essere dal R. e dalla quale era dipeso il mortale
infortunio a lui occorso era del tutto estranea alla attività lavorativa e
diretta, piuttosto, alla soddisfazione di un impulso personale (la Corte lo
individua nella intenzione di raggiungere un nido sito sull’albero) e senza
alcun nesso di derivazione dall’attività lavorativa svolta.
Per tutto quanto
esposto, si propone il rigetto del ricorso con ordinanza, ai sensi dell’art.
375 cod. proc. civ., n. 5".
Sono seguite le
rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al
decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.
La M. ha depositato
memoria ex art. 380 bis c.p.c. in cui si ripropongono le argomentazioni già
esposte nel ricorso che finiscono con il prospettare una diversa valutazione
delle risultanze istruttorie e sollecitano questa Corte ad una inammissibile
rivisitazione del merito della controversia.
Il Collegio,
pertanto, condivide il contenuto della riportata relazione e rigetta il
ricorso.
Le spese del
presente giudizio, avuto riguardo alla natura della controversia ed alla
particolarità della vicenda, vanno interamente compensate tra le parti.
Sussistono i
presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1
quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24
dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). Tale disposizione trova
applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013,
quale quello in esame, avuto riguardo al momento in cui la notifica del ricorso
si è perfezionata, con la: ricezione dell'atto da parte del destinatario
(Sezioni Unite, sent n. 3774 del 18 febbraio 2014). Inoltre, il presupposto di
insorgenza dell’obbligo del versamento, per il ricorrente, di un ulteriore
importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, comma 1
quater,, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1,
comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, non è collegato alla condanna alle
spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito,
negativa per l'impugnante, del gravame (Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014).
P.Q.M.
Rigetta il
ricorso e compensa le spese del presente giudizio.
Ai sensi
dell’art. 13, co. 1 quater; del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della
sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente
dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto
per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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