Il
caso di specie, per quanto qui interessa, è giunto all’attenzione degli ermellini dopo
che la Corte di Appello di Catanzaro, confermando sul punto la sentenza del
Tribunale di Rossano, aveva dichiarato la nullità del termine apposto al
rapporto di lavoro intercorso tra le parti e, in parziale riforma della
sentenza appellata, facendo riferimento a lettera del lavoratore contenente
richiesta di riammissione, aveva condannato l’azienda alla sua reintegrazione
in servizio.
Avverso
tale sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando,
tra l’altro, che la Corte del merito non
si sarebbe pronunciata sulla cessazione
della materia del contendere desumibile dalla lettera, intervenuta successivamente alla sentenza di primo grado declaratoria
della nullità del termine, con la quale il lavoratore avrebbe rinunciato al ripristino
del rapporto.
La
ricorrente, inoltre, aveva censurato la sentenza impugnata perché, a suo dire,
avrebbe trascurato di attribuire rilevanza di mutuo consenso alla inerzia del
dipendente per un periodo notevole nell'impugnare il termine apposto al contratto,
attribuendo al datore di lavoro l'onere di provare le circostanze atte a
dimostrare lo scioglimento del rapporto.
Infine,
la società aveva lamentato che la sentenza impugnata avrebbe trascurato,
parimenti, l'inerzia del lavoratore nella ricerca di altra occupazione.
Investita
della questione, la Cassazione ha osservato come la Corte territoriale avesse correttamente
maturato la propria decisione conformandosi i principi enunciati dalla
giurisprudenza di legittimità (1), allorché aveva stabilito che la mera inerzia del
lavoratore dopo la scadenza del contratto fosse insufficiente a ritenere
sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso.
La
Suprema Corte ha quindi ribadito che, in un giudizio instaurato per il riconoscimento
della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul
presupposto dell'illegittima apposizione al contratto di un termine finale
ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per
mutuo consenso, è necessario che sia accertata, sulla base del lasso di tempo
trascorso dopo la conclusione dell'ultimo contratto a termine, nonché del
comportamento tenuto dalle parti e di eventuali, ulteriori, circostanze
significative, una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre
definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.
A
questo proposito, sempre la Cassazione ha già avuto modo di precisare (2), altresì, come
il solo decorso del tempo o la semplice inerzia del lavoratore, successiva alla
scadenza del termine, siano insufficienti a ritenere sussistente la risoluzione
per mutuo consenso, costituente pur sempre una manifestazione negoziale, che,
quand’anche tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente
oggettivo, in conseguenza della mera cessazione della funzionalità di fatto del
rapporto di lavoro (3).
In
sostanza, una mera inerzia del lavoratore nel far valere i suoi diritti, non
implica, necessariamente, una sua manifestazione di volontà tacita di rinunciare
agli stessi.
A
ciò, inoltre, gli ermellini hanno aggiunto che l’eventuale reperimento di altra
occupazione non costituisce un elemento indicativo della volontà del dipendente
di rinunciare ai diritti maturati verso il precedente datore di lavoro, in
quanto, una volta cessato il rapporto, la necessità di trovare un nuovo impiego
appare, evidentemente, finalizzata al suo mero sostentamento quotidiano.
Valerio
Pollastrini
1)
–
Cass., Sentenza n.20390 del 28 settembre 2007; Cass., Sentenza n.23554 del 17
dicembre 2004; Cass., Sentenza n.26935 del 10 novembre 2008;
2)
-
da ultimo, Cass., Sentenza n.1780 del 28 gennaio 2014;
3)
-
in tema, si richiama anche Cass., Sentenza n.2279 del 01 febbraio 2010 ove
questa Corte, sulla base del medesimo principio, ha ritenuto non censurabile la
motivazione della sentenza di merito la quale, nel ritenere che la mera inerzia
del lavoratore non poteva essere interpretata come fatto estintivo del
rapporto, aveva fatto riferimento a valutazioni di tipicità sociale,
valorizzando sia la durata limitata della inerzia del lavoratore - tempo
considerato congruo per decidere di intraprendere la via giudiziaria ed
impostare la difesa -, sia la notoria circostanza relativa all'affidamento che
il lavoratore precario normalmente ripone sulla prospettiva di futuri contratti
a termine, nonché al timore di pregiudicare tale esito con l'iniziativa
giudiziaria;
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