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giovedì 20 novembre 2014

Malattie professionali - Dipendenza da causa di servizio - Onere probatorio

Nella sentenza n.21825 del 15 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che, ai fini dell’accertamento di una malattia professionale, ove la patologia presenti un’eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata e intensità dell'esposizione a rischio

Nel caso di specie, un dipendente dell’Azienda Usl di Massa Carrara, deducendo che l’infarto subito fosse riconducibile a cause di servizio, si era rivolto al Tribunale per ottenere dall'Amministrazione la corresponsione di un equo indennizzo.

Tuttavia, sia il Tribunale che la Corte di Appello di Genova avevano rigettato il ricorso,  ritenendo improbabile il collegamento causale o concausale tra lo sforzo e l’insorgenza della patologia lamentata, atteso anche che tra i due eventi era trascorso oltre un mese .

Investita della questione, con l’ordinanza n.24195/2011, la Suprema Corte aveva cassato con rinvio  la sentenza di appello, osservando che il giudice del merito non aveva motivato in modo adeguato su quanto riferito dal CTU in relazione al rilevante grado di probabilità della dipendenza dell'infermità dalla causa di servizio, nonché sulla deposizione resa da un collega del dipendente, che aveva dichiarato come lo stesso  avesse goduto di ottima salute fino al giorno in cui, sollevando  un paziente dalla barella, aveva accusato un forte dolore al petto piegandosi in avanti.

All'esito del nuovo esame delle circostanze valorizzate nell'ordinanza rescindente, la Corte di Appello di Milano, giudicando in sede di rinvio, aveva nuovamente rigettato la domanda del lavoratore.

La Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto che il dipendente non avesse  dimostrato il nesso di causalità fra attività lavorativa e patologia.

Sul punto, infatti,   il consulente tecnico nominato in primo grado, sebbene avesse affermato che non era possibile escludere un nesso causale tra lo sforzo occorso e l'infarto del miocardio, non aveva affermato che l'evento lavorativo si fosse posto come condicio sine qua non della malattia, essendosi innestato su una situazione patologica preesistente.

Il giudice dell’appello, inoltre, aveva escluso che la richiamata testimonianza resa dal collega potesse considerarsi dirimente, atteso il carattere multifattoriale del sintomo riscontrato, un dolore al petto, che poteva essere dipeso anche da una tensione muscolare o articolare.

Avverso questa sentenza, il lavoratore era tornato a proporre ricorso per Cassazione, addebitando alla Corte di Appello di averlo ritenuto gravato dell’onere di dimostrare la derivazione della patologia da causa di servizio con certezza matematica e assoluta, ignorando l’ambito dell'analisi precedentemente circoscritto dalla Suprema Corte  con l’ordinanza rescindente e ritenendo insufficiente il contenuto della C.T.U. stilata nel corso del giudizio di primo grado, che aveva precisato l’elevato grado di probabilità con il quale l'infarto si sarebbe verificato a seguito di una catena di eventi iniziata con l’intenso sforzo compiuto sul lavoro.

Con secondo motivo di ricorso, il lavoratore aveva lamentato che la Corte di Appello aveva ritenuto non dirimente la deposizione del teste sopra citato, dalla quale sarebbe emerso che egli aveva avvertito un forte dolore al cuore subito dopo aver sollevato un pesantissimo paziente dalla barella, attribuendo, invece, efficacia determinante alla circostanza  che l’infarto si era verificato circa un mese dopo rispetto a tale evento, nonostante, nello specifico, l'infarto al miocardio potrebbe verificarsi a distanza di tempo dal cosiddetto effetto scatenante.

Tornata nuovamente a pronunciarsi sulla vicenda, la Cassazione ha ritenuto infondate le censure mosse dal ricorrente.

Innanzitutto, gli ermellini hanno osservato che nel ricorso era stato sostenuto che la Corte del merito non avesse esattamente interpretato la consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso del giudizio di primo grado, nonché la deposizione del teste predetto.

Sul punto, tuttavia,  il ricorrente non aveva riportato il preciso contenuto degli atti richiamati, il che impedisce alla Cassazione di valutare l'esatta portata della censura e di individuare quali sarebbero le circostanze ignorate o travisate dal giudice dell’appello.

A questo proposito, peraltro, la Suprema Corte ha rilevato  che, in adempimento del mandato conferito con la sentenza rescindente, sia la c.t.u. di primo grado che la deposizione testimoniale indicata erano state ampiamente e puntualmente esaminate dalla Corte milanese, che, anzi, aveva riportato  stralci della c.t.u. medesima, dai quali era emersa una valutazione di compatibilità dell’evento morboso con la causa lavorativa, ma non di determinismo causale della seconda, ed aveva ritenuto che il "dolore al petto" accusato dal lavoratore al momento del sollevamento del paziente dalla barella, riferito dal teste,  non fosse univocamente interpretabile.

Quello che il lavoratore sollecita alla Corte di legittimità è, in sostanza,  una nuova valutazione delle risultanze di causa e, come tale, è inammissibile, in quanto alla Cassazione è precluso  il potere di riesaminare il merito dell'intera vicenda processuale, avendo essa la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica, della coerenza logico-formale e della completezza, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito.

Per ciò che attiene, invece, alla seconda doglianza, gli ermellini hanno ricordato che, all’esito di una puntuale valutazione degli elementi di causa, la Corte di Appello aveva escluso che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova su di esso gravante.

A tale fine, il giudice di merito aveva tenuto conto dell’elaborazione della Cassazione  secondo la quale il dipendente che sostenga la dipendenza dell'infermità da una causa di servizio ha l'onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la riconducibilità dell'affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita.

Ne consegue, pertanto, che, ove la patologia presenti un’ eziologia multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata ed intensità dell'esposizione a rischio (1).

Né, in tale ambito, può assumere valore esclusivo e determinante la consulenza tecnica – che nel caso, peraltro, non era giunta a conclusioni univoche - considerato che essa non costituisce un mezzo sostitutivo dell'onere della prova, ma solo uno strumento istruttorio finalizzato ad integrare l'attività del giudice per mezzo di cognizioni tecniche con riguardo a fatti già acquisiti (2).

Per tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso disponendo il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

 
1)      – Cass. Sez. U., Sentenza n.11353 del 17 giugno 2004; Cass., Sentenza n.15080 del 26 giugno 2009;
2)      - Cass., Sentenza n.16778 del 17 luglio 2009;

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