Nel
caso di specie, un dipendente dell’Azienda Usl di Massa Carrara, deducendo che
l’infarto subito fosse riconducibile a cause di servizio, si era rivolto al Tribunale
per ottenere dall'Amministrazione la corresponsione di un equo indennizzo.
Tuttavia,
sia il Tribunale che la Corte di Appello di Genova avevano rigettato il
ricorso, ritenendo improbabile il
collegamento causale o concausale tra lo sforzo e l’insorgenza della patologia
lamentata, atteso anche che tra i due eventi era trascorso oltre un mese .
Investita
della questione, con l’ordinanza n.24195/2011, la Suprema Corte aveva cassato
con rinvio la sentenza di appello,
osservando che il giudice del merito non aveva motivato in modo adeguato su quanto
riferito dal CTU in relazione al rilevante grado di probabilità della
dipendenza dell'infermità dalla causa di servizio, nonché sulla deposizione
resa da un collega del dipendente, che aveva dichiarato come lo stesso avesse goduto di ottima salute fino al giorno
in cui, sollevando un paziente dalla
barella, aveva accusato un forte dolore al petto piegandosi in avanti.
All'esito
del nuovo esame delle circostanze valorizzate nell'ordinanza rescindente, la
Corte di Appello di Milano, giudicando in sede di rinvio, aveva nuovamente
rigettato la domanda del lavoratore.
La
Corte territoriale, in particolare, aveva ritenuto che il dipendente non
avesse dimostrato il nesso di causalità
fra attività lavorativa e patologia.
Sul
punto, infatti, il consulente tecnico nominato in primo grado,
sebbene avesse affermato che non era possibile escludere un nesso causale tra
lo sforzo occorso e l'infarto del miocardio, non aveva affermato che l'evento
lavorativo si fosse posto come condicio
sine qua non della malattia,
essendosi innestato su una situazione patologica preesistente.
Il
giudice dell’appello, inoltre, aveva escluso che la richiamata testimonianza
resa dal collega potesse considerarsi dirimente, atteso il carattere
multifattoriale del sintomo riscontrato, un dolore al petto, che poteva essere
dipeso anche da una tensione muscolare o articolare.
Avverso
questa sentenza, il lavoratore era tornato a proporre ricorso per Cassazione,
addebitando alla Corte di Appello di averlo ritenuto gravato dell’onere di
dimostrare la derivazione della patologia da causa di servizio con certezza
matematica e assoluta, ignorando l’ambito dell'analisi precedentemente circoscritto
dalla Suprema Corte con l’ordinanza
rescindente e ritenendo insufficiente il contenuto della C.T.U. stilata nel
corso del giudizio di primo grado, che aveva precisato l’elevato grado di
probabilità con il quale l'infarto si sarebbe verificato a seguito di una
catena di eventi iniziata con l’intenso sforzo compiuto sul lavoro.
Con
secondo motivo di ricorso, il lavoratore aveva lamentato che la Corte di Appello
aveva ritenuto non dirimente la deposizione del teste sopra citato, dalla quale
sarebbe emerso che egli aveva avvertito un forte dolore al cuore subito dopo
aver sollevato un pesantissimo paziente dalla barella, attribuendo, invece,
efficacia determinante alla circostanza che l’infarto si era verificato circa un mese
dopo rispetto a tale evento, nonostante, nello specifico, l'infarto al miocardio
potrebbe verificarsi a distanza di tempo dal cosiddetto effetto scatenante.
Tornata
nuovamente a pronunciarsi sulla vicenda, la Cassazione ha ritenuto infondate le
censure mosse dal ricorrente.
Innanzitutto,
gli ermellini hanno osservato che nel ricorso era stato sostenuto che la Corte
del merito non avesse esattamente interpretato la consulenza tecnica d’ufficio
disposta nel corso del giudizio di primo grado, nonché la deposizione del teste
predetto.
Sul
punto, tuttavia, il ricorrente non aveva
riportato il preciso contenuto degli atti richiamati, il che impedisce alla
Cassazione di valutare l'esatta portata della censura e di individuare quali
sarebbero le circostanze ignorate o travisate dal giudice dell’appello.
A
questo proposito, peraltro, la Suprema Corte ha rilevato che, in adempimento del mandato conferito con
la sentenza rescindente, sia la c.t.u. di primo grado che la deposizione
testimoniale indicata erano state ampiamente e puntualmente esaminate dalla
Corte milanese, che, anzi, aveva riportato stralci della c.t.u. medesima, dai quali era
emersa una valutazione di compatibilità dell’evento morboso con la causa
lavorativa, ma non di determinismo causale della seconda, ed aveva ritenuto che
il "dolore al petto"
accusato dal lavoratore al momento del sollevamento del paziente dalla barella,
riferito dal teste, non fosse
univocamente interpretabile.
Quello
che il lavoratore sollecita alla Corte di legittimità è, in sostanza, una nuova valutazione delle risultanze di
causa e, come tale, è inammissibile, in quanto alla Cassazione è precluso il potere di riesaminare il merito dell'intera
vicenda processuale, avendo essa la sola facoltà di controllo, sotto il profilo
della correttezza giuridica, della coerenza logico-formale e della completezza,
delle argomentazioni svolte dal giudice del merito.
Per
ciò che attiene, invece, alla seconda doglianza, gli ermellini hanno ricordato
che, all’esito di una puntuale valutazione degli elementi di causa, la Corte di
Appello aveva escluso che il ricorrente avesse assolto l’onere della prova su
di esso gravante.
A
tale fine, il giudice di merito aveva tenuto conto dell’elaborazione della
Cassazione secondo la quale il
dipendente che sostenga la dipendenza dell'infermità da una causa di servizio
ha l'onere di dedurre e provare i fatti costitutivi del diritto, dimostrando la
riconducibilità dell'affezione denunciata alle modalità concrete di svolgimento
delle mansioni inerenti alla qualifica rivestita.
Ne
consegue, pertanto, che, ove la patologia presenti un’ eziologia
multifattoriale, il nesso causale tra attività lavorativa ed evento, in assenza
di un rischio specifico, non può essere oggetto di presunzioni di carattere astratto
ed ipotetico, ma esige una dimostrazione, quanto meno in termini di
probabilità, ancorata a concrete e specifiche situazioni di fatto, con
riferimento alle mansioni svolte, alle condizioni di lavoro e alla durata ed
intensità dell'esposizione a rischio (1).
Né,
in tale ambito, può assumere valore esclusivo e determinante la consulenza
tecnica – che nel caso, peraltro, non era giunta a conclusioni univoche -
considerato che essa non costituisce un mezzo sostitutivo dell'onere della
prova, ma solo uno strumento istruttorio finalizzato ad integrare l'attività
del giudice per mezzo di cognizioni tecniche con riguardo a fatti già acquisiti
(2).
Per
tutte le richiamate considerazioni, la Cassazione ha concluso disponendo il
rigetto del ricorso.
Valerio
Pollastrini
1)
–
Cass. Sez. U., Sentenza n.11353 del 17 giugno 2004; Cass., Sentenza n.15080 del
26 giugno 2009;
2)
-
Cass., Sentenza n.16778 del 17 luglio 2009;
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