Il dibattito di questi giorni sulla flessibilità di bilancio
tra Governo italiano e Commissione europea si inserisce in un contesto di
finanza pubblica che vede il deficit 2016 passare dal -1,4% del Pil del quadro
tendenziale al -2,4% programmatico, dopo la manovra definita con la legge di
stabilità. La flessibilità è stata definita dalla Commissione europea con la
comunicazione del 13/1/2015, che rappresenta il 10° intervento sulle regole di
bilancio dalla firma del Trattato di Maastritch del 1992. La flessibilità viene
concessa con l’obiettivo di premiare l’attuazione delle riforme strutturali,
incentivare gli investimenti e valutare il ciclo economico delle economie. Il
maggiore deficit utilizza 0,4% del Pil già concessa dal Consiglio europeo nel
mese di luglio nel quadro della clausola di riforma strutturale; inoltre per il
2016 il documento programmatico di bilancio in Italia è stato accompagnato da
una richiesta formale di avvalersi di ulteriore flessibilità dato da 0,1% per
la clausola di riforme strutturali da un 0,3% in base alla clausola di
investimento e un ulteriore 0,2% per la clausola migranti. Il confronto con la
Commissione considera anche la ripetibilità per il 2017 della flessibilità,
considerato che nel triennio 2017-2019 rimangono attive clausole di
salvaguardia per 54.275 milioni di euro, una ‘spada di Damocle’ che condiziona
in modo rilevante le future manovre di bilancio: con le clausole di
flessibilità una tantum, già ampiamente utilizzate nel 2016, sale il rischio di
aumenti dell’Iva per finanziare gli interventi previsti nel prossimo biennio su
Ires e Irpef.
La Commissione, nel parere del 16 novembre 2015 sul
documento programmatico di bilancio dell’Italia, ha sospeso il giudizio
rinviandolo in primavera. Nel dettaglio le valutazioni ritengono “plausibili”
le proiezioni macroeconomiche illustrate in Italia nel Progetto del Piano di
bilancio, ma “per il 2016 sono esposte a rischi di revisione al ribasso”.
Il rallentamento del ciclo economico e la bassa inflazione
minacciano il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione del debito pubblico:
nostre valutazioni evidenziano che un rallentamento dell’economia di 0,1 punti
di Pil nei tassi di crescita trimestrali previsti per il 2016 e una mancata
risalita dell’inflazione determinerebbe un ritorno alla crescita del rapporto
debito/Pil.
Nella valutazione del percorso delle riforme, la Commissione
evidenzia la mancata attuazione delle raccomandazioni del Consiglio di luglio
2015 sulla riforma del catasto, la revisione delle tax expenditures ed la mancata
razionalizzazione della tassazione ambientale. Inoltre ritiene necessario uno
sforzo maggiore per la spending review, a tutti i livelli di governo. Nelle
valutazioni di primavera una particolare attenzione sarà rivolta al fatto che
una deviazione dal percorso di aggiustamento sia effettivamente usato al fine
di aumentare gli investimenti.
La verifica “se siano stati compiuti progressi nel programma
di riforme strutturali, tenuto conto delle raccomandazioni del Consiglio” sarà
effettuata nel Country Report 2016 (a marzo 2016) e nell’ambito delle
raccomandazioni specifiche per paese adottate dalla Commissione (a maggio
2016).
Il dibattito sulla maggiore flessibilità si colloca in un
contesto che registra un calo della fiducia nell’Unione europea: nel 2015 In
Italia la quota di popolazione che ha fiducia dell’Unione europea è del 31% a
fronte della maggioranza (52%) che non ha fiducia; analogo fenomeno si registra
nel totale dei 28 Paesi Ue in cui la popolazione che non ha fiducia dell’Ue
sale al 55%.
Tra il 2010 e il 2015 in Italia cresce di 7.257.000 unità
(+14 punti) la popolazione che non ha fiducia dell’Unione europea. L’Unione
europea necessita di un rilancio per rispondere a emergenze quali le
migrazioni, la sicurezza e la difesa; in un contesto in cui sono in ritardo gli
effetti della politica monetaria espansiva – con l’inflazione inchiodata allo
0,2% e lontana dal target del 2,0% – servono regole di bilancio capaci di
rilanciare un’economia che in sette anni ha visto la disoccupazione nell’Eurozona
salire del 48,2%, con 5.504.000 unità in più, passando da 11.420.000 unità a
inizio 2008 a 16.215.000 a novembre 2015, anche se in riduzione rispetto al
massimo di 19.329.000 disoccupati rilevati a maggio del 2013.
L’analisi delle tendenze della politica economica nella
presentazione dell’Ufficio Studi “Economia reale e finanza pubblica ad inizio
2016”.
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