Nel
caso di specie, una lavoratrice aveva convenuto in giudizio l’azienda,
chiedendo al Tribunale di accertare e dichiarare la nullità e/o illegittimità,
ovvero di annullare, il licenziamento intimatole con lettera del 17/21 gennaio
2014, con le conseguenze risarcitorie previste dall’art.18 dello Statuto dei
Lavoratori.
La
donna, assunta dalla convenuta nel 1993 con la qualifica di Quadro, era stata
licenziata a seguito della lettera di contestazione disciplinare del 4/10
gennaio 2014, nella quale il datore di lavoro, riferito di avere appreso che la
predetta fosse solita partecipare abitualmente a maratone ed avesse praticato
sport anche durante alcuni periodi di
assenza per malattia, aveva addebitato alla ricorrente di avere "artatamente simulato (e lo sta facendo
tuttora) uno stato di malattia, o per almeno ne ha dolosamente enfatizzato i
sintomi, al fine di indurre in errore il medico di base e ottenere certificati
idonei a dimostrare l'effettiva sussistenza e gravità della malattia, ovvero la
sua incompatibilità con la prestazione lavorativa".
Nella
stessa comunicazione, inoltre, l’azienda
aveva contestato alla ricorrente "di
avere partecipato a due competizioni (15 aprile 2012, Maratona di Milano, 20
ottobre 2013 Laurens Triathlon Sprint Femminile) quando era assente per pretesa
malattia, gareggiando durante la fascia di reperibilità mattutina, e di essersi
allontanata dal suo domicilio, durante la fascia di reperibilità, anche in data
15 e 17 dicembre 2013".
Nel
costituirsi in giudizio, la società convenuta aveva sostenuto che:
-
l’asserita
malattia della ricorrente non era incompatibile con l’espletamento della normale
attività lavorativa, avendole consentito di svolgere attività fisicamente e
mentalmente molto più impegnative;
-
la
ricorrente aveva effettuato una pesante attività di allenamento prodromica alla
partecipazione alla Maratona di Milano, ponendo a rischio e ritardando la sua
guarigione.
Di
contro, la dipendente aveva eccepito l'infondatezza
degli addebiti e la natura ritorsiva del
licenziamento, deducendo che il recesso le sarebbe stato irrogato a seguito del
suo rifiuto di rassegnare le dimissioni,
richiestele dalla società nel dicembre 2011.
Investito
della questione, il Tribunale milanese ha premesso l’infondatezza della
doglianza relativa alla pretesa natura ritorsiva del licenziamento. La
ricorrente, infatti, aveva sostenuto che
nel corso dell’incontro tenutosi il 5 dicembre 2013 i rappresentanti della
datrice di lavoro le avevano richiesto di rassegnare le dimissioni e che,
stante il suo rifiuto, la società aveva posto in essere ai suoi danni condotte
vessatorie e di dequalificazione.
Sul
punto, il Giudice ha osservato come, dallo stesso tenore delle allegazioni di
cui al ricorso, appare evidente, però, che l’eventuale carattere ritorsivo non
deve essere attribuito al licenziamento predetto, ma, al più, alle condotte di
dequalificazione oggetto di altro giudizio pendente avanti al medesimo Tribunale.
Sia
dalla lettera di licenziamento che dalla preventiva contestazione disciplinare
emerge, infatti, che il provvedimento
espulsivo era stato disposto per sanzionare l’inesistente stato di malattia e
le condotte tenute dalla lavoratrice durante il periodo di degenza.
Ciò
chiarito, il Tribunale ha, tuttavia, ritenuto il ricorso fondato con riferimento alla
insussistenza della giusta causa del recesso.
A
tale proposito, il Giudice ha ricordato che gli illeciti contestati alla
lavoratrice erano due:
-
avere
simulato la malattia;
-
essersi
assentata dalla propria abitazione nelle fasce orarie di reperibilità.
Con
riferimento al primo e più grave addebito, il CTU medico legale ha rassegnato,
anche sulla base della relazione del medico psichiatra che lo ha coadiuvato
nell’accertamento, le seguenti conclusioni:
-
“... è possibile ritenere compatibile il
vissuto delle condotte così come riferite con lo stato di malattia dichiarato”;
-
“non emergono estremi per ritenere che la
dipendente abbia artatamente simulato uno stato di malattia, o che ne abbia
dolosamente enfatizzato i sintomi, al fine di indurre in errore i medici che, a
vario titolo si sono occupati della lavoratrice, col fine di ottenere
certificazione atta a rilevare una condizione di inidoneità ovvero di
incompatibilità con la prestazione lavorativa”.
In
sostanza, l’espletata Consulenza Tecnica d’Ufficio ha confermato sia l’effettivo
stato di malattia della ricorrente, che l’insussistenza delle supposte condotte
simulatorie o di aggravamento dei sintomi e di ritardo di guarigione.
A
proposito, invece, dell’altra condotta oggetto di contestazione, vale a dire l’assenza
della lavoratrice dalla propria abitazione per partecipare a due eventi
sportivi, il Tribunale ha rilevato come un simile comportamento configuri, ai
sensi del C.C.N.L. di riferimento, una illecito disciplinare punito con la sola
sanzione conservativa.
Alla
luce delle considerazioni predette, pertanto, il Giudice adito ha concluso
dichiarando l’illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, la condanna
della convenuta a reintegrare la
dipendente nel posto di lavoro precedentemente occupato o in altro equivalente,
nonché alla corresponsione di una indennità commisurata alle retribuzioni globali
di fatto dal licenziamento alla effettiva reintegrazione, in misura non
superiore a 12 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziale ed
assistenziali per l'intero periodo.
Valerio
Pollastrini
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