Nel
caso di specie, la Corte di Appello di Catanzaro aveva rigettato il gravame
proposto da una società contro la sentenza del Tribunale di Cosenza che, in
accoglimento della domanda proposta dal dipendente, aveva dichiarato
l'illegittimità del licenziamento intimato a quest’ultimo e motivato dal
mancato superamento del periodo di prova, condannando l’azienda alla
reintegrazione del lavoratore, nonché al pagamento delle retribuzioni maturate
dal recesso fino alla reintegra.
Nel
dettaglio, la Corte territoriale aveva ritenuto che:
-
il
recesso doveva ritenersi tardivo, in quanto alla data della sua comunicazione
il lavoratore aveva già superato il periodo di prova;
-
nella
determinazione del periodo di prova dovevano essere conteggiati anche i giorni
di riposo, in quanto durante tale periodo la mancata prestazione lavorativa
inerisce al normale svolgimento del rapporto;
-
per
effetto di questo calcolo, aggiungendo ai giorni di effettivo servizio prestato
(cinquantatre) anche quelli di riposo goduti dal dipendente dopo sei giorni
lavorati (otto), e con esclusione dei riposi convenzionali, il lavoratore aveva
prestato complessivamente sessantuno giorni di lavoro, oltre il termine di
durata del periodo di esperimento della prova fissato in sessanta giorni dal
C.C.N.L. - per i dipendenti degli Istituti di vigilanza.
Avverso
questa sentenza, la società aveva proposto ricorso per Cassazione, censurando
la pronuncia di Appello per violazione dell’art.2096 c.c. e dell’art.69 del
C.C.N.L. del personale degli istituti di vigilanza.
Nello
specifico, la ricorrente aveva sostenuto che l'espressione adoperata nell’art.69 del
CCNL, secondo cui la durata massima del periodo di prova non può eccedere i
"60 giorni di effettivo lavoro
prestato", e l'analoga espressione presente nella lettera di
assunzione, non potevano avere altro senso che quello fatto palese dalle
parole. In questa prospettiva, l'aggettivo "effettivo" indicherebbe la volontà delle parti di includere
nel periodo di prova solo i giorni in cui il lavoratore sia stato
effettivamente in attività di servizio, con esclusione di tutti gli altri in
cui tale attività non risulti reale ed effettiva.
In
particolare, in assenza di una diversa previsione della contrattazione
collettiva o del contratto individuale di lavoro, non potevano computarsi nel
periodo di durata del periodo di prova le giornate di riposo legale o
convenzionale godute dal lavoratore.
Questa
interpretazione, peraltro, risponderebbe alla finalità del patto di prova, che
è quella di consentire alle parti di verificare la reciproca convenienza della
prestazione lavorativa, nonché l’accertamento da parte del datore di lavoro
della capacità del prestatore di lavoro.
Ritenendo
fondata la predetta doglianza, la Cassazione ha premesso che, secondo il prevalente
orientamento della giurisprudenza di legittimità, il decorso di un periodo di
prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale, mentre non è
sospeso da ipotesi di mancata prestazione lavorativa inerenti al normale
svolgimento del rapporto, quali i riposi settimanali e le festività, deve
ritenersi escluso - in quanto preclude alle parti, sia pure temporaneamente, la
sperimentazione della reciproca convenienza del contratto di lavoro, che
costituisce la causa del patto di prova - in relazione ai giorni in cui la
prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili al momento della
stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l'infortunio, la gravidanza e
il puerperio, i permessi, lo sciopero, la sospensione dell'attività del datore
di lavoro e il godimento delle ferie annuali. Quest’ultimo, data la sua
funzione di consentire al lavoratore il recupero delle energie lavorative dopo
un cospicuo periodo di attività, non si verifica di norma nel corso del periodo
di prova (1).
Tale
principio, tuttavia, trova applicazione solo in quanto non sia diversamente
previsto dalla contrattazione collettiva, la quale può attribuire rilevanza
sospensiva del periodo di prova a dati eventi che accadano durante il periodo
medesimo (2).
Ciò
premesso, gli ermellini hanno osservato come, attraverso la sua denuncia, la parte ricorrente avesse argomentato
seguendo l'iter argomentativo posto alla base dell’indirizzo giurisprudenziale
suddetto.
In
conclusione, la Suprema Corte, ritenuti sussistenti i difetti denunciati con il
ricorso, ha disposto la cassazione della sentenza impugnata e la rimessione della
questione ad altro giudice, che - dopo i necessari accertamenti di fatto -
dovrà effettuare una nuova valutazione in merito al compimento, o meno, del
periodo di prova da parte del lavoratore.
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.23061 del 5 novembre 2007; Cass., Sentenza n.19558 del 13
settembre 2006;
2)
-
così Cass., Sentenza n.23061 del 5 novembre 2007; Cass., Sentenza n.4573 del 22
marzo 2012;
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