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lunedì 23 febbraio 2015

Licenziamento illegittimo: ritardare l’azione riduce il risarcimento

Nella sentenza n.3486 del 20 febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha chiarito che il ritardo con il quale il dipendente si attivi per evitare i danni che possano essere arrecati alla propria sfera giuridica dal comportamento illecito del datore di lavoro riducono l’importo del risarcimento dovutogli in seguito al licenziamento illegittimo.

Nel caso di specie, la lavoratrice, formalmente assunta a settembre 1999 con contratto part-time, sostenendo di aver iniziato il proprio rapporto, di fatto, nel gennaio dello stesso anno, aveva convenuto in giudizio l’azienda per veder dichiarata l’illegittimità del licenziamento intimatogli il 27 aprile 2001.

Il Tribunale di Messina, rigettata la domanda relativa al riconoscimento della sussistenza del rapporto in epoca antecedente alla sua formalizzazione e la conseguente domanda intesa a conseguire le relative differenze retributive, aveva dichiarato illegittimo  il recesso e, pur ritenendo applicabile il regime sanzionatorio di cui all’art.18 della Legge n.300/1970, aveva contenuto, in considerazione dell’aliunde percipiendum, il risarcimento del danno nelle dieci mensilità rispetto alle cinquantasei viceversa decorse dalla data dell’intimato provvedimento espulsivo, sottolineando che la dipendente, in qualità di creditrice, avesse omesso, in contrasto con l’ordinario obbligo di diligenza, di adoperarsi ai fini della limitazione del danno derivante dal comportamento illecito del datore.

Investita da entrambe le parti, la Corte di Appello di Messina aveva riformato in parte l’impugnata sentenza, dichiarando effettivamente sussistente il rapporto  a decorrere dal gennaio 1999 e dovute le differenze retributive maturate in relazione al periodo di lavoro sommerso, confermando la declaratoria di illegittimità del licenziamento nonché l’applicabilità del regime di tutela reale e, tuttavia, riducendo  ulteriormente il risarcimento del danno dovuto, nella misura minima di cinque mensilità.

In particolare, la Corte territoriale aveva così disposto ritenendo che l’espletata prova testimoniale avesse  accertato, in fatto, la costituzione anticipata del rapporto di lavoro, nonché l’effettiva illegittima motivazione del licenziamento, scaturito, in realtà, dal rifiuto opposto dalla lavoratrice alla trasformazione a tempo pieno del rapporto ed in relazione al rifiuto da ella opposto alla richiesta transattiva avanzata dalla società a soli due mesi dall’avviso di recesso.

Parimenti, il giudice dell’appello, in relazione al contenimento del danno, aveva ritenuto sussistente la violazione, da parte della ricorrente, dell'obbligo di diligenza dedotto nella sentenza del primo grado.

Successivamente investita della questione, la Cassazione ha confermato in pieno la validità dell’impianto motivazionale elaborato dal giudice dell’appello, sottolineandone la coerenza con l’orientamento interpretativo consolidatosi nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, anche riguardo al rapporto di lavoro, deve considerarsi operante la regola generale di cui all’art.1227, comma 2, c.c., che impone al creditore o al danneggiato di evitare, usando la normale diligenza, i danni che possano essere arrecati alla propria sfera giuridica dall’altrui comportamento illecito, sempre che ciò non risulti per i medesimi troppo oneroso o incida in misura apprezzabile sulla loro libertà d’azione (1).

Valerio Pollastrini

 
1)      - vedi, da ultimo, Cass., Sentenza n.24265/2013;

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