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giovedì 19 febbraio 2015

I reiterati provvedimenti disciplinari non configurano il mobbing

Nella sentenza n.3256 del 18 febbraio 2015, la Corte di Cassazione ha precisate che i reiterati provvedimenti disciplinari adottati nei confronti del dipendente, anche se illegittimi, non configurano, di per sé, un’ipotesi di mobbing.

Nel caso di specie, il Tribunale di Reggio Emilia, nonostante avesse ritenuto illegittimo il licenziamento irrogato alla  dipendente di una società di fornitura di lavoro temporaneo, nonché delle precedenti sanzioni conservative, aveva disatteso, tuttavia, la prospettazione in termini di mobbing delle condotte, assunte come vessatorie, poste in essere dal datore, ivi comprese quelle che avevano dato causa agli annullati provvedimenti disciplinari.

Successivamente, anche la Corte di Appello di Bologna aveva confermato la decisione del primo grado, rigettando, così, il gravame proposto dalla donna.

Nel motivare la propria decisione, la Corte territoriale aveva osservato come, pur in presenza del riconoscimento da parte dell’Inail della natura professionale della lamentata malattia, non risultassero provate sia la violazione dell’art.2087 c.c., sia il danno non patrimoniale conseguente all‘accertata illiceità dei precedenti provvedimenti sanzionatori.

Avverso questa sentenza, la donna aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando che il convincimento espresso dal giudice in ordine all’inconfigurabilità  di una ipotesi di mobbing risulterebbe inficiato da una considerazione solo parziale delle condotte pregiudizievoli denunciate  ed avrebbe condizionato la pronunzia in ordine alla spettanza del danno non patrimoniale, connesso all’illegittimità dei provvedimenti sanzionatori di cui la stessa Corte aveva confermato l’annullamento.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondate le doglianze predette.

Gli ermellini, infatti, hanno osservato come la ricorrente si fosse limitata a ribadire la propria tesi secondo cui l'assunzione da parte della Società nel breve volgere di un paio di mesi di iniziative sanzionatone, poi risultate tutte illegittime, non avesse prodotto soltanto l'esercizio, per quanto scorretto ed abnorme, di un potere legittimamente facente capo al datore di lavoro ma valesse, di per sé, a configurare in termini di mobbing la condotta datoriale medesima.

A detta della Suprema Corte, si tratta di una tesi censurabile alla stregua dell'orientamento interpretativo della giurisprudenza di legittimità, in base al quale il mobbing si configura allorché sia ravvisabile da parte del datore o di un superiore gerarchico un atteggiamento sistematico e protratto nel tempo di ostilità verso il dipendente che si concretizzi in una molteplicità di comportamenti così da tradursi in forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica tali da indurre la mortificazione morale e l’emarginazione del lavoratore (1).

Parimenti infondata, inoltre,  la censura relativa al mancato riconoscimento del danno non patrimoniale, a proposito della quale gli ermellini hanno sottolineato la mancata allegazione e prova di un danno ulteriore ed afferente alla sfera morale della lavoratrice, che le sarebbe derivato dall’illegittimo esercizio del potere disciplinare da parte della società.

Per tutte le considerazioni fin qui riportate, la Cassazione ha concluso rigettando il ricorso.

Valerio Pollastrini


1)      - vedi, da ultimo, in questi termini Cass., Sentenza n.22535/2014; Cass., Sentenza n.898/2014; Cass., Sentenza n.3785/2009;

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