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mercoledì 12 novembre 2014

Annullamento delle dimissioni per incapacità di intendere e di volere

Nella sentenza n.22836 del 28 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato quali sono le condizioni utili ad attestare lo stato di  incapacità di intendere e di volere, necessario per ottenere l’annullamento delle dimissioni rese.

Nel caso di specie, la Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo Spa aveva invitato un proprio dipendente a rassegnare le dimissioni ed a ripianare il dedito illegittimamente contratto dopo aver prelevato dal suo conto corrente la somma di lire 25 milioni  allo scoperto, senza la prevista autorizzazione del responsabile dell'ufficio.

Dopo aver adempiuto alle pretese aziendali, il lavoratore si era successivamente rivolto al Tribunale di Teramo, chiedendo l'annullamento delle dimissioni in virtù di quanto disposto dall'art.428 cod. civ., ai sensi del quale  possono essere annullati gli atti compiuti da una persona che, sebbene non interdetta, provi di essere stata, anche solo temporaneamente, incapace di intendere e di volere al momento del compimento degli atti suddetti.

Il ricorrente, infatti, aveva affermato che, all'epoca della firma delle dimissioni, versava in uno stato di grave prostrazione psico-fisica per disturbi ansioso-depressivi, ascrivibili anche all'ambiente di lavoro in cui aveva operato.

Tuttavia, per quanto emerso dall’accertamento medico-legale, nonché dall’escussione di alcuni testimoni, il giudice adito aveva rigettato la domanda del lavoratore.

In seguito, la decisione del primo grado era stata confermata anche dalla Corte di Appello di L'Aquila, che, in sostanza, aveva ribadito che, dall'attività istruttoria, era emerso che la patologia da cui era affetto il ricorrente non  fosse di una gravità tale da escludere, anche temporaneamente, la sua capacità di intendere e di volere.

Parimenti, la Corte territoriale aveva escluso, inoltre, che  le dimissioni rassegnate dal lavoratore potessero integrare, di per  sé, un comportamento assolutamente irrazionale, atto a dimostrare il proprio stato di incapacità naturale.

Dette dimissioni, infatti risultavano logicamente motivate da un  comportamento professionale scorretto e, pertanto, dall’esigenza di evitare le conseguenze, anche di natura penale, da esso derivanti.

Contro questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, che, investita della questione, ha rigettato il ricorso.

Secondo gli ermellini, infatti, la decisione impugnata  appare sorretta da un iter logico del tutto congruo e conforme ai principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo i quali, affinché l'incapacità naturale del dipendente possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario che questi versi in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e volitive.

A tal fine, invece,  è sufficiente che dette facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una seria valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto, nonché  la consapevolezza in ordine all'atto che sta per compiere.

A ciò si aggiunga che, quella incentrata sulla gravità della diminuzione delle suddette capacità è una valutazione  riservata al giudice del merito e dunque, se adeguatamente motivata, non può essere censurata in Cassazione.

Tornando alla vicenda di specie, la Suprema Corte  ha osservato che, alla stregua degli espletati accertamenti medico-legali, il giudice dell’appello aveva correttamente accertato che il ricorrente risultava affetto da una sindrome ansioso-depressiva, la cui gravità non era sufficiente al venir meno della sua capacità di autodeterminazione  ed, altresì, in grado di inibirne la  capacità di valutazione dell'atto.

Valerio Pollastrini

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