Nel
caso di specie, la Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo Spa aveva
invitato un proprio dipendente a rassegnare le dimissioni ed a ripianare il
dedito illegittimamente contratto dopo aver prelevato dal suo conto corrente la
somma di lire 25 milioni allo scoperto,
senza la prevista autorizzazione del responsabile dell'ufficio.
Dopo
aver adempiuto alle pretese aziendali, il lavoratore si era successivamente
rivolto al Tribunale di Teramo, chiedendo l'annullamento delle dimissioni in
virtù di quanto disposto dall'art.428 cod. civ., ai sensi del quale possono essere annullati gli atti compiuti da
una persona che, sebbene non interdetta, provi di essere stata, anche solo
temporaneamente, incapace di intendere e di volere al momento del compimento
degli atti suddetti.
Il
ricorrente, infatti, aveva affermato che, all'epoca della firma delle
dimissioni, versava in uno stato di grave prostrazione psico-fisica per
disturbi ansioso-depressivi, ascrivibili anche all'ambiente di lavoro in cui
aveva operato.
Tuttavia,
per quanto emerso dall’accertamento medico-legale, nonché dall’escussione di
alcuni testimoni, il giudice adito aveva rigettato la domanda del lavoratore.
In
seguito, la decisione del primo grado era stata confermata anche dalla Corte di
Appello di L'Aquila, che, in sostanza, aveva ribadito che, dall'attività
istruttoria, era emerso che la patologia da cui era affetto il ricorrente non fosse di una gravità tale da escludere, anche
temporaneamente, la sua capacità di intendere e di volere.
Parimenti,
la Corte territoriale aveva escluso, inoltre, che le dimissioni rassegnate dal lavoratore potessero
integrare, di per sé, un comportamento
assolutamente irrazionale, atto a dimostrare il proprio stato di incapacità
naturale.
Dette
dimissioni, infatti risultavano logicamente motivate da un comportamento professionale scorretto e,
pertanto, dall’esigenza di evitare le conseguenze, anche di natura penale, da
esso derivanti.
Contro
questa sentenza, il lavoratore aveva adito la Cassazione, che, investita della
questione, ha rigettato il ricorso.
Secondo
gli ermellini, infatti, la decisione impugnata appare sorretta da un iter logico del tutto
congruo e conforme ai principi più volte affermati dalla giurisprudenza di
legittimità, secondo i quali, affinché l'incapacità naturale del dipendente
possa rilevare come causa di annullamento delle sue dimissioni, non è necessario
che questi versi in uno stato di totale privazione delle facoltà intellettive e
volitive.
A
tal fine, invece, è sufficiente che
dette facoltà risultino diminuite in modo tale da impedire od ostacolare una
seria valutazione dell'atto e la formazione di una volontà cosciente, facendo
quindi venire meno la capacità di autodeterminazione del soggetto, nonché la consapevolezza in ordine all'atto che sta
per compiere.
A
ciò si aggiunga che, quella incentrata sulla gravità della diminuzione delle
suddette capacità è una valutazione riservata al giudice del merito e dunque, se
adeguatamente motivata, non può essere censurata in Cassazione.
Tornando
alla vicenda di specie, la Suprema Corte ha osservato che, alla stregua degli espletati
accertamenti medico-legali, il giudice dell’appello aveva correttamente accertato
che il ricorrente risultava affetto da una sindrome ansioso-depressiva, la cui
gravità non era sufficiente al venir meno della sua capacità di autodeterminazione
ed, altresì, in grado di inibirne la capacità di valutazione dell'atto.
Valerio
Pollastrini
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