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giovedì 7 febbraio 2013

La semplice detenzione di marijuana non legittima il licenziamento


Con la sentenza n.21940 la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha escluso che la semplice detenzione per uso personale di marijuana, con esclusione dell’ipotesi del reato di spaccio, possa legittimare il licenziamento intimato dall’azienda.

Si tratta infatti di una situazione privata extralavorativa la cui gravità non può incidere sulla lesione del vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro subordinato.

Il caso riguarda un dipendente di Poste Italiane con mansioni di portalettere,  arrestato per i reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti.

L’azienda, dopo aver provveduto ad una prima  sospensione cautelare, aveva successivamente licenziato il lavoratore al termine del procedimento penale che si era concluso con il patteggiamento. La giusta causa di licenziamento, a parere del datore di lavoro, muoveva dall’assunto che il reato per il quale era stato condannato il dipendente riflettesse comunque conseguenze negative sia nell’ambito lavorativo che sull’immagine della società.

Il lavoratore aveva quindi impugnato il licenziamento e il Tribunale di primo grado aveva accolto le sue richieste, dichiarando l’illegittimità del recesso con conseguente reintegra nel posto di lavoro e condanna della società al pagamento dell’indennità risarcitoria.

La Corte di Appello nel confermare la decisione di primo grado rilevava che il reato ascritto nel corso del giudizio era stato derubricato da detenzione e spaccio a semplice detenzione per uso personale. La fattispecie dunque andava configurata come  situazione privata extralavorativa non idonea ad incidere sul rapporto di lavoro e ad impedirne la prosecuzione.

Avverso tale decisione l’azienda aveva  proposto ricorso in Cassazione.

La Suprema Corte ha ritenuto corrette le motivazioni della Corte di merito, confermando che il semplice reato di  detenzione di sostanze stupefacenti, con l’accertata esclusione dello spaccio, attiene solo ad una situazione privata extralavorativa del dipendente e che la stessa non può  incidere sul necessario rapporto di fiducia tra datore di lavoro e lavoratore.

Sulla base di tali considerazioni, la Suprema Corte ha quindi respinto il ricorso proposto dalla società.

Valerio Pollastrini

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