Nel caso in commento il dipendente si era giustificato
sostenendo che la patologia della quale risultava affetto fosse tale da non
impedirgli di uscire e che, quand’anche avesse frequentato il bar della moglie,
non per questo poteva desumersi che avesse svolto in favore di essa un’attività
lavorativa.
Investiti della questione, gli ermellini hanno sottolineato,
tuttavia, come nel corso dell’istruttoria fosse emersa chiaramente la prova
dello svolgimento dell'attività lavorativa, in maniera non episodica, presso
l'esercizio commerciale della consorte.
Ciò chiarito, la Suprema Corte ha poi precisato che il
dipendente avrebbe dovuto, quale condizione esimente, dimostrare che detta
attività, svolta in favore di terzi, fosse compatibile con la patologia che,
invece, ne aveva determinato l'assenza dal posto di lavoro, e fosse stata tale
da non pregiudicare la sua guarigione.
In difetto di tali prove, la Cassazione ha pertanto
confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato al
lavoratore.
Dott. Valerio Pollastrini
Corte di
Cassazione, Sentenza n.586 del 15 gennaio 2016
Svolgimento del
processo
Con ricorso al
Tribunale di Roma, D.A. dedusse di aver lavorato alle dipendenze
dell'Associazione CNOS-FAP Regione Lazio dall'1.11.1999 al 2.3.2007 in qualità
di operaio ausiliario di I livello; che era stato licenziato dalla datrice di
lavoro a seguito di contestazione disciplinare del 16 febbraio 2007, relativa
allo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi in costanza di
assenza per malattia nel medesimo mese di febbraio; che il recesso aziendale
era da ritenersi illegittimo sotto vari profili e comunque privo di giusta
causa, essendo egli affetto da uno stato patologico tale che gli consentiva di
uscire in qualunque ora del giorno mentre in ogni caso, anche ammesso che si
recasse nell’esercizio commerciale (bar) gestito dalla di lui moglie, non vi
era la prova che egli avesse svolto attività lavorativa in favore della coniuge
all'interno del bar.
Il Tribunale
respingeva il ricorso, ritenendo legittima la procedura di irrogazione della
sanzione posta in essere dal datore di lavoro; provati gli addebiti e
sussistente la proporzionalità della sanzione adottata.
Avverso tale sentenza
proponeva appello l'A.; si costituiva l'appellata resistendo al gravame di cui
chiedeva il rigetto.
Con sentenza
depositata il 28 febbraio 2012, la Corte d'appello di Roma rigettava il
gravame, ritenendo provato l'addebito e legittima la sanzione irrogata.
Per la cassazione di
tale sentenza propone ricorso l'A., affidato a due motivi, poi illustrati con
memoria.
Resiste l'Associazione
con controricorso.
Motivi della decisione
1. - Con il primo
motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt.
115 e 116 c.p.c.(art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.).
Lamenta che la Corte
di merito ritenne provato l'addebito sulla base della testimonianza M.
(dipendente della società investigativa incaricata dalla datrice di lavoro), e
del rapporto da questi redatto, senza tener conto di alcune significative
circostanze: innanzitutto che il giorno 1° febbraio 2007 aveva accompagnato la
figlia presso il Policlinico per una visita specialistica, come risultava dalla
relativa documentazione prodotta sin dal primo grado, circostanza ignorata sia
dal Tribunale che dalla Corte di merito, nonostante specifica censura al
riguardo. D'altro canto evidenzia che la relazione dell'investigatore era priva
di allegazioni fotografiche, sicché, essendo emerso che solo in occasione del
1° febbraio 2007 il teste sarebbe entrato nel bar constatando l'attività
lavorativa del ricorrente, mentre nelle altre giornate si sarebbe solo
trattenuto all'esterno dell'esercizio commerciale, non era stata raggiunta
alcuna prova certa di un effettivo svolgimento di attività lavorativa presso
terzi, salvo, in tesi, il 1° febbraio.
2. - Con il secondo
motivo il ricorrente denuncia l'omesso esame di un fatto decisivo della
controversia (art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.).
Lamenta che la
valutazione della Corte di merito circa la gravità della sua condotta presenta
vizi logici e giuridici, non avendo considerato che secondo il costante
insegnamento di legittimità, lo svolgimento di attività lavorativa in favore di
terzi durante l'assenza per malattia, rileva unicamente allorquando tale
attività lavorativa possa pregiudicare la guarigione, ovvero quando, secondo le
concrete risultanze di causa, essa faccia presumere l'inesistenza o simulazione
dello stato morboso.
Evidenzia l'A. che
nella specie la sua infermità (sindrome ansioso depressiva) era ampiamente
documentata, mentre la natura stessa della patologia consigliava l'uscita da
casa e la stessa frequentazione del bar della moglie costituivano elementi atti
(e non contrari) a favorire la sua guarigione.
3. - I motivi, che per
la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono in parte
inammissibili e per il resto infondati.
Inammissibili in primo
luogo in quanto nella sostanza diretti entrambi, nonostante l'invocazione, nel
primo motivo, dell'art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., ad un riesame delle circostanze
di fatto, precluso al giudice di legittimità.
Deve infatti
considerarsi che il controllo di logicità del giudizio di fatto, consentito
dell'art. 360, comma primo, n. 5) cod. proc. civ., ivi compreso quello
denunciato sub violazione dell'art. 115 e\o 116 c.p.c. (cfr. Cass. n.
15205\14), non equivale alla revisione del "ragionamento decisorio",
ossia dell'opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata
soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione, in realtà,
non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe sostanzialmente in
una sua nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata
dall'ordinamento ai giudice di legittimità; ne consegue che risulta del tutto
estranea all'ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di
cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l'autonoma,
propria valutazione delle risultanze degli atti di causa. Né, ugualmente, la
stessa Corte realizzerebbe il controllo sulla motivazione che le è demandato,
ma inevitabilmente compirebbe un (non consentito) giudizio di merito, se -
confrontando la sentenza con le risultanze istruttorie - prendesse d'ufficio in
considerazione un fatto probatorio diverso o ulteriore rispetto a quelli assunti
dal giudice del merito a fondamento della sua decisione, accogliendo il ricorso
"sub specie" di omesso esame di un punto decisivo. Del resto, il
citato art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ. non conferisce alla Corte
di cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma
solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza
giuridica, l'esame e la valutazione operata dal giudice del merito al quale
soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, in
proposito, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza,
scegliendo, tra le varie risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a
dimostrare i fatti in discussione.
(Cass. 6 marzo 2006 n.
4766; Cass. 25 maggio 2006 n. 12445; Cass. 8 settembre 2006 n. 19274; Cass. 19
dicembre 2006 n. 27168; Cass. 27 febbraio 2007 n. 4500; Cass. 26 marzo 2010 n.
7394; Cass. 5 maggio 2010 n. 10833, Cass. n. 15205\14).
D'altro canto, come
osservato da Cass. sez. un. 25.10.2013 n. 24148, la motivazione omessa o
insufficiente è configurabile soltanto qualora dal ragionamento del giudice di
merito, come risultante dalla sentenza impugnata, emerga la totale
obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione,
ovvero quando sia evincibile l’obiettiva carenza, nel complesso della medesima
sentenza, del procedimento logico che lo ha indotto, sulla base degli elementi
acquisiti, al suo convincimento, ma non già quando, invece, vi sia difformità
rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul
significato dal primo attribuiti agli elementi delibati, risolvendosi,
altrimenti, il motivo di ricorso in un'inammissibile istanza di revisione delle
valutazioni e del convincimento di quest'ultimo tesa all’ottenimento di una
nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del
giudizio di cassazione.
Nella specie deve
osservarsi che la Corte di merito, nell'ambito del prudente apprezzamento delle
circostanze di fatto ad essa spettante, ha logicamente evidenziato che dalla
relazione del M., e dalla relativa deposizione testimoniale, era emersa la
prova dello svolgimento, costante e non episodico, di attività lavorativa
presso l'esercizio commerciale della moglie da parte del ricorrente.
Occorre peraltro
evidenziare che il ricorrente lamenta l'omesso esame di documenti che non
produce o riproduce in ricorso, in violazione del principio di autosufficienza
e dell'art. 369 c.p.c. Ancora, il ricorrente non chiarisce (tanto meno
producendo, come necessario, i relativi atti processuali) in quale sede, quando
ed in quali termini fu sottoposta al giudice d'appello la doglianza dell'omesso
esame del documento inerente la visita specialistica della figlia, in contrasto
col principio dell'autosufficienza del ricorso per cassazione.
I motivi, e
segnatamente il secondo, sono parimenti inammissibili laddove mirano, ancora,
ad un diverso apprezzamento dei fatti, in particolare circa la particolarità
della patologia sofferta e la sua compatibilità con Io svolgimento di attività
lavorativa non pesante. Essi sono poi infondati laddove non considerano che
sarebbe stato onere del lavoratore dimostrare la compatibilità dell’attività
lavorativa svolta in favore di terzi con l'infermità determinante l'assenza dal
lavoro con l'Associazione datrice di lavoro e col recupero delle energie
lavorative (ex aliis, Cass. n. 4237\2015, Cass. 19.12.2000 n. 15916).
Deve infine
evidenziarsi l’inconferenza della giurisprudenza citata (in particolare Cass.
n. 6375\2011), inerente lo svolgimento, da parte del lavoratore assente per
malattia, dei normali atti della vita quotidiana con espressa esclusione
dell'attività lavorativa presso terzi.
Parimenti inconferente
risulta il richiamo alla sentenza n. 4237\2015 di questa Corte, contenuto nella
memoria ex art. 378 c.p.c., che, oltre a ribadire che grava sul lavoratore
assente per malattia l'onere di dimostrare la compatibilità del lavoro nelle
more svolto presso terzi con l'infermità denunciata, e la sua inidoneità a
pregiudicare il recupero delle normali energie psicofisiche (onere probatorio
rimasto nella specie non assolto), ha ribadito che le relative valutazioni sono
riservate al giudice del merito (Cass. 19 dicembre 2000, n. 15916 cit.; Cass.
13 aprile 1999, n. 3647), riguardando peraltro il caso di lavoratore
infortunato e non ammalato (laddove solo la malattia comporta, in via generale,
una impossibilità di attendere all'attività lavorativa), ove era pacifico che
l'attività lavorativa svolta durante la malattia presso terzi non avesse pregiudicato
la sua guarigione.
4. - Il ricorso deve
essere pertanto rigettato.
Le spese di lite
seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi dell'art.
13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L.
24.12.12 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da
dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di
legittimità, che liquida in €.100,00 per esborsi, €.3.000,00 per compensi,
oltre spese generali ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13,
comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n.
228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato,
pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.
13.
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