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domenica 25 maggio 2014

Competenza territoriale nel processo del lavoro

Nell’ambito del processo del lavoro, nell’Ordinanza n.11320 del 22 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha chiarito quale sia il foro competente per l’impugnazione del licenziamento irrogato verbalmente ad un lavoratore in un cantiere stradale lontano dalla sede aziendale.

Nel caso di specie, il Tribunale adito, dopo aver rilevato che il contratto di lavoro fosse stato stipulato a Cittanova, in provincia di Reggio Calabria, e che la sede aziendale non fosse ricompresa nel circondario di riferimento, aveva escluso che la controversia rientrasse nella propria competenza, in quanto nel comune di Sangineto, dove si trovava il cantiere delle strade interessate dai lavori, non era ravvisabile una dipendenza della società, mancando un nucleo, pur modesto, di beni organizzati.

Investita della questione, la Suprema Corte ha evidenziato che, ai fini della determinazione del giudice territorialmente competente sulle controversie di lavoro, per dipendenza dell’azienda deve intendersi una struttura organizzativa di ordine economico-funzionale, dislocata in luogo diverso dalla sede dell’azienda e caratterizzata dall’esplicazione di un potere decisionale e di controllo conforme alle esigenze specifiche dell’attività ad essa facente capo.

La Cassazione ha quindi precisato che,   nell’individuazione di tale dipendenza, è possibile  fare riferimento anche ad una elementare terminazione dell'impresa, costituita da un minimo di beni aziendali, necessari per l'espletamento della prestazione lavorativa, e che può essere ravvisata anche in un cantiere stradale nel caso in cui  ad esso risultino addetti i lavoratori preposti all'espletamento dell'attività appaltata.

In virtù dei principi sopra richiamati la Corte di legittimità ha accolto il ricorso del lavoratore, dichiarando la competenza del Tribunale originariamente adito.

Valerio Pollastrini

venerdì 23 maggio 2014

Dubbi sulla legittimità del contributo per il rilascio del permesso di soggiorno

In seguito all’Ordinanza n.5290, emessa dal Tar del Lazio il 20 maggio 2014, la Corte di Giustizia europea dovrà decidere se sia legittimo il contributo economico previsto in Italia per il rilascio del permesso di soggiorno.

 
Si tratta dell’onere introdotto dalla Legge Economica del 6 ottobre 2011 che, modificando il Testo Unico sull’Immigrazione, ha previsto, a carico dei cittadini stranieri, il pagamento di un contributo tra 80,00 e 200,00 € per il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, che è andato a sommarsi agli altri oneri previsti dalla normativa nazionale di riferimento.

Nella pronuncia in commento, il Tar ha avanzato dei dubbi sulla trasparenza di questo adempimento, anche in virtù del fatto che  metà della somma richiesta verrebbe dirottata per il finanziamento del Fondo Rimpatri, mentre la rimanenza assolverebbe alle spese per il disbrigo ed il rilascio dei permessi di soggiorno.

Secondo i giudici, la norma viola i principi di eguaglianza e ragionevolezza, nonché quelli di capacità contributiva, di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa.

Sarà dunque la Corte europea a porre fine alla questione.

Valerio Pollastrini

La corretta retribuzione del lavoratore in ferie

Nel dirimere la controversia insorta tra una società inglese ed un suo dipendente, nella sentenza del 22 maggio 2014, causa c-539/2012, la Corte di Giustizia Europea ha dichiarato che, nel caso in cui  un lavoratore, in aggiunta alla retribuzione fissa, percepisca abitualmente un compenso variabile relativo a provvigioni sul fatturato realizzato, la monetizzazione delle ferie deve essere rapportata all’intera retribuzione e non soltanto alla quota fissa di essa.

Nella vicenda in commento, il lavoratore si era rivolto al Giudice comunitario in quanto, non potendo concludere nuove vendite durante il periodo di inattività, aveva subito una riduzione dello stipendio   a causa delle mancate provvigioni relative al mese di godimento delle ferie.

In particolare, il ricorrente aveva chiesto alla Corte di Giustizia UE di chiarire se la normativa comunitaria (1) impone agli Stati membri di adottare provvedimenti che garantiscano ai lavoratori, durante il periodo di ferie annuali,  il pagamento, in aggiunta al compenso ordinario, delle provvigioni che avrebbero guadagnato se non si fossero astenuti dal lavoro per godere dei riposi contrattuali.

In caso affermativo, il lavoratore aveva invitato il giudicante ad elencare i principi necessari per il calcolo delle suddette provvigioni.

Investita della questione, la Corte di Giustizia ha innanzitutto premesso che la finalità della Direttiva 2003/88 è quella di garantire al lavoratore in ferie uno stipendio paragonabile a quello percepito durante i periodi di lavoro.

A tale proposito, sia l’azienda che il Governo del Regno Unito avevano sostenuto che le disposizioni e le prassi nazionali assolvono all’obiettivo perseguito dalla normativa comunitaria, in quanto, durante il suo periodo di ferie annuali retribuite,  il ricorrente aveva percepito  uno stipendio paragonabile a quello ricevuto nel corso del periodo di lavoro. Oltre al compenso di base, il dipendente aveva, infatti, potuto disporre delle provvigioni derivanti dalle vendite  realizzate nel corso delle settimane precedenti al periodo di riposo.

Tale argomentazione è stata però sconfessata dalla Corte che, pur confermando come
l’importo erogato dall’azienda per le ferie annuali e per le  vendite realizzate nel corso delle settimane precedenti ad esse aveva permesso al lavoratore di fruire effettivamente delle giornate di riposo, tuttavia, lo svantaggio finanziario differito al periodo di rientro al lavoro, avrebbe potuto dissuaderlo dall’esercitare il proprio diritto alle ferie annuali.

Come confermato dalla società resistente, infatti, durante il periodo di astensione, il lavoratore non produce provvigioni e, di conseguenza, nel mese successivo a quello delle ferie matura esclusivamente una retribuzione ridotta allo stipendio di base.

Orbene, per la Corte di Giustizia, siffatta diminuzione del compenso  risulta in contrasto con l’obiettivo perseguito dall’articolo 7 della Direttiva 2003/88.

In sostanza, a proposito dei lavoratori, la cui retribuzione sia normalmente composta da una quota base ed una provvigione rapportata alle vendite realizzate, la corretta interpretazione della richiamata normativa comunitaria vieta alle regolamentazioni o alle prassi nazionali di disporre, durante il periodo di godimento delle ferie annuali,  una retribuzione composta esclusivamente dallo  stipendio fisso.

Quanto ai richiesti metodi di calcolo delle provvigioni per il periodo di ferie, la Corte ha osservato che la retribuzione versata a titolo di ferie annuali deve essere, in linea di principio,  calcolata in modo da garantire al lavoratore la retribuzione abitualmente percepita.

Qualora, pertanto, la paga solitamente corrisposta risulti composta da più elementi, la determinazione del compenso dovuto nel corso del periodo feriale necessita di una specifica analisi.

Ogni incomodo, intrinsecamente collegato all’esecuzione dei compiti gravanti sul lavoratore, compensato da un importo in denaro incidente sul calcolo della sua retribuzione globale, deve necessariamente far parte del corrispettivo relativo alla mensilità di fruizione delle ferie annuali.

Tale assunto, impone, pertanto, che tutti gli elementi della retribuzione globale, ricollegati  allo status personale e professionale del lavoratore, debbano continuare ad essere versati durante le ferie annuali.

Se, dunque, gli eventuali premi che si ricolleghino  alla  qualità  di superiore gerarchico, all’ anzianità o alle  qualifiche professionali devono essere mantenuti, di contro, gli elementi della retribuzione globale del lavoratore, diretti esclusivamente a coprire i costi occasionali o accessori che insorgono in occasione dell’esecuzione delle sue mansioni, non devono essere presi in considerazione all’atto del calcolo del pagamento da corrispondere durante le ferie.

Nel caso specifico, risultando palese il diretto rapporto della  provvigione con l’attività svolta in seno all’impresa, sussiste, parimenti, un nesso intrinseco tra la quota variabile percepita mensilmente dal dipendente e l’esecuzione dei compiti su di esso incombenti in forza del contratto di lavoro.

Ne consegue che siffatta provvigione deve essere tenuta in considerazione per la quantificazione della retribuzione globale spettante al lavoratore durante le ferie annuali.

La Corte di Giustizia ha concluso ricordando come, in un simile contesto, spetti al Giudice nazionale valutare, alla luce dei principi appena enucleati, se, sulla base di una media relativa ad un periodo di riferimento rappresentativo, i metodi di calcolo della provvigione dovuta ad un lavoratore, a titolo di ferie annuali, raggiungano l’obiettivo perseguito dall’articolo 7 della Direttiva 2003/88.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - articolo 7 della Direttiva 93/104/CE  del 23 novembre 1993, relativa all’organizzazione dell’orario di lavoro, come modificato dalla Direttiva 2003/88;

Quale sanzione per la nomina di un Responsabile Servizio di Prevenzione privo dei requisiti

Nella sentenza n. 20682 del  21 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che la sanzione penale prevista per l’omessa nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, risulta applicabile  anche in caso di conferimento  ad un soggetto privo dei requisiti prescritti.

Nel caso di specie, il datore di lavoro aveva sostenuto che  la particolare sanzione di natura penale (1),  trovasse applicazione solamente in caso di mancata individuazione del responsabile del servizio (2) e non anche per l’individuazione di una persona priva dei requisiti (3).

Investita della questione, la Cassazione ha ricordato come la fattispecie di reato, avente ad oggetto la mancata nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione,  è stata predisposta per risolvere il contrasto tra la previgente normativa italiana (4), che richiedeva  condizioni soggettive assolutamente generali, e quella comunitaria (5), che  invitava, invece,  gli Stati membri a precisare le capacità e le attitudini della persona preposta alla sicurezza.

Si rammenti, inoltre, come il mancato recepimento dei dettami comunitari era stato sanzionato dalla  Corte di Giustizia CE (6), che  aveva condannato lo Stato italiano per inadempienza.

Questo, in sostanza, l’iter dal quale è scaturita l’introduzione (7) nel D.Lgs. n.626/1994 dell’articolo 8-bis, attraverso il quale è stato posto rimedio al suddetto deficit della normativa interna.

Successivamente, l'art.32 del D.Lgs. n.81 del  9 aprile 2008 ha fissato (8)  i requisiti necessari  per lo svolgimento delle funzioni dei soggetti preposti al servizio in commento.

Dopo aver riepilogato l’evoluzione dell’impianto normativo di riferimento, la Suprema Corte ha affermato che l'assenza dei requisiti soggettivi rende la designazione inefficace, in quanto inadatta a garantire   il diritto del lavoratore alla salubrità e sicurezza del lavoro ed il suo diritto alla salute.

Venendo alla disciplina sanzionatoria, gli artt. 55 e seguenti del D.Lgs n.81 del  9 aprile 2008 hanno sostituito l’impianto predisposto dalla normativa previgente (9).

Nonostante, sul piano delle sanzioni, la novella legislativa non abbia espressamente posto in relazione l’ipotesi della mancata nomina del responsabile con quella del conferimento a soggetto privo dei necessari requisiti, tale equiparazione, a detta della Cassazione, risulta evidente dal significato complessivo della fattispecie.

L'unico modo che consente al datore di lavoro di rispettare l'obbligo di nominare un Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione è, infatti, quello di incaricare una persona in possesso dei requisiti previsti dalla norma.

Di conseguenza,  la nomina di una persona inidonea comporta, inevitabilmente, la violazione dell'obbligo suddetto e deve essere considerata inefficace, con logica applicazione della sanzione penale.

Quella appena fornita, risulta essere, inoltre, l’unica possibile interpretazione conforme ai richiamati dettami comunitari.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - ex art.606, lett.b) cod. proc. pen.;
(2)   - art.55 del D.Lgs. n.81 del 9 aprile 2008;
(3)   - previsti dall’art.32 del D.Lgs. n.81 del 9 aprile 2008;
(4)   - art. 8, comma 3, del D.Lgs. n.626/1994;
(5)   - paragrafo 8 dell'art. 7 della Direttiva n. 89/391/CEE del 12 giugno 1989;
(6)   - sentenza del 15 novembre 2001, causa C-49/00;
(7)   – attraverso il D.Lgs. n.195 del 23 giugno 2003;
(8)   - al comma 2;
(9)   – artt. n.89-94 del D.Lgs. n.626/1994;

Riforma dell’apprendistato – Gli ultimi chiarimenti

Attraverso la conversione del c.d. “Decreto Lavoro” nella legge n.78/2014, è stato predisposto l’ennesimo restyling nel nostro ordinamento della disciplina dell’apprendistato.

Nel corso del Forum Lavoro 2014, organizzato dalla rivista “Italia Oggi” in collaborazione con la Fondazione studi dei Consulenti del lavoro,  è stato chiarito che le parti sociali potranno inserire nei  Contratti Collettivi Nazionali delle deroghe, sia al limite del 20%  dei rapporti di apprendistato che dovranno essere trasformati in rapporti a tempo indeterminato per la valida stipulazione di nuovi contratti, che al numero dei dipendenti in forza all’azienda per l’individuazione delle imprese tenute a rispettare il suddetto obbligo.

Nel corso dell’evento è stato inoltre ribadito che il Piano Formativo Individuale debba essere redatto per iscritto, anche se in forma sintetica.

A tal proposito, giova ricordare che il Ministero del lavoro avesse già chiarito come l’obbligo di  redigere il Piano rappresenti un adempimento di natura formale e che, pertanto,  non incide sulla validità del rapporto di apprendistato.

In caso di avvenuto riscontro del mancato adempimento, l’ispettore sarà dunque obbligato ad emettere una diffida per la conseguente regolarizzazione.

Valerio Pollastrini


(1)   – Decreto Legge n.34/2014;

mercoledì 21 maggio 2014

Nel contratto di agenzia il diritto di esclusiva può essere revocato tacitamente

Nella sentenza n.9226 del 26 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha riepilogato le caratteristiche essenziali del contratto di agenzia, soffermandosi sulle condizioni che consentono di ritenere provata la revoca, anche tacita, del diritto di esclusiva.

Il caso di specie è quello che ha visto un’azienda richiedere alcune provvigioni ad una società agente, relative ad un determinato periodo di svolgimento del contratto intercorso tra le parti.

Dopo che il Tribunale ne aveva accolto la domanda, la Corte di Appello aveva parzialmente riformato la sentenza di primo grado, riconoscendo solo  un importo minimo del credito dedotto dal committente.

Investita della questione, la Cassazione ha confermato quanto disposto nella pronuncia della Corte del merito.

La sentenza in commento, si segnala per aver chiarito le modalità di attuazione della revoca del diritto di esclusiva originariamente concordato, sottolineandone una possibile configurabilità anche in forma tacita.

La Suprema Corte ha ricordato che il diritto di esclusiva non costituisce un elemento essenziale  del contratto di agenzia e, pertanto, può essere validamente derogato dalle parti.

Tale possibilità può essere desunta  anche in via indiretta, purché in modo chiaro ed univoco, dall’analisi della regolamentazione del rapporto predisposta dalle parti.

In particolare, nel caso in cui sia stato stabilito che il committente possa nominare più agenti nella stessa zona,   l'esclusione della provvigione  per le vendite concluse dallo stesso preponente potrà essere desunta, nonostante   sia stato precedentemente convenuto un regime di esclusiva limitato agli affari trattati dagli agenti con determinati clienti, nominativamente indicati.

In sostanza,  il diritto di esclusiva  può essere derogato, sia in forza di clausola  espressa, che attraverso  una tacita manifestazione di volontà, desumibile dal comportamento dalle  parti  al momento della conclusione del contratto o durante la sua esecuzione.

Conseguentemente, la deroga all'esclusiva in favore dell'agente comporta il mancato diritto di quest’ultimo  alla provvigione per gli affari conclusi nella zona direttamente dal preponente.

Valerio Pollastrini

Responsabilità dell’imprenditore per i danni provocati ai dipendenti dall’esposizione ad amianto

Nella sentenza n.10425 del 14 maggio 2014 la Corte di Cassazione è stata nuovamente chiamata ad esprimersi in merito alla responsabilità datoriale per i danni causati ai dipendenti dall’esposizione all’amianto sul luogo di lavoro.

In materia di tutela delle condizioni di lavoro, l'art. 2087 cod. civ.  sancisce la responsabilità dell’imprenditore in caso di mancata adozione delle cautele necessarie, con riguardo al rischio concreto connesso al tipo di lavorazioni svolte in azienda, a salvaguardare l'integrità psicofisica dei dipendenti.

La vicenda in commento riguarda l’esposizione ad amianto di un lavoratore, impiegato negli anni ’80 presso le  attuali Ferrovie dello Stato.

In seguito al decesso del dipendente, gli eredi avevano citato in giudizio l’azienda, chiedendo il risarcimento dei danni subiti. Sia il Tribunale, che la Corte di Appello, ne avevano accolto le richieste.

Contro la sentenza della Corte del merito,  il datore di lavoro aveva proposto ricorso in Cassazione, assumendo   di aver adottato, all'epoca dei fatti, ogni tipo di precauzione possibile in relazione alle conoscenze scientifiche del momento storico.

Nel rigettare il ricorso, la Suprema corte ha innanzitutto ricordato come,  all'epoca,  la portata nociva dell'inalazione delle polveri di amianto fosse già conosciuta. Circostanza acclarata dall’esistenza di diverse direttive comunitarie sulla materia.

Dagli atti, era inoltre emerso che nel 1989 i vertici aziendali avessero concordato con i sindacati una verifica della portata generale  dell'esposizione all'amianto dei lavoratori impiegati nelle cabine di guida.

La Cassazione ha poi preso atto che il nesso causale tra la condotta del lavoratore e l'evento morte, nonché la responsabilità del datore di lavoro per omessa adozione di specifiche cautele volte a proteggere la salute dei dipendenti, fossero stati adeguatamente dimostrati nel corso dei giudizi del merito.

La suddetta responsabilità, inoltre, risultava attestata da alcune precedenti pronunce ai danni delle ferrovie dello Stato, aventi ad oggetto il medesimo tema.

Queste, in sostanza, le ragioni che hanno indotto la Suprema Corte a rigettare il ricorso, confermando il risarcimento del danno in favore degli eredi  per la mancata predisposizione, da parte del datore di lavoro, di idonei meccanismi di protezione contro l’esposizione alle polveri di amianto dei lavoratori.

Valerio Pollastrini

Se non preceduta da avviso bonario è nulla la cartella esattoriale relativa alle imposte su redditi soggetti a tassazione separata

Nell’Ordinanza n.11000 del 20 maggio 2014  la Corte di Cassazione ha affermato che l’Ufficio finanziario non può emettere la cartella di pagamento per l’imposta dovuta su redditi dichiarati a tassazione separata senza che abbia preventivamente avvisato il contribuente dell’irregolarità riscontrata.

La vicenda in commento è quella che ha visto un contribuente impugnare una cartella di pagamento, ricevuta dall’Agenzia delle Entrate per l’imposta richiesta a conguaglio, relativa a redditi soggetti a tassazione separata.  

Nel corso del giudizio di primo grado, l’Agenzia delle Entrate aveva disposto l’annullamento delle sanzioni e degli interessi iscritti a ruolo, tuttavia, la Commissione Tributaria Provinciale aveva ugualmente accolto  il ricorso del contribuente.

Successivamente, la Commissione Tributaria Regionale  aveva rigettato l’appello proposto dall’Agenzia, rilevando la necessità dell’invio dell’avviso bonario per eliminare ogni incertezza, dimostrata, tra l’altro, dallo sgravio autonomamente riconosciuto dall’Ufficio nel corso del primo grado di giudizio.

Sul piano normativo, l’art.6, comma 5, della Legge n.212/2000 richiede espressamente, a pena di nullità dell’iscrizione a ruolo, l’obbligo, da parte dell’Agenzia delle Entrate, di inoltrare al contribuente una preventiva comunicazione di irregolarità, ogniqualvolta sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione.

Quanto al caso di specie, riscontrata la mancata comunicazione preventiva, la Commissione Tributaria Regionale aveva disposto  la nullità dell’atto impugnato.

Contro la sentenza di appello, l’Agenzia aveva ricorso per Cassazione.

Investita della questione, la Suprema Corte ha premesso come, ai sensi delle relative disposizioni di legge, in caso di mancato pagamento, l’iscrizione a ruolo delle somme richieste debba avvenire  entro il termine di trenta giorni dal ricevimento dell'apposito avviso bonario (1),  con applicazione delle sanzioni (2) e degli interessi (3), a decorrere dal primo giorno del secondo mese successivo a quello di elaborazione della predetta comunicazione.

La Cassazione ha concluso ribadendo che la mancata comunicazione al contribuente dell’esito della liquidazione  ha determinato una violazione del procedimento, dalla quale consegue la nullità del provvedimento impugnato, senza che a tal fine rilevi la ricorrenza o meno di incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione.

Questa, in sostanza, la motivazione che ha indotto la Suprema Corte a rigettare il ricorso, con conseguente condanna dell’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese di giudizio.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Secondo le disposizioni di cui al DPR n.602 del 29 settembre 1973 e successive modificazioni;
(2)   – Previste  dall'articolo 13, comma 2, del  D.Lgs. n.471 del 18 dicembre 1997;
(3)   – Secondo quanto disposto dall'articolo 20 del DPR n.602 del 29 settembre 1973;

Elementi di prova per la configurazione del mobbing

Secondo la definizione elaborata ormai da anni dalla giurisprudenza di legittimità, per mobbing si intende la condotta,  protratta nel tempo, attraverso la quale  il datore di lavoro ponga intenzionalmente in essere degli abusi ai danni del dipendente.

Nella sentenza n.10424 del 14 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che, per ottenere il risarcimento del danno da mobbing, il lavoratore ha l’onere di provare che una simile condotta sia stata esercitata nei suoi confronti da un superiore gerarchico.

Il caso di specie è giunto all’attenzione della Suprema Corte dopo che il Tribunale e  la Corte di Appello avevano rigettato la richiesta di risarcimento avanzata da   un impiegato dell'Agenzia delle Entrate.

Confermando quanto disposto nei primi due gradi di giudizio, la Cassazione ha sottolineato che nella vicenda in commento non fosse stata raggiunta la prova della condotta mobbizzante.

Gli ermellini hanno ricordato che, affinché la fattispecie vessatoria possa  ritenersi configurata, il dipendente deve dimostrare  una serie di elementi, tra i quali,   il nesso eziologico intercorrente tra la condotta del datore di lavoro  ed il danno subito alla salute e/o alla personalità, nonché l'intento persecutorio e  la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio.

 
Valerio Pollastrini

martedì 20 maggio 2014

Non si configura il reato di appropriazione indebita se il dipendente di un’agenzia di scommesse gioca senza pagare

Nella sentenza n.20280 del 23 aprile-15 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha escluso che il dipendente di un’agenzia di scommesse, che effettui delle giocate senza pagare i relativi importi, commetta il reato di appropriazione indebita.

Nella vicenda in commento, un addetto alla ricezione delle giocate dai clienti e all’incasso dei relativi importi aveva effettuato alcune scommesse per proprio conto, omettendo di   versare in cassa gli  importi corrispondenti.

La Corte di Appello di Trento  aveva condannato il lavoratore alle pene di giustizia previste per il delitto di appropriazione indebita di una macchina per scommesse dell’azienda.

Contro questa sentenza, il dipendente aveva adito la Cassazione, sostenendo che il fatto per il quale era stato incriminato non configurerebbe il delitto di appropriazione indebita, riducendosi  al mero uso della macchina per le scommesse.

Secondo la tesi del ricorrente il reato suddetto sarebbe escluso, sia dall’assenza della condotta tipica  dell’appropriazione, che dall’assenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 646 cod. pen..

L'imputato, in sostanza, non avrebbe agito con la coscienza e volontà di appropriarsi della cosa mobile altrui al fine di procurarsi un ingiusto profitto, circostanza che risulterebbe  dimostrata dalla sua immediata ammissione dei fatti, non appena questi furono scoperti dal datore di lavoro, e dalla sottoscrizione di una attestazione del debito per l'intero importo non versato.

Secondo il ricorrente, i fatti contestatigli si ridurrebbero, quindi, al mancato pagamento delle giocate effettuate, configurando unicamente un illecito civile, privo di ogni rilevanza penale.

Ritenendo fondata la censura sollevata dal lavoratore, la Suprema Corte ha premesso che l'imputato fosse stato chiamato a rispondere del delitto previsto dagli artt. 81 cpv., 646, 61 n. 7) e 11), C.P., per l’appropriazione, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, della macchina per le scommesse  dell’azienda,  effettuando, in più occasioni, numerose giocate per l’ammontare complessivo di 36.000,00 €.

La Cassazione ha poi richiamato i principi già espressi in materia dalla stessa Corte, secondo i quali integra il reato di appropriazione indebita la condotta consistente nella mera interversione del possesso, attraverso l'esercizio di un potere di fatto sulla cosa, che esuli della sfera di sorveglianza del titolare della stessa(1).

La giurisprudenza di legittimità è inoltre concorde nel ritenere integrato il reato di appropriazione indebita anche nell’ipotesi di un mero uso indebito della res da parte del soggetto che, travalicando  i limiti del possesso, faccia proprio il bene, sia pur temporaneamente (2).

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte ha escluso  che l'imputato si fosse appropriato della macchina per le scommesse della società presso la quale svolgeva la sua attività lavorativa.

La macchina in questione, infatti, era rimasta sempre nella disponibilità della ditta, senza transitare sotto il controllo esclusivo dell'imputato.

Gli ermellini hanno parimenti escluso l’uso indebito della macchina da parte del lavoratore, in quanto, dagli atti, non erano emerse specifiche  condizioni  contrattuali che vietassero al dipendente di effettuare delle scommesse.

Per la Cassazione, dunque, l’imputato, rimanendo nei limiti delle sue mansioni ed utilizzando la macchina per le scommesse allo scopo per il quale  era destinata, aveva semplicemente effettuato delle giocate per sé, omettendo di versare nella cassa l'importo relativo.

Tale condotta risulta assimilabile a quella del dipendente che riceva delle giocate da terzi senza esigere il contestuale pagamento della somma scommessa. Fattispecie non sussumibile, per l’assenza dell’appropriazione della cosa altrui, in quella del reato di cui all'art. 646 cod. pen. 

Sul piano giuridico, pertanto, la condotta posta in essere dal lavoratore assume rilievo solo in ambito civilistico, in relazione al suo debito  nei confronti della ditta, costretta a versare le somme giocate dallo stesso.

Dal momento che il fatto in questione esula dalla fattispecie criminosa di cui all'art. 646 cod. pen., né risulta giuridicamente qualificabile con riferimento a diversa fattispecie di reato, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento della sentenza impugnata.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza  n.13347 del 7 gennaio 201; Cass., Sentenza n.38604 del 20 settembre 2007; Cass., Sentenza  n.363 del 21 gennaio 1999;
(2)   - Cass., Sentenza n.47665 del 27 novembre 2009;

lunedì 19 maggio 2014

Tassazione delle indennità corrisposte per la risoluzione del rapporto di lavoro

Nella sentenza n.10749 del 16 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che tutte le indennità corrisposte in relazione alla cessazione del rapporto di lavoro, comprese quelle erogate in conseguenza  dell’illegittima risoluzione  da parte dell’azienda, costituiscono redditi da lavoro dipendente, soggetti a tassazione separata ed a ritenuta d'acconto.

La controversia di specie era sorta dopo che l’Agenzia delle Entrate, per mezzo del silenzio-rifiuto,  aveva respinto l'istanza di un contribuente per il  rimborso dell'IRPEF versata attraverso le ritenute operate sull'indennità per licenziamento illegittimo, corrisposta dall'ex datore di lavoro  in sostituzione della reintegrazione in azienda.

Dopo la decisione di primo grado che, sul presupposto della natura non retributiva dell’indennità, aveva riconosciuto la pretesa del lavoratore, la Commissione Tributaria Regionale aveva successivamente accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate, disconoscendo quanto richiesto  dal contribuente.

I giudici di Appello avevano così deciso, ritenendo che, ai sensi   dell'art. 16, lett. a), comma 1 (1), del DPR n.917/1986 (2) e dell'art. 32, comma 1, lett.a), del  D.L. n.41/1995 (3), l’indennità percepita dal dipendente, in quanto destinata a sostituire i redditi da lavoro  che lo stesso avrebbe percepito nel caso in cui fosse stato reintegrato in azienda, dovesse assoggettarsi a tassazione separata.

Ricorrendo in Cassazione, il contribuente aveva sostenuto che la predetta indennità,  trattandosi di obbligazione sorta ex lege  a carico del datore di lavoro che aveva scelto di non reintegrare il dipendente in azienda, non  fosse riconducibile al rapporto di lavoro o alla sua cessazione.

Investita della questione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore, ricordando come, in tema di licenziamento illegittimo, la Cassazione, in passato, avesse  già affermato che la corresponsione dell'indennità, commisurata alla retribuzione non effettivamente percepita, costituisce presunzione "iuris tantum" di lucro cessante, mentre l'indennità prevista dall'art. 18 della legge n. 300/70, nel suo minimo ammontare di cinque mensilità, costituisce una presunzione "iuris et de iure" del danno causato dal recesso, assimilabile ad una sorta di penale connaturata al rischio di impresa.

Per quanto riguarda l’oggetto in esame, la normativa di riferimento è rappresentata dal D.P.R. n.917/1986, il cui articolo 48, comma 1, dispone che  il reddito di lavoro dipendente è costituito da tutti i compensi  percepiti in dipendenza del rapporto di lavoro, comprese le somme corrisposte a titolo di rimborso spese inerenti alla produzione del reddito e le erogazioni liberali.

Inoltre, a proposito dei proventi conseguiti in sostituzione di redditi e delle indennità conseguite a titolo di risarcimento dei danni, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o morte,  l'art. 6, comma 2, chiarisce come gli stessi  costituiscano redditi appartenenti alla stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.

L'art. 16, comma 1, lett a) (4), dispone, infine, che, alle indennità ed alle somme percepite una tantum in dipendenza della cessazione dei rapporti di lavoro, nonché alle somme e valori comunque percepiti, anche  a titolo risarcitorio, in seguito ad un provvedimento dell'Autorità giudiziaria o di transazioni relativi alla risoluzione del rapporto di lavoro, deve applicarsi la tassazione separata.

Al termine di questo esaustivo excursus della normativa, la Cassazione ha  ricordato come, negli anni, la lettura coordinata delle richiamate disposizioni abbia determinato il consolidamento del principio giurisprudenziale in base al quale  tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi, ad esclusione di quelli per invalidità permanente o  morte, e quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro, comprese quelle imposte al datore di lavoro per la risoluzione illegittima del rapporto, costituiscono redditi da lavoro dipendente e, come tali, sono assoggettati a tassazione separata ed a ritenuta d'acconto.

Conformandosi al suddetto principio, la Suprema Corte, ritenendo che la sentenza impugnata avesse correttamente applicato la norma di riferimento, ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

(1)   – Secondo la vecchia numerazione;
(2)   – Testo Unico delle Imposte sui Redditi;
(3)   - Convertito con modificazioni nella  Legge n.85/1995;
(4)   - Testo risultante dalla modifica operata dall’art.32, comma 1, del  D.L. n.41/1995,  convertito nella Legge n.85/1995;

La maggiore retribuzione dell’ex-coniuge “più debole” non riduce l’assegno di mantenimento

Ricordando come l’assegno di mantenimento abbia lo scopo di garantire  all’ex coniuge più debole economicamente il medesimo tenore di vita goduto durante il matrimonio,  nell’ordinanza n.9660 del 6 maggio 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che, nel caso in cui il soggetto beneficiario trovi un’occupazione lavorativa, non necessariamente l’emolumento in questione debba essere ridotto.

Nel caso di specie, un uomo aveva adito la Cassazione, ritenendo che la Corte di Appello avesse fissato, in favore della ex-moglie, un importo  dell’assegno di mantenimento sproporzionato, in quanto, nel frattempo, la stessa aveva trovato un impiego a tempo pieno, mutando così in meglio la propria capacità reddituale rispetto al precedente rapporto di lavoro part-time.

Investita della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto premesso come il procedimento di separazione e quello di divorzio siano distinti ed autonomi e come, nella vicenda in commento, la Corte del merito avesse maturato la decisione impugnata dopo aver preso atto del palese squilibrio economico esistente tra le parti.

In sostanza, secondo il giudice dell’Appello l’intervenuto miglioramento della propria situazione reddituale non sarebbe sufficiente a consentire alla ex-coniuge di mantenere lo stesso tenore di vita adottato in pendenza di matrimonio.

Si tratta di un procedimento logico  del tutto condiviso dalla Cassazione, che ha così disposto il rigetto del ricorso.
 
Valerio Pollastrini

domenica 18 maggio 2014

L’assunzione di bagnini minorenni

Nella sentenza n.19848  del 30 gennaio–14 maggio 2014, la sezione penale della Corte di Cassazione ha affermato che gli accertamenti sanitari richiesti dalla Società Nazionale di Salvamento per l’abilitazione alle mansioni di assistente bagnanti, escludono l’obbligo di visita medica per i bagnini minorenni assunti presso uno stabilimento balneare.

Il caso in commento è stato sottoposto all’attenzione della Suprema Corte dopo che il Tribunale di Vasto, in base alla deposizione resa dai lavoratori nel corso di un accertamento ispettivo, aveva ritenuto il titolare di uno stabilimento balneare colpevole della contravvenzione prevista  dagli artt. 81 cpv, 8, comma 1, e 26, comma 2, della legge n. 977/1967 (1),  per  avere  assunto due minori con le mansioni di bagnino, senza averli preventivamente sottoposti alla  visita medica per l’accertamento  dell'idoneità psicofisica all'attività lavorativa alla quale sarebbero stati adibiti.

Ricorrendo in Cassazione, la datrice di lavoro aveva  rilevato  che il possesso delle condizioni psicofisiche costituisce un accertamento propedeutico al rilascio del brevetto di bagnino da parte della “Società Nazionale di Salvamento”.

Secondo la tesi ricorrente,  l’abilitazione alle mansioni di bagnino risulta subordinata alla specifica verifica della sussistenza delle condizioni fisiche per il rilascio.

Il Tribunale, pertanto,  avrebbe disatteso l'efficacia dei poteri delegati dallo Stato  alla Società Nazionale di Salvamento.

Nell’accogliere il ricorso, la Cassazione ha, preliminarmente, ricordato come la richiamata normativa di riferimento preveda che i bambini e gli adolescenti possano essere ammessi al lavoro purché siano riconosciuti idonei all'attività lavorativa alla quale  saranno adibiti a seguito di visita medica.

Come già rilevato dalla giurisprudenza di legittimità (2), tale disposizione  impone che il certificato richiesto per adibire minori ad attività lavorativa non possa ridursi ad una mera certificazione dello stato di buona salute psico-fisica,  ma deve rivestire, altresì, una portata più ampia, ricomprendendo anche un giudizio di idoneità del minore al lavoro.

In passato, la Suprema Corte aveva parimenti affermato (3) che l'inosservanza della disposizione di cui all'art. 8, comma terzo, della Legge  n.977/1967 , secondo cui la visita medica dei minorenni da avviare al lavoro deve essere effettuata presso un medico del Servizio sanitario nazionale, non integra più un illecito penale, rimanendo la sanzione penale unicamente per la violazione  dell'obbligo in generale della visita, ma non anche per le concrete modalità della sua effettuazione.

La Corte di legittimità ha però rilevato  che il Ministero delle Comunicazioni - Marina Mercantile - con Foglio d'Ordine n.43 del 6 maggio 1929, ha concesso alla Società Nazionale Salvamento l'autorizzazione al rilascio del certificato di abilitazione all'esercizio del mestiere di bagnino.

La Cassazione ha quindi confermato che, anche oggi, la competenza al rilascio della abilitazione alla suddetta attività spetti alla Società Nazionale di Salvamento (4), avente natura di Associazione senza scopo di lucro, la cui finalità risulta quella di istruire e preparare i candidati agli esami per il conseguimento del Brevetto di Bagnino di Salvataggio.

Ciò premesso, tra i requisiti per l'iscrizione al corso di "Bagnino di Salvataggio", risulta espressamente richiesto il possesso di "idonee condizioni psicofisiche".

Tornando al caso di Specie, la Suprema Corte ha osservato che i due giovani in servizio presso lo stabilimento balneare gestito dall'imputata, essendo risultati in possesso di regolare abilitazione alla attività di bagnino, avevano già superato favorevolmente la visita medica finalizzata proprio ad accertarne l'idoneità psicofisica alla particolare attività lavorativa alla quale sono stati successivamente  adibiti, circostanza che, pertanto, esclude la sussistenza del reato.

La Cassazione ha quindi concluso con l'annullamento senza rinvio della sentenza del merito.

Valerio Pollastrini

(1)   - Come modificati dagli artt. 9 e 14 del D.Lgs. n.345/1999;
(2)   – Cass., Sentenza n.5746 del 07 dicembre 2006; Cass., Sentenza n.7469 del 18 gennaio 2008;
(3)   – Cass., Sentenza n.7469/2008;
(4)   – Riconosciuta come “Ente Morale” dal R.D. 19 aprile 1876;

Danno da perdita di chance – Ripartizione dell’onere della prova

Nella sentenza n.10429 del 14 maggio 2014 la Corte di Cassazione è intervenuta in merito al risarcimento del danno da perdita di chance, richiesto dal dipendente di una banca, in seguito alla sua esclusione dalla selezione interna svolta per l’assegnazione dell'incarico di funzionario.

In particolare, il lavoratore si era rivolto al giudice del lavoro, lamentando di aver subito, attraverso la suddetta esclusione, un arresto nella progressione della   carriera del tutto illegittimo, in quanto in possesso delle caratteristiche richieste per l’avanzamento, tra le quali, un’adeguata esperienza.

Riformando la sentenza con la quale, al termine del  primo grado di giudizio, il Tribunale  aveva respinto la domanda del lavoratore, la Corte di Appello ne aveva successivamente accolto le richieste, condannando l’azienda a corrispondere in favore del ricorrente, nel frattempo collocato in pensione, un'indennità  corrispondente all'importo che lo stesso avrebbe percepito  se  avesse ricoperto la posizione superiore, nonché una ulteriore somma a titolo di risarcimento del danno.

Investita della questione, la Cassazione ha disconosciuto la pretesa del lavoratore e, in accoglimento del ricorso presentato dall’istituto bancario, ha sottolineato  come, dall’esame degli atti,  non fossero emersi  elementi univoci che potessero indurre a ritenere provata  la sussistenza del diritto del dipendente alla pretesa promozione.

L’impugnata sentenza, inoltre, risultava viziata dall’assenza di  motivazione in merito all'obbligo della società di procedere alla rinnovazione della selezione in commento, per violazione dei principi di correttezza e buona fede.

La Suprema Corte ha ricordato come, secondo il costante indirizzo giurisprudenziale, l'onere di provare il nesso di causalità tra l'impedimento datoriale e il danno derivato dal mancato conseguimento della qualifica superiore, incombe sul singolo dipendente.

Non avendo la pronuncia del merito rilevato nulla  al riguardo, la Cassazione ha concluso negando al lavoratore il risarcimento del danno da perdita di chance.

Valerio Pollastrini

La situazione di crisi non assolve il datore di lavoro dal reato di omesso versamento delle ritenute dei dipendenti

Nella sentenza n.20266 del 15 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha escluso che lo stato di necessità possa giustificare l’omesso versamento da parte del datore di lavoro delle ritenute dei dipendenti.

In proposito, l'art. 10-bis  del D.Lgs. n.74/2000 (1) recita testualmente: “è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a cinquantamila euro per ciascun periodo di imposta”.

Nel merito, la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato il principio in base al quale, mentre molte delle condotte penalmente sanzionate dal suddetto DLgs. n.74/200 richiedono che il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte, per quanto riguarda, invece, la specifica fattispecie dell’omesso versamento delle ritenute, questa specifica direzione della volontà illecita non emerge in alcun modo dal testo della norma e, pertanto, tale omissione è punita a titolo di dolo generico (2).

Conseguentemente, a detta delle Cassazione, il reato di specie può dirsi consumato attraverso la semplice coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate nella soglia dei cinquantamila euro.

I giudici di legittimità hanno ricordato che il debito nei confronti del Fisco, relativo al versamento delle ritenute, è collegato con quello della erogazione degli emolumenti ai collaboratori.

Dal momento stesso in cui il datore di lavoro eroga le retribuzioni ai propri dipendenti, sorge a suo carico l'obbligo di accantonare le somme dovute all’Erario, ragione per cui l’imprenditore deve ripartire le risorse disponibili per far fronte all'obbligazione tributaria.

Tale assunto esclude che la crisi di liquidità possa essere invocata dall’impresa per escludere la colpevolezza del datore di lavoro, ove non si dimostri che la tale condizione non dipenda dalla scelta di non adempiere alla esigenza predetta (3).

La vicenda in commento è giunta al vaglio della Cassazione dopo che il Tribunale di Bergamo aveva assolto  l'imputato  sul presupposto che lo stesso, pur non avendo versato, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d'imposta per l’anno 2006, ritenute  per un ammontare superiore alla soglia di punibilità,  aveva dovuto far fronte a consistenti pagamenti verso fornitori, oltre ad acquistare  una gru, necessaria per lo svolgimento dell'attività,  e non era riuscito a riscuotere crediti verso terzi.

Soltanto nel 2009, dopo aver venduto i mezzi, l’azienda era riuscita a provvedere al pagamento dovuto, maggiorato delle sanzioni, per un ammontare complessivo di 71.448,54 €.

Tale circostanza aveva indotto  il Tribunale di Bergamo ad assolvere l’imprenditore, ritenuto impossibilitato ad effettuare il pagamento nei termini di legge  e, dunque, non punibile  per difetto dell'elemento psicologico del reato.

Investita della questione, la Suprema Corte ha però sconfessato la pronuncia del giudicante del merito, affermando che, per la sussistenza del reato de quo, è sufficiente il riscontro della coscienza e volontà di non versare all'Erario le ritenute effettuate, risultando, invece, irrilevante il fine perseguito dall'agente ed, in particolare, la circostanza se il comportamento illecito sia dettato dallo scopo specifico di evadere le imposte (4).

In casi analoghi la Cassazione ha più volte precisato (5) come la situazione di colui che non versa l'imposta si risolve, di regola, in una condotta cosciente e volontaria, la quale, si articola progressivamente con il mancato accantonamento delle somme trattenute, con l'omesso versamento entro le scadenze mensili ed, infine, con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale.

Il sostituto di imposta, nel corrispondere il compenso dovuto ai lavoratori, è obbligato  a trattenere una determinata percentuale degli emolumenti per poi versarla all’Erario entro il sedici del mese successivo. A tale proposito, è stato  sottolineato (6)  che le condizioni in grado di escludere legittimamente l'assenza dell'elemento soggettivo o la sussistenza della scriminante della forza maggiore, quale conseguenza di una improvvisa ed imprevista situazione di illiquidità, risultano assai limitate.

Per quanto riguarda il caso di specie, l’imprenditore aveva dedotto a propria giustificazione il  pagamento delle retribuzioni ai dipendenti,  la salvaguardia  dei livelli occupazionali,  il pagamento dei debiti ai fornitori per evitare il fallimento della società e la mancata riscossione di crediti vantati e documentati, anche nei confronti dello Stato. Tutte condizioni che, però, la Cassazione ha ritenuto non  sufficienti per l’assoluzione del datore di lavoro  dal reato di specie.

La Suprema Corte ha chiarito che tale decisione,   non si pone in contrasto con la più recente giurisprudenza della stessa Cassazione (7) che, in astratto, non esclude possibili casi  nei quali  l'assenza del dolo o l'assoluta impossibilità di adempiere all'obbligazione tributaria possano essere legittimamente invocate dall’imprenditore.

Tuttavia, perché  ciò si verifichi, è necessario il datore di lavoro non si limiti a fornire la prova della riconducibilità dell’omissione contributiva alla crisi economica che ha investito l'azienda, ma deve, altresì, dimostrare che tale crisi non sarebbe stata altrimenti fronteggiabile  ricorrendo ad altre  misure, come, ad esempio, attraverso il ricorso al credito bancario.

In sostanza, per giovarsi in concreto di tale esimente, evidentemente riconducibile alla forza maggiore, l’imprenditore è chiamato a dimostrare di non essere riuscito,   per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili, a reperire le risorse necessarie per il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie (8).

Nel cassare il ricorso, la Cassazione ha escluso che le suddette circostanze fossero state provate dall’imprenditore, dal momento che i pagamenti verso i fornitori e l’acquisto di una gru, espressioni della libera scelta imprenditoriali, sulla cui condivisibilità non spetta alla Corte giudicare, non provano l'illiquidità e la crisi, atte a consentire la mancata realizzazione della fattispecie penale prevista per l’omissione del versamento all'Erario nei termini sopra richiamati.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Introdotto dall’art. 1, comma 414, della Legge n.311 del 30 dicembre 2004, (Legge finanziaria per l'anno 2005);
(2)   – Cass., Sez. Unite, Sentenza n.37425 del 28 marzo 2013;
(3)   – Cass., Sentenza n.37528 del 12 giugno 2013;
(4)   – Cass., Sentenza n.13100  del 19 gennaio 2011; Cass., Sentenza n.25875 del   26 maggio 2010;
(5)   – Cass., Sentenza n.5467 del 5 dicembre 2013; Cass., Sentenza  n.15416 dell'8 gennaio 2014; 
(6)   – Cass., Sentenza n.15416/2014;
(7)   – Cass., Sentenza n.10813 del 6 febbraio 2014; Cass., Sentenza n.5467 del 5 dicembre 2013;
(8)   – Cass., Sentenza n.5467/14;