Nella
vicenda in commento, un addetto alla ricezione delle giocate dai clienti e all’incasso
dei relativi importi aveva effettuato alcune scommesse per proprio conto,
omettendo di versare in cassa gli importi corrispondenti.
La
Corte di Appello di Trento aveva
condannato il lavoratore alle pene di giustizia previste per il delitto di
appropriazione indebita di una macchina per scommesse dell’azienda.
Contro
questa sentenza, il dipendente aveva adito la Cassazione, sostenendo che il
fatto per il quale era stato incriminato non configurerebbe il delitto di
appropriazione indebita, riducendosi al
mero uso della macchina per le scommesse.
Secondo
la tesi del ricorrente il reato suddetto sarebbe escluso, sia dall’assenza
della condotta tipica dell’appropriazione,
che dall’assenza dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 646 cod.
pen..
L'imputato,
in sostanza, non avrebbe agito con la coscienza e volontà di appropriarsi della
cosa mobile altrui al fine di procurarsi un ingiusto profitto, circostanza che
risulterebbe dimostrata dalla sua
immediata ammissione dei fatti, non appena questi furono scoperti dal datore di
lavoro, e dalla sottoscrizione di una attestazione del debito per l'intero
importo non versato.
Secondo
il ricorrente, i fatti contestatigli si ridurrebbero, quindi, al mancato
pagamento delle giocate effettuate, configurando unicamente un illecito civile,
privo di ogni rilevanza penale.
Ritenendo
fondata la censura sollevata dal lavoratore, la Suprema Corte ha premesso che
l'imputato fosse stato chiamato a rispondere del delitto previsto dagli artt.
81 cpv., 646, 61 n. 7) e 11), C.P., per l’appropriazione, al fine di procurarsi
un ingiusto profitto, della macchina per le scommesse dell’azienda,
effettuando, in più occasioni, numerose giocate per l’ammontare
complessivo di 36.000,00 €.
La
Cassazione ha poi richiamato i principi già espressi in materia dalla stessa
Corte, secondo i quali integra il reato di appropriazione indebita la condotta
consistente nella mera interversione del possesso, attraverso l'esercizio di un
potere di fatto sulla cosa, che esuli della sfera di sorveglianza del titolare della
stessa(1).
La
giurisprudenza di legittimità è inoltre concorde nel ritenere integrato il
reato di appropriazione indebita anche nell’ipotesi di un mero uso indebito della
res da parte del soggetto che,
travalicando i limiti del possesso,
faccia proprio il bene, sia pur temporaneamente (2).
Tornando
al caso di specie, la Suprema Corte ha escluso che l'imputato si fosse appropriato della
macchina per le scommesse della società presso la quale svolgeva la sua
attività lavorativa.
La
macchina in questione, infatti, era rimasta sempre nella disponibilità della
ditta, senza transitare sotto il controllo esclusivo dell'imputato.
Gli
ermellini hanno parimenti escluso l’uso indebito della macchina da parte del
lavoratore, in quanto, dagli atti, non erano emerse specifiche condizioni
contrattuali che vietassero al dipendente di effettuare delle scommesse.
Per
la Cassazione, dunque, l’imputato, rimanendo nei limiti delle sue mansioni ed
utilizzando la macchina per le scommesse allo scopo per il quale era destinata, aveva semplicemente effettuato
delle giocate per sé, omettendo di versare nella cassa l'importo relativo.
Tale
condotta risulta assimilabile a quella del dipendente che riceva delle giocate
da terzi senza esigere il contestuale pagamento della somma scommessa. Fattispecie
non sussumibile, per l’assenza dell’appropriazione
della cosa altrui, in quella del reato di cui all'art. 646 cod. pen.
Sul
piano giuridico, pertanto, la condotta posta in essere dal lavoratore assume rilievo
solo in ambito civilistico, in relazione al suo debito nei confronti della ditta, costretta a versare
le somme giocate dallo stesso.
Dal
momento che il fatto in questione esula dalla fattispecie criminosa di cui
all'art. 646 cod. pen., né risulta giuridicamente qualificabile con riferimento
a diversa fattispecie di reato, la Suprema Corte ha disposto l’annullamento della
sentenza impugnata.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.13347 del 7 gennaio 201;
Cass., Sentenza n.38604 del 20 settembre 2007; Cass., Sentenza n.363 del 21 gennaio 1999;
(2)
-
Cass., Sentenza n.47665 del 27 novembre 2009;
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