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giovedì 30 gennaio 2014

Illegittime assunzioni a termine nel pubblico impiego – Diritto del lavoratore al risarcimento del danno

La Corte di Cassazione, nella sentenza n.26951 del 2 dicembre 2013, ha chiarito che la stipulazione di contratti a termine illegittimi nel pubblico impiego, pur non potendo comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, determina il diritto del lavoratore interessato  al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro svolta in violazione della legge.

Nel caso di specie, la Corte d’Appello di Perugia, in riforma della pronuncia  di primo grado, aveva dichiarato l’illegittimità dei contratti a tempo determinato stipulati da una lavoratrice con l’Azienda Sanitaria Regione Umbria USL n. 4, condannando quest’ultima, a titolo risarcitorio, al pagamento in favore della predetta dipendente di dieci mensilità di retribuzione, oltre accessori di legge.

Per la Corte di merito l’Azienda anzidetta, stipulando in successione quattro contratti a termine, a decorrere dal 1° settembre 1999 e sino al 3 novembre 2000, aveva violato la legge 230/62, art. 2, comma 2, applicabile ratione temporis.

A tale violazione, tuttavia, non poteva  conseguire la conversione in rapporto a tempo indeterminato, in quanto espressamente vietata nel pubblico impiego dall’art. 36 d. lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, come sostituito dall'art. 22 d. lgs. 31 marzo 1998 n. 80 (ora art. 36 D.lgs. n. 165/01), la cui disciplina non era stata abrogata dal D.lgs. 368/01, art. 11.

La dipendente aveva viceversa diritto al risarcimento del danno, che poteva ragionevolmente identificarsi nel tempo verosimilmente necessario per trovare un nuovo lavoro, stimato dieci mensilità.

Per la cassazione di questa sentenza aveva proposto ricorso l’Azienda USL, denunciando che  la Corte territoriale avesse contraddittoriamente affermato, da un lato, che all’epoca dei fatti non fosse scaduto il termine fissato allo Stato italiano per dare attuazione alla direttiva comunitaria n. 70 del 28 giugno 1999, che prescrive la conversione in rapporto a tempo indeterminato nell’ipotesi di contratti a termine stipulati in violazione di legge; dall’altro che la normativa interna avrebbe già dato attuazione alla normativa comunitaria in questione.

La Cassazione ha però disconosciuto il rilievo datoriale, in quanto ha ritenuto che
la Corte di merito, nel rilevare che all’epoca dei fatti non fosse applicabile la direttiva comunitaria richiamata dall’allora appellante lavoratrice per non essere ancora scaduto il termine concesso allo Stato italiano per adeguarsi alla stessa, aveva aggiunto che, in ogni caso, la direttiva fosse stata superata dalla sentenza 7 settembre 2006 emessa dalla Corte di Giustizia Europea, la quale aveva affermato che non può ritenersi in contrasto con la direttiva stessa una normativa nazionale che escluda la conversione in contratto a tempo indeterminato nel settore del pubblico impiego, purché tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante in detto settore.

L’azienda aveva inoltre denunziato violazione e falsa applicazione del D.lgs. 31 marzo 1998 n. 80, art. 22, che ha sostituito l’art. 36 D.lgs. n. 29 del 1993.

Rilevava in proposito che il predetto art. 22, comma 8, nel disporre che in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità e sanzione, e che il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizione imperative, riconosce al lavoratore solo il risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro. La stessa aggiunge però che tra i danni non è assolutamente compreso quanto spettante non già per l’aver lavorato, ma piuttosto, e come si pretende ex    adverso, per il non aver lavorato per il tempo successivo alla scadenza del rapporto di lavoro a termine.  

Peraltro il contratto a termine nullo, sempre nella tesi datoriale, produrrebbe unicamente gli effetti di cui all’art. 2126 cod. civ., il quale, nel disporre che la nullità o l'annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità non derivi dall’illiceità dell’oggetto o della causa, prevede che se il lavoro è prestato con violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro, questi ha in ogni caso diritto alla sola retribuzione.

Anche tale motivo di doglianza è stato ritenuto privo di fondamento dalla Suprema Corte che ha ricordato come la funzione dell’art. 2126 cod. civ. è quella di assicurare la retribuzione al lavoratore anche in caso di conclusione di un contratto invalido. Gli effetti peraltro, sono limitati alla prestazione già eseguita e non anche al periodo successivo alla dichiarazione di nullità o alla pronuncia di annullamento.

Nelle ipotesi  di assunzioni a termine nel pubblico impiego privatizzato, invece, l’art. 36, comma 8, d. lgs. n. 80 del 1998, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, successivamente riprodotto negli stessi termini dall’art. 36, comma 5, d. lgs. n. 165 del 2001, nel disporre che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, riconosce al lavoratore interessato il diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.

In forza di tale disposizione la Corte territoriale aveva correttamente attribuito alla lavoratrice il risarcimento del danno nella misura di dieci mensilità di retribuzione, ritenendo che tale misura fosse adeguata a compensare la ricorrente dell’ingiustizia patita e non mancando peraltro di richiamare la sentenza della Corte di Giustizia Europa del 7 settembre 2006, secondo cui la direttiva n. 70 del 1999 non osta ad una normativa nazionale che escluda la conversione in contratto a tempo indeterminato nel settore del pubblico impiego, purché tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo ad una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante in tale settore.

In sostanza la Corte di merito aveva correttamente applicato il principio secondo cui il lavoratore che sia stato assunto illegittimamente, ha diritto ad essere risarcito per effetto della violazione delle norme imperative in materia.

Si tratta, tra l’altro di un principio affermato recentemente anche dalla Corte di legittimità (1) che, nell'escludere in caso di violazione di dette norme la conversione in contratto a tempo indeterminato in base alla disciplina di cui all’art. 36 d. lgs. n. 165 del 2001 (analoga a quella di cui all’art. 36, comma 8, d. lgs. n. 80/98), ha affermato che tale disposizione introduce un proprio e specifico regime sanzionatorio con una accentuata responsabilizzazione del dirigente pubblico e il riconoscimento del diritto al risarcimento dei danni subiti dal lavoratore e, pertanto è speciale ed alternativa rispetto alla disciplina di cui all'art. 5 del d.lgs. n. 368 del 2001, ma pur sempre adeguata alla direttiva 1999/70/CE, in quanto idonea a prevenire e sanzionare l'utilizzo abusivo dei contratti a termine da parte della pubblica amministrazione.

Per i motivi sopra esposti, la Corte di Cassazione ha dunque rigettato il ricorso proposto dall’Azienda Sanitaria Regione Umbria USL n. 4, condannandola al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi e 5.000,00 € per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

(1)   - cfr. Cass. 13 gennaio 2012 n. 392; Cass. 15 giugno 2010 n. 14350;

Infortunio sul lavoro – Responsabilità del datore di lavoro e comportamento imprudente del lavoratore

A proposito di infortuni sul lavoro,  la Corte di Cassazione ha tracciato i limiti tra la responsabilità datoriale sancita dall’art.2087 c.c. e la circostanza in cui il danno sia stato provocato da una  condotta imprudente del dipendente.

Ai sensi dell’art.2087 del Codice Civile, l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

Si tratta di una norma fondamentale dell’ordinamento giuslavoristico italiano che impone al datore di lavoro l'obbligo di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l'integrità fisica e morale dei lavoratori. Essa sancisce, in sostanza, a carico dell’imprenditore, la c.d. culpa in eligendo nella scelta di lavoratori competenti e capaci, oltre che una culpa in vigilando nel caso di mancata vigilanza sul rispetto, delle misure di sicurezza da parte dei lavoratori.

Nella sentenza n. 1312 del 22 ottobre 2013-22 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che l’obbligo di prevenzione previsto dall’art.2087 del Codice Civile, non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva ma impone, altresì, al datore di lavoro l’obbligo di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all'esperienza e alla tecnica.

La Suprema Corte ha però specificato che, da tale norma, non può  desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato.

Per accertare la responsabilità datoriale è dunque necessario acclarare la riconducibilità dell’evento ad una colpa dell’imprenditore. Colpa che deve ritenersi esclusa nel caso in cui il danno sia stato provocato dallo stesso dipendente a causa della sua condotta imprudente.

Valerio Pollastrini

mercoledì 29 gennaio 2014

Nota Inail 23 gennaio 2014, n. 495 - Rinvio dei termini per l’autoliquidazione 2013/2014 e per il pagamento degli altri premi speciali anticipati


L’art. 1, comma 128, della legge 147/2013 ha disposto che il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, su proposta dell'INAIL, stabilisca, con apposito decreto con effetto dal 1º gennaio 2014,  la riduzione percentuale dell'importo dei premi e contributi dovuti per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, da applicare per tutte le tipologie di premi e contributi oggetto di riduzione.
Al fine di consentire alle imprese e agli altri soggetti assicuranti di beneficiare immediatamente della riduzione, il Ministro dell’Economia e delle Finanze e il Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali hanno concordato di differire al 16 maggio 2014 sia il termine dell’autoliquidazione 2013/2014, sia il termine per il pagamento di tutti gli altri premi speciali per i quali non é prevista l’autoliquidazione (2).
Il differimento consentirebbe, infatti, all’Inail di provvedere alle elaborazioni statistiche sugli andamenti infortunistici nonché a quelle economico-finanziarie sui premi e contributi ai fini della predisposizione del decreto ministeriale, di adeguare gli strumenti informativi per gli utenti e di definire i necessari aggiornamenti alle procedure di calcolo dei premi, che come di consueto saranno illustrati in tempo utile per la nuova scadenza anche agli intermediari e alle software house.
La misura della riduzione percentuale e i criteri di individuazione dei beneficiari sulla base dell’andamento infortunistico saranno definiti con il decreto ministeriale previsto dalla legge(3).
Per quanto riguarda il differimento, il nuovo termine del 16 maggio 2014 sostituirebbe:
1. il termine del 17 febbraio 2014 per il versamento tramite F24 e F24EP dei premi ordinari e dei premi speciali unitari artigiani di autoliquidazione 902014, sia per il pagamento in unica soluzione che per il pagamento della prima rata ai sensi delle leggi 449/1997 e 144/1999;
2. i termini per il pagamento dei premi speciali anticipati per il 2014, inclusi quelli in rate mensili e trimestrali, relativi alle polizze scuole, apparecchi RX, sostanze radioattive, pescatori, facchini nonché barrocciai/vetturini/ippotrasportatori con scadenza compresa tra il 16 febbraio e il 16 aprile 2014;
3. il termine del 30 aprile 2014 per l’invio telematico degli elenchi relativi alla regolazione del primo trimestre 2014 delle polizze speciali facchini e delle polizze speciali barrocciai/vetturini/ippotrasportatori.
Il differimento al 16 maggio dovrebbe riguardare anche il termine del 17 marzo 2014 per la presentazione telematica delle dichiarazioni delle retribuzioni 2013 tramite i servizi "Alpi online" e "Invio dichiarazione salari", per comunicare la volontà di avvalersi del pagamento rateale dei premi ai sensi delle leggi 449/1997 e 144/1999 e per chiedere la riduzione prevista dall’art. 1, commi 780 e 781, della legge n. 296/2006 a favore delle imprese artigiane.
Per quanto riguarda il pagamento rateale ai sensi delle leggi 449/1997 e 144/1999 dei premi di autoliquidazione 902014, per effetto del rinvio al 16 maggio 2014 si hanno tre rate.
A tal fine il premio dovrà essere sempre diviso in quattro rate, ma le prime due confluiranno nella rata con scadenza 16 maggio 2014, pertanto si avrà:

- 1° rata: 16 maggio 2014 pari al 50% del premio, senza maggiorazione di interessi;

- 2° rata: 16 agosto 2014 pari al 25% del premio, differita di diritto al 20 agosto 2014(4) con maggiorazione degli interessi(5);

- 3° rata: 16 novembre 2014 pari al 25% del premio, con maggiorazione degli interessi(6).
Con  l’occasione l’Inail comunica che per quest’anno il tasso di interesse da applicare alla seconda e terza rata è pari al 2,08%.
Per quanto riguarda i premi speciali di cui al punto 2, l’Inail provvederà a calcolare i premi anticipati dovuti per il 2014 e a richiederne il pagamento, applicando la riduzione ove spettante.
Per le scuole che hanno già versato al 16 dicembre 2013 la rata anticipata di premio per il 2014 in base alle richieste di pagamento ricevute a novembre, saranno del pari ricalcolati gli importi dovuti con applicazione della riduzione ove spettante. L’eventuale maggior pagato potrà essere utilizzato in compensazione con F24 per effettuare altri pagamenti.
Per quanto riguarda i pagamenti dei premi relativi alle altre polizze speciali di cui al punto 2, il nuovo termine del 16 maggio 2014 sostituirebbe in particolare:

a. il termine del 17 febbraio 2014 per il pagamento in unica soluzione dei premi anticipati per l’anno 2014 relativi agli apparecchi RX e alle sostanze radioattive;
b. i termini del 17 febbraio 2014 e del 16 aprile 2014 per il pagamento delle rate trimestrali dei premi anticipati riguardanti il 1° e 2° trimestre 2014 relativi ai facchini e ai barrocciai/vetturini/ippotrasportatori;
c. i termini del 17 febbraio 2014, del 17 marzo 2014 e del 16 aprile 2014 per il pagamento delle rate mensili dei premi anticipati per l’anno 2014 relativi ai pescatori autonomi.
Il rinvio dell’autoliquidazione comporta anche il differimento del termine di pagamento dei contributi associativi riscossi dall’Inail per conto delle associazioni di categoria convenzionate ai sensi della legge 311/1973.
Le convenzioni in atto stabiliscono, infatti, che l’Inail provvede all’esazione del contributo abbinandolo sempre all’ordinaria riscossione dei premi assicurativi.
Di conseguenza, si anticipa che il pagamento del primo acconto dell’anno 2014 sarà effettuato nel mese di luglio 2014, anziché entro il mese di maggio.
Resta invece fermo il termine del 17 febbraio 2014 entro cui devono essere inviate le comunicazioni motivate di riduzione delle retribuzioni presunte tramite l’apposito servizio "Riduzione presunto", già aperto in www.inail.it.
L’Istituto si riserva comunque  di fornire ulteriori notizie più dettagliate.

martedì 28 gennaio 2014

Pubblico impiego: il lavoratore ha diritto a percepire una retribuzione corrispondente alle mansioni superiori eventualmente svolte di fatto

Con la sentenza n.796 del 16 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha stabilito che il diritto di un lavoratore alla superiore retribuzione per aver svolto mansioni superiori rispetto a quelle di inquadramento sussiste anche nel pubblico impiego, senza che sia necessario un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione a tali mansioni.

Una dipendente della Asl n. X Basso Molise con qualifica di “infermiere generico” si era rivolta al Tribunale di Larino, sostenendo di avere lavorato presso l’U.O. dell’Ambulatorio di Cardiologia e di aver svolto, dal marzo 2002 al gennaio 2006, epoca del suo pensionamento, attività riconducibili al profilo di “infermiere professionale”.

Per tale ragione aveva richiesto la condanna della ASL a corrispondere in suo favore le differenze tra il trattamento economico percepito e quello spettante per lo svolgimento delle mansioni superiori.

Il Tribunale aveva però respinto la domanda del lavoratore, accogliendo invece le rimostranze  della ASL secondo cui la lavoratrice non aveva dimostrato l’esistenza di un provvedimento di assegnazione alle mansioni corrispondenti al superiore profilo professionale e ciò costituiva una ragione assorbente per escludere il diritto alle differenze economiche rivendicate.

Al termine del successivo giudizio di secondo grado, la Corte di Appello di Campobasso, dopo aver accertato l’effettivo svolgimento in modo ordinario e continuativo da parte della ricorrente di attività propria della qualifica di infermiere professionale, ne aveva accolto invece  le richieste, ritenendo irrilevante, a tale proposito, la mancanza di un formale atto di assegnazione.

La Asl n. X Basso Molise in liquidazione aveva quindi proposto ricorso per Cassazione, contestando ai   giudici di Appello di avere erroneamente interpretato ed applicato alla fattispecie i principi enunciati nella sentenza n. 25837 del 2007 delle Sezioni Unite.

Si tratta di una pronuncia che aveva riguardato l’esercizio di mansioni superiori conferite con atto illegittimo, ma non l’ipotesi, come nel caso di specie, di svolgimento di fatto di mansioni radicalmente prive di un provvedimento di conferimento.

A detta del datore di lavoro, per corrispondere alla lavoratrice la differenza di trattamento economico  vi sarebbe una imprescindibile relazione tra il diritto al trattamento economico per l’esercizio di mansioni superiori e l’attribuzione di queste mediante un provvedimento di assegnazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha, innanzitutto, ritenuto prive di fondamento la questione proposta in merito alla supposta  illegittima equiparazione tra mansioni svolte in forza di un provvedimento di conferimento e mansioni svolte in via di fatto.

Il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, recependo una costante norma del pubblico impiego, esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore ma, quanto  al divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, la Corte Costituzionale ha stabilito  l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonché alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali (1).

A proposito dell’interpretazione fornita dalle Sezioni Unite della Corte con la sentenza n. 25837 del 2007, essa deve invece essere intesa nel senso che l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (2), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.

Si tratta di una  norma che, a detta della Suprema Corte, deve trovare integrale applicazione anche nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (3).

Né la portata applicativa del principio è da intendere come limitata e circoscritta al solo caso in cui le mansioni superiori vengano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione, ancorché nullo; le Sezioni Unite (4), sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale, hanno rilevato come l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato prescinda dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori e come il mantenere, da parte della pubblica amministrazione, l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determini una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perché non può ravvisarsi nella violazione della mera legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (5).

La Corte Costituzionale ha ripetutamente affermato l’applicabilità, anche al pubblico impiego, dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, non ostando a tale riconoscimento, a norma dell’art. 2126 c.c., l’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (6).

Per la Cassazione dunque, il diritto a percepire una retribuzione commisurata alle mansioni effettivamente svolte in ragione dei principi di rilievo costituzionale e di diritto comune non è dunque condizionato all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico che disponga l’assegnazione.

Le uniche ipotesi in cui può essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente  (7).
Sempre la Corte costituzionale ha poi osservato (8) che il potere attribuito al dirigente preposto all’organizzazione del lavoro di trasferire temporaneamente un dipendente a mansioni superiori per esigenze straordinarie di servizio è un mezzo indispensabile per assicurare il buon andamento dell’amministrazione; la spettanza al lavoratore del trattamento retributivo corrispondente alle funzioni di fatto espletate è un precetto dell’art. 36 Cost., la cui applicabilità all’impiego pubblico non può essere messa in discussione (9).

L’astratta possibilità di abuso di tale potere e delle sue conseguenze economiche, nella forma di protrazioni illegittime dell’assegnazione a funzioni superiori, non è evidentemente un argomento che possa giustificare una restrizione dell’applicabilità del principio costituzionale di equivalenza della retribuzione al lavoro effettivamente prestato. Se fosse infatti dimostrato che nel caso concreto l’assegnazione del dipendente a mansioni superiori fosse avvenuta con abuso d’ufficio e con la “connivenza” del dipendente, lo stesso art. 2126 cod. civ. imporrebbe al giudice di respingere la pretesa di quest’ultimo.

La Cassazione segnala, inoltre, che, in un’altra pronuncia, vertente in un caso di assegnazione di fatto di un sanitario alle mansioni superiori in mancanza di un provvedimento formale di incarico, la Corte costituzionale (10)  ha escluso che la mancanza della condizione formale potesse ostacolare l’accoglimento della domanda, osservando che l’adibizione temporanea a mansioni superiori per esigenze di servizio non da diritto a variazioni di trattamento economico (cioè rientra nei doveri di ufficio del sanitario) “solo entro il limite temporale massimo ivi indicato (….), onde il suo prolungamento oltre tale limite produce al datore di lavoro un arricchimento ingiustificato, che alla stregua dell’art. 36 della Costituzione, direttamente applicabile, determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura corrispondente alla qualità del lavoro effettivamente prestato”, e che non può escludersi l’accoglimento della domanda per difetto di un provvedimento formale di assegnazione interinale alle mansioni inerenti al posto vacante, in quanto “la mancanza di questa condizione formale è supplita dal principio della prestazione di fatto di cui all’art. 2126 cod. civ., applicabile anche ai rapporti di pubblico impiego”. La prestazione ulteriore di lavoro in tali mansioni produce al datore un arricchimento senza causa, che alla stregua dell’art. 36, primo comma, Cost., direttamente applicabile, comporta l’obbligazione di adeguare il trattamento economico del dipendente alla natura del lavoro effettivamente prestato (11).

Per concludere, la Corte di Cassazione ha rilevato che, nel caso di specie, non ricorre alcuno dei presupposti che – alla stregua dei principi sopra esposti  – avrebbe potuto giustificare l’esclusione del diritto dell’attuale intimata alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato – e del correlativo obbligo dell’Amministrazione di integrare il trattamento economico della dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato.

Per i motivi sopra indicativa Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della Asl n. X Basso Molise ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi, oltre  I.V.A. e C.P.A..

Valerio Pollastrini

 

(1)   - cfr, ex plurimis, Cass., nn. 91/2004, 18286/2006; 9130/2007; da ultimo, Cass. n. 12193 del 2011;
(2)    - tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990;
(3)    - v. pure Cass. n. 23741 del 17 settembre 2008 e molte altre successive; tra le più recenti, Cass. n. 4382 del 23 febbraio 2010;
(4)    - cfr. Cass. n. 27887 del 2009, che richiama Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit;
(5)    - Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2;
(6)    - cfr. Corte Cost. sent n. 57/1989, n. 296/1990, n. 236/1992, n. 101/1995, n. 115/2003, n. 229/2003;
(7)    - cfr. Cass. n. 27887 del 2009;
(8)    - Corte Costituzionale, sentenza n. 101 del 1995;
(9)    - cfr. Corte Costituzionale,  sentenza n. 236 del 1992;
(10)                      – Corte Costituzionale, sent. n. 57 del 1989;
(11)                      – Corte cost. ord. n. 908 del 1988;

Aumenta l’importo dell’assegno per il mantenimento dei figli se il coniuge obbligato fa carriera


Con la sentenza n.920 del 17 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha disposto l’aumento dell'assegno di mantenimento in favore del figlio adolescente per un padre divorziato che, nel frattempo, aveva fatto carriera sul lavoro con corrispondente aumento delle proprie capacità economiche.

In questo modo la Corte di legittimità ha ritenuto di assicurare al figlio lo stesso tenore di vita che avrebbe goduto se la disgregazione del nucleo familiare non si fosse verificata.

Come noto, nei casi di  separazione e divorzio, il soggetto economicamente più forte  e' obbligato, per legge, ad erogare, in favore   del coniuge privo di redditi  e dei figli, anche se maggiorenni ma non autosufficienti economicamente, un assegno di mantenimento.

Qualora, successivamente al divorzio, il coniuge obbligato benefici di  un positivo cambiamento della propria situazione economica, l’importo dell’assegno a suo carico dovrà essere dunque aumentato. La legge, infatti, dispone che il mantenimento in favore dei figli debba essere proporzionato alle rispettive sostanze, secondo la  capacità di lavoro professionale o casalingo.

In base ad un orientamento consolidato in giurisprudenza, nel caso in cui il coniuge obbligato venga a beneficiare di un tenore di vita più agiato rispetto a quello posseduto  al momento della determinazione originaria dell'assegno di mantenimento, l’importo dell’assegno medesimo  può essere  aumentato.

La sentenza in commento,  disponendo l’incremento dell’assegno  in virtù di un netto miglioramento delle  condizioni lavorative dell’obbligato, si segnala pienamente in linea con il suddetto orientamento.

In conclusione è necessario sottolineare come la Suprema Corte abbia disposto l’adeguamento economico per il mantenimento, non soltanto per   aver accertato  la sopragiunta  posizione di prestigio acquisita sul lavoro dal padre  rispetto all’epoca del divorzio, ma anche per rispondere adeguatamente alle  accresciute esigenze del figlio minore.

Valerio Pollastrini

Estratto contributivo on-line anche per gli sportivi e i lavoratori dello spettacolo


Con il Messaggio del 24 gennaio 2014 l’Inps ha comunicato l’istituzione di un servizio che consentirà agli iscritti alle Gestioni ex Enpals - Fondo Lavoratori dello Spettacolo e Fondo Sportivi Professionisti di consultare il proprio estratto conto contributivo.

I lavoratori interessati  potranno visualizzare il proprio estratto conto individuale accedendo al Menu Servizi online dal portale Inps, attraverso il percorso Servizi per il cittadino> Fascicolo Previdenziale del Cittadino>Posizione Assicurativa> “Estratto Conto”.

Attraverso lo stesso percorso ma selezionando invece nel menu la voce “Segnalazioni contributive” sarà possibile segnalare online dati errati o mancanti nell’estratto contributivo, allegando in formato digitale la documentazione necessaria a modificare o integrare la propria posizione assicurativa.
L’Istituto ricorda, inoltre, che i citati servizi possono essere anche richiesti tramite Contact center INPS, raggiungibile dal lunedì al venerdì dalle ore 8.00 alle ore 20.00 e il sabato dalle ore 8.00 alle ore 14.00, componendo il numero 803164, gratuito da rete fissa, oppure contattando da telefono cellulare il numero 06164164, a pagamento secondo il piano tariffario del proprio gestore telefonico o rivolgendosi ai Patronati.
Nell’attuale fase di integrazione, ogni variazione relativa a posizioni contributive, derivanti da contribuzione figurativa, volontaria o da riscatto, sarà gestita dal Polo specialistico “Previdenza Pals” nazionale, costituito nell’ambito della Direzione di area metropolitana di Roma.

Valerio Pollastrini

domenica 26 gennaio 2014

Legittimo il rifiuto alla prestazione se in azienda non vengono applicate le prescrizioni sulla sicurezza


In linea di principio, se il datore di lavoro risulta inadempiente in merito all’applicazione delle  misure di legge finalizzate alla tutela della salute e dell’integrità psicofisica del personale, il lavoratore ha il diritto di astenersi dalle prestazioni la cui esecuzione potrebbe arrecargli danno.

Ad affermarlo è la Corte di Cassazione che ha accolto la richiesta di pagamento delle retribuzioni avanzata da un gruppo di lavoratori delle Ferrovie dello Stato che si erano rifiutati di effettuare i lavori di rimozione dell'amianto dai vagoni ferroviari in mancanza dei necessari interventi di bonifica.

Dopo aver timbrato il cartellino, i dipendenti  erano rimasti a disposizione del datore di lavoro durante tutto l'orario di lavoro, astenendosi tuttavia dalle attività che potessero porli  a diretto contatto con l'amianto.

Il Pretore era intervenuto ordinando la chiusura di detti capannoni ed aveva inoltre disposto una serie di modifiche agli impianti.

I menzionati lavoratore non avevano però ricevuto la retribuzione per i giorni nei quali si erano astenuti dal lavoro e per questo avevano avviato un giudizio, sostenendo che il rifiuto della prestazione negli ambienti di lavoro ritenuti pericolosi fosse giustificato dall'inadempimento degli obblighi di sicurezza gravanti sul datore di lavoro.

Le Ferrovie dello Stato avevano contestato la pretesa dei lavoratori, sostenendo che, all'epoca dei fatti, l'uso dell'amianto non era ancora stato vietato per legge e non erano stati stabiliti valori limite di tollerabilità,  risultando quindi, a detta dell’azienda, pienamente adeguate le precauzioni che, in base alle conoscenze del tempo, erano state allora impiegate.
 
La Cassazione ha però accolto le richieste dei lavoratori, ritenendo in particolare che l'inadempimento delle Ferrovie dello Stato non consistesse nella mancata applicazione di nuove tecnologie ma nei gravi difetti esistenti negli ambienti di lavoro, accertati da apposita perizia, come l'imperfetto isolamento degli ambienti con conseguente dispersione di polveri e fibre, l'inidoneità dell'impianto di estrazione dell'aria, l'inidoneità dei caschi forniti ai lavoratori per impedire l'infiltrazione di polveri all'interno.

Valerio Pollastrini

L’azienda deve risarcire il danno se il lavoratore, in seguito ad infortunio sul lavoro, non riesce ad appagare sessualmente la moglie


Con la sentenza n.386 del 19 novembre 2013–10 gennaio 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la pronuncia di merito con la quale era stato riconosciuto il diritto al risarcimento del danno in favore del marito lavoratore che, in seguito ad  infortunio sul lavoro, aveva lamentato la sopraggiunta impossibilità di   appagare sessualmente la moglie.

Con precedente sentenza  n. 14822/07 la Suprema Corte aveva cassato – con rinvio alla Corte d’appello di Roma – la sentenza con la quale il Tribunale di Latina, nel secondo grado di giudizio, aveva, in riforma della sentenza di prime cure, condannato Estrusione Italia S.p.A. al pagamento, in favore della ricorrente, di  50.000,00 € a titolo di danno alla vita sessuale e di 25.000,00 € a titolo di danno morale, oltre interessi dalla data dell’infortunio patito il 10.2.92 dal coniuge  della danneggiata, da calcolarsi sulla metà dei predetti importi.

La pronuncia del  Tribunale era stata annullata in quanto il giudice di appello aveva fondato la propria decisione su documenti depositati in appello dalla difesa della ricorrente , senza pronunciarsi sull’eccezione di tardività della loro produzione sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

La Corte d’appello di Roma, pronunciando in sede di rinvio, aveva rigettato l’eccezione di tardività della produzione dei documenti predetti e nel merito aveva confermato la liquidazione dei danni contenuta nella summenzionata sentenza del Tribunale di Latina, richiamandone le motivazioni.

Estrusione Italia S.p.A. aveva quindi ricorso nuovamente per la cassazione della sentenza della Corte territoriale, depositando, inoltre, la sopravvenuta sentenza dichiarativa di fallimento della società medesima.

A proposito dello stato di fallimento del datore di lavoro, la Cassazione, richiamando i propri precedenti sul merito, ha premesso innanzitutto l’irrilevanza  della sopravvenuta dichiarazione di fallimento della società ricorrente poiché nel giudizio di cassazione tale circostanza non determina l’interruzione del processo (1).

L’azienda si doleva del fatto che l’impugnata sentenza avesse ritenuto che i documenti fossero stati già ritualmente depositati in prime cure, unitamente al ricorso introduttivo di lite, mentre – ad avviso della società ricorrente – nel precedente giudizio di legittimità era stato pacificamente  accertato il contrario, tanto che l’annullamento era stato disposto proprio affinché il giudice del rinvio si pronunciasse sull’eccezione di tardività della produzione sollevata nel precedente giudizio.

Il ricorrente contestava, inoltre, l’accoglimento da parte del giudice di appello della domanda risarcitoria in base a documenti insufficienti a comprovarla, atteso che proprio alla luce della CTU prodotta  non esisteva un danno alla vita sessuale in senso stretto, essendosi ipotizzata una mera impossibilità di procreare (aspermia), in realtà destinata a regredire nel tempo.

A detta dell’azienda, la ricorrente non aveva dimostrato di volere altri figli, né aveva provato la permanenza della patologia riportata dal marito, dal quale – per altro – era separata da anni. Del pari veniva contestato il raggiungimento  della prova del danno morale, per di più liquidato in maniera arbitraria in assenza di idonei parametri.

La Cassazione ha escluso ogni rilevanza alle doglianze sopra elencate in quanto, dall’analisi degli atti, era emerso che la Suprema Corte, nella passata pronuncia, non avesse  affatto accertato la reale tardività della produzione dei documenti asserita dall’odierna ricorrente, ma si fosse limitata a cassare la sentenza del Tribunale di Latina per omessa pronuncia sull’eccezione di tardività sollevata da Estrusione Italia S.p.A..

Dunque, nulla vietava al giudice di rinvio di accertare autonomamente se tali documenti fossero stati effettivamente già prodotti in prime cure e, poi, semplicemente ridepositati nel corso del giudizio d’appello, come espressamente affermato dall’impugnata sentenza.

Ciò supera ogni altra censura sollevata dall’odierna ricorrente in ordine a pretese violazioni o a vizi di motivazione circa l’indispensabilità dei documenti ai fini del decidere.

Premesso poi che il danno morale, quello sessuale e quello alla vita di relazione rientrano pur sempre nell’ampia ed omnicomprensiva categoria del danno non patrimoniale, che non è possibile suddividere in ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva, la Cassazione ha specificato che la loro esistenza può presumersi anche in base a mere massime di esperienza (2), in particolare se basate sui rapporti personali fra coniugi, come nel caso di specie, salva restando la possibilità di prova contraria.

La pretesa separazione fra la lavoratrice e il marito e/o quelle concernenti la scelta di non avere (altri) figli costituiscono circostanze che implicano accertamenti di fatto, estranei al giudizio di legittimità.

In ordine, poi, alla liquidazione dei danni, la Suprema Corte ricorda che essa non può che avvenire in via equitativa, non esistendo parametri legislativi a riguardo.


Sul punto la Cassazione ha escluso che   l’impugnata sentenza avesse proceduto ad una loro liquidazione arbitraria, rilevando invece che i giudici del rinvio avessero espressamente fornito una motivazione per relationem a quella già espressa nella precedente citata sentenza del Tribunale di Latina.

La Suprema Corte ha quindi concluso rigettando il ricorso dell’azienda, condannandola al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100,00 € per esborsi ed in 3.500,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini


(1)    -  cfr., ex aliis, Cass. 17.7.13 n. 17450; Cass. 31.5.12 n. 8685; Cass. 5.7.11 n. 14786; Cass. S.U. 14.11.03 n. 17295;

(2)   - cfr. Cass. S.U. 11.11.08 n. 26972;

Conciliazione in sede sindacale – Rinuncia del lavoratore all’impugnativa del licenziamento


In risposta ad Interpello n.1 del 22 gennaio 2012, la Direzione generale del Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti sollecitati da Confindustria che, con specifica istanza, aveva chiesto se fosse valida la conciliazione conclusa in sede sindacale nella quale il lavoratore rinunci al diritto ad impugnare il licenziamento, anche nell’ipotesi in cui il recesso sia stato effettuato in assenza del rispetto della procedura prevista dall’art. 7 della L. 604/1966.

Il Ministero ha preliminarmente ricordato come l’introduzione della procedura conciliativa di cui alla citata normativa lascia inalterata la disciplina e gli effetti di cui all’art. 2113 c.c. che dispone, con riferimento all’ultimo comma, un’eccezione alla previsione di invalidità delle rinunce e delle transazioni laddove le stesse siano realizzate attraverso la conclusione di un atto negoziale che - secondo i chiarimenti della giurisprudenza - sia riferibile a diritti compresi nella sfera di disponibilità giuridica del lavoratore.

Sulla base di tale premessa e con richiamo ai precedenti della giurisprudenza di legittimità, il Ministero conclude affermando che  non sussistono motivazioni di ordine giuridico per ritenere che un vizio di natura procedimentale non sia ammissibile in ordine  alla disciplina civilistica di cui al citato art. 2113 c.c. con i conseguenti corollari in ordine all’efficacia degli atti transattivi conclusi in tale sede (1).

Valerio Pollastrini

 

(1)   - cfr ex plurimis Cass. Civ., sent. n. 22105/2009; Cass. Civ., sent. n. 13134/2000; Cass. Civ., sent. n. 5940/2004; Cass. Civ. sent. 304/1998; Cass. Civ., sent. n. 4780/2003;

Dipendenti pubblici – Visualizzazione delle denunce contributive


Con il Messaggio n,1276 del 22 gennaio 2014 l’Inps ha comunicato l’istituzione, tra i servizi on-line, di una funzione rivolta  ad aziende ed amministrazioni iscritte alla Gestione Dipendenti Pubblici per la visualizzazione delle denunce contributive pervenute all’Istituto da gennaio 2005.

Per accedere al nuovo servizio sono disponibili due differenti parametri di ricerca:

-     ricerca Enti Dichiaranti: consente di visualizzare le denunce relative all’azienda o amministrazione nella sua accezione di Ente dichiarante ovvero sede di servizio, secondo le indicazioni contenute nella circolare  7 agosto 2012, n.105;

-     ricerca Iscritto: consente di visualizzare le denunce relative  al singolo iscritto inviate dall’azienda o dall’amministrazione abilitata alla funzione di visualizzazione.

Gli utenti avranno la possibilità di visualizzare sia lo stato della denuncia che lo  stato di elaborazione.

Saranno visibili sia le denunce “correnti“, sia le denunce divenute “obsolete” o “annullate”, a seguito di invii successivi da parte dell’azienda o dell’amministrazione.

Per accedere al servizio - disponibile nei Servizi in linea dedicati alle “Amministrazioni ed Enti”, accessibile da INPS → Informazioni → Gestione Dipendenti Pubblici  - è necessario che l’azienda o l’amministrazione  richieda l’abilitazione dei propri operatori all’Area Gestione Dipendenti Pubblici della Sede competente per territorio compilando il modulo di abilitazione.

Le Sedi INPS provvederanno ad inoltrare le richieste di abilitazione alla Gestione Utenti Procedure utilizzando la modulistica per “Abilitazione alle applicazioni dell’Istituto per Personale Esterno” disponibile in Intranet nell’Area della Direzione Centrale Sistemi Informativi e Tecnologici, Gestione dipendenti pubblici, Abilitazione applicazioni.

 
Nel Messaggio in commento l’Istituto precisa, inoltre, che nella specifica area dei Servizi in linea, Amministrazioni ed Enti, sarà disponibile il manuale utente e il modulo di abilitazione.

Valerio Pollastrini