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mercoledì 29 ottobre 2014

Obblighi di sicurezza in caso di distacco del lavoratore

Nella sentenza n.30483 del 10 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato che, in caso di distacco del dipendente, tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del impresa utilizzatrice, fatta eccezione di quelli della formazione e informazione che rimangono a carico del datore di lavoro distaccante.

Il caso di specie è scaturito dall’infortunio del dipendente di una società, demandato in distacco presso una vetreria.

In seguito all’incidente, sia il datore di lavoro che il titolare dell’azienda nella quale, di fatto, il dipendente svolgeva la prestazione, erano stati ritenuti responsabili del reato di lesioni personali colpose gravi, aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica.

L’infortunio si era verificato mentre il dipendente era adibito alla movimentazione di enormi lastre di vetro delle dimensioni di m. 3 per m. 2,50, del peso complessivo di 22 quintali circa, con l’ausilio  di un precario carrellino a rotelle.

Nel ribaltarsi, il carico aveva investito il lavoratore, provocandogli delle lesioni giudicate guaribili in 272 giorni, con indebolimento permanente di un organo.

Al titolare della vetreria era stata contestata la mancata informazione all’infortunato, sui rischi specifici della sua azienda, oltre l’omessa fornitura al dipendente  delle attrezzature idonee alla movimentazione di carichi pesanti.

Al datore di lavoro della società distaccante, invece, era stata addebitata la mancata informazione sui rischi ai quali il dipendente sarebbe rimasto esposto nell’esecuzione, presso altra azienda, di mansioni diverse da quelle abitualmente rese.

In sostanza, nella pronuncia in commento la Suprema Corte ha ribadito che, in caso di distacco dei lavoratori, tutti gli obblighi di prevenzione e protezione sono a carico del distaccatario, salvo quelli   di formazione e informazione che, conseguentemente, restano a carico del distaccante.

Valerio Pollastrini

Accettare il Tfr non impedisce al dipendente di richiedere la nullità del termine apposto al contratto

Nella sentenza n.17540 del 1° agosto 2014, la Corte di Cassazione ha precisato come sia l’accettazione del Trattamento di Fine Rapporto, che la mancata messa a disposizione delle proprie energie lavorative, non precludono al dipendente la possibilità di agire in giudizio per ottenere la nullità del termine apposto al suo contratto.

In sostanza, nella pronuncia in commento, la Suprema Corte ha chiarito che entrambi i comportamenti suddetti non possono in alcun modo essere interpretati come tacita dichiarazione di rinunzia del lavoratore ai propri diritti, derivanti dalla illegittima apposizione del termine.

Stesso discorso, inoltre, vale per che abbia trovato una nuova occupazione  dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni.

Valerio Pollastrini

“Racconti in cucina” tra foto e ricette: il progetto di Inail Sicilia diventa un libro

La cucina come laboratorio creativo: a Tarabia (Palermo) l’Inail ha organizzato un corso di narrazione ed arte culinaria riservato ad alcuni disabili infortunati sul lavoro, tossicodipendenti ed immigrati.

Si tratta del progetto, promosso dalla sede di Palermo dell’Istituto e dall’Opera Don Calabria, finalizzato alla promozione di valori quali l’integrazione e la solidarietà sociale.

Detto progetto è partito  dalla  cucina della predetta comunità di Trabia, nella quale disabili infortunati sul lavoro, tossicodipendenti ed immigrati si sono ritrovati ogni mercoledì per un corso di arte culinaria e narrazione, articolato in dieci incontri.

Il fotografo siciliano Sebastiano Bellomo ha raccontato l’impegno ai fornelli  dei partecipanti, attraverso gli scatti in bianco e nero, raccolti insieme a ricette e riflessioni nel libro “Racconti in cucina”, che ripercorre il corso di cucina condotto dallo chef Filippo Di Leonardo e dal pasticcere Nicola Cinà, disabili infortunati sul lavoro.

Il libro, la cui sezione narrativa è stata affidata alla scrittrice Delia Altavilla, si presenta come un piccolo, prezioso mosaico di esperienze individuali, il cui insieme ha composto una storia comune, nella quale ogni tassello, con la sua unicità, ha rivelato il proprio senso ed il proprio valore nel complesso.

Come sottolineato dal Direttore Regionale dell’Inail, Daniela Petrucci, il progetto ha raggiunto e superato i risultati attesi.

Per Petrucci si è trattato di un’esperienza utile per incrementare  competenze e sviluppare interessi, sia rispetto alle attività della cucina e della scrittura che all’aspetto della solidarietà sociale.

Al termine del progetto, infatti, due assicurati Inail hanno deciso di svolgere attività di volontariato nella Comunità.

Particolarmente toccante, il racconto dei viaggi di Rahman e Misbah dal Bangladesh e quello di Mousa dal Mali per raggiungere l’Italia, i ricordi dell’incidente di Nicola e quelli dell’infanzia dei partecipanti, che hanno lasciato fluire le proprie emozioni per guardare al futuro con rinnovata energia.

Nella prefazione del testo, Delia Altavilla ha osservato come giovani e uomini alle prese con sfide durissime abbiano delineato, con grande dignità, cosa significhi perdere tutto e trovare la forza di ricominciare da zero.

Sul fronte dell’Inail, sempre la Petrucci ha precisato come il progetto promosso dall’Istituto sia stato anche una occasione di integrazione tra servizio pubblico e privato, di comunicazione all’esterno della missione sociale dell’Ente, di superamento della logica distributiva ed assistenziale di erogazione di prestazioni a vantaggio di un’azione di welfare ‘generativo’, che punta cioè sulla valorizzazione, sull’investimento e sul reinvestimento delle risorse e delle competenze delle persone e delle istituzioni per l’aumento del capitale sociale.

Valerio Pollastrini

Pubblico impiego – Lavoratore impiegato in violazione di disposizioni imperative – Diritto al risarcimento del danno

Nella sentenza n.18855 dell’8 settembre 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito il diritto al risarcimento del danno in favore del lavoratore che abbia reso la prestazione in favore della Pubblica Amministrazione, in violazione delle norme di legge.

Nella pronuncia in commento, gli ermellini hanno ricordato che, ai sensi dell’art.36, comma 5, del D.Lgs. n.165/2001, dalla violazione di disposizione imperative riguardanti l'assunzione o l'impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può scaturire la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con i medesimi Enti, ferma restando ogni responsabilità e sanzione.

In simili casi, pertanto, il lavoratore, privato per legge della possibilità di ottenere la costituzione del rapporto di pubblico impiego, ha diritto solo al risarcimento del danno derivante dalla prestazione resa in violazione di disposizioni imperative.

Al verificarsi della circostanza suddetta, le Amministrazioni, qualora la predetta violazione sia dovuta a dolo o colpa grave, dovranno agire nei confronti dei dirigenti responsabili per recuperare le somme pagate a titolo risarcitorio.

Valerio Pollastrini

Infortunio sul lavoro - Condotta imprudente del dipendente

Nella sentenza n.22827 del 28 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che, una volta esclusa la violazione delle norme sulla sicurezza, il datore di lavoro non può ritenersi responsabile dell’infortunio scaturito dalla condotta imprudente del dipendente.

Nel caso di specie, un aiuto cuoca alle dipendenze di una società appaltatrice della mensa regionale di Aosta aveva convenuto in giudizio l’azienda per ad ottenere il risarcimento dei danni alla salute, alla vita di relazione e morale conseguenti all’infortunio sul lavoro subito in data 13 ottobre 1998, allorché, nell’espletamento delle proprie mansioni, era caduta dalle scale che conducevano alla cantina.

La Corte di Appello di Torino, confermando quanto disposto nella pronuncia del Tribunale di primo grado, aveva rigettato il ricorso della lavoratrice.

La Corte del merito, infatti, aveva rilevato che la domanda della ricorrente si fondava unicamente sull’assunto che il datore di lavoro non aveva fornito ai dipendenti le calzature antiscivolo e non aveva installato listelli antiscivolo sulle scale, laddove, in sede istruttoria, era stato confermato che le scale erano sufficientemente illuminate ed agevoli e che non risultavano disposizioni di legge che imponessero l’adozione di un montacarichi, né l’installazione di listelli antisdrucciolo, previsti solo per scale doppie o a pioli od in presenza di liquidi o materiali putrescenti (1).

Per tali ragioni, il giudice del gravame aveva escluso la pretesa sussistenza del nesso di causalità con l'accaduto, atteso che la lavoratrice si era infortunata mentre stava trasportando una cassa di bottiglie che le impediva la vista.

Contro questa sentenza, la donna aveva adito  la Cassazione, rilevando che l’esonero totale del datore da responsabilità sarebbe previsto solo quando la condotta del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, ovvero dell’atipicità e dell’eccezionalità.

Sul punto, la ricorrente aveva quindi osservato come non possa ritenersi abnorme il comportamento di un aiuto cuoco che trasporta bottiglie dalla cucina alla dispensa e che la mancata previsione di misure di sicurezza avrebbe necessitato di una maggiore argomentazione a sostegno dell’esonero da responsabilità della datrice di lavoro, non avendo quest’ultima mai fatto cenno ad eventuali istruzioni contrarie alla condotta tenuta dalla lavoratrice.

La ostruzione alla vista delle scale, per effetto della cassa trasportata, non escluderebbe, quindi, che la lavoratrice fosse scivolata in conseguenza della mancanza di dispositivi antisdrucciolo.

Con altro motivo di ricorso, la lavoratrice aveva lamentato violazione e falsa applicazione dell’art.2087 del codice civile, evidenziando come detta norma fondi un principio di carattere generale in tema di doveri di prevenzione imposti dall’ordinamento a carico del datore ed imponga al predetto non solo le particolari misure imposte tassativamente dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche imposte dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre misure che si rendano necessarie per la tutela del lavoro in base all’esperienza ed alla tecnica.

Nel caso in esame, pertanto, la necessità per l’aiuto cuoco di recarsi nella dispensa avrebbe dovuto indurre il datore a dotare i gradini di apposite listarelle antisdrucciolo idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore.

La ricorrente, inoltre, aveva richiamato quanto disposto dall’art.48 del D.Lgs. n.626/1994, ai sensi del quale  il datore deve  adottare le misure organizzative necessarie o ricorrere ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori, laddove nessuna misura era stata adottata al riguardo.

In sostanza, la tesi della ricorrente aveva dedotto che non poteva ritenersi che il datore avesse fatto tutto il possibile per evitare il danno e che trasportare carichi che impedissero la visuale nello scendere le scale poteva concretizzare, di per sé, il nesso causale, non essendo tale comportamento definibile come imprevedibile, poiché connesso alle normali mansioni collegate alla qualifica ricoperta, e potendo la caduta essere evitata con l’utilizzo di un montacarichi o limitata dall’utilizzo di calzature antiscivolo e dalla predisposizione di listelle antisdrucciolo.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto il ricorso  infondato.

Nella premessa, gli ermellini hanno ribadito che,  non sussistendo nella specie le condizioni per l’adozione di particolari dispositivi di sicurezza, la Corte di Torino aveva correttamente  escluso il nesso di causalità con l’accaduto, poiché la lavoratrice non era scivolata, ma la caduta era da collegare al trasporto di una cassa di bottiglie che le impediva  la vista delle scale.

A proposito della censura inerente alla presunta violazione dell’art.2087 c.c., la Suprema Corte ha rilevato come la responsabilità conseguente alla violazione di detta norma ha natura contrattuale, sicché il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno da infortunio deve allegare e provare la esistenza dell’obbligazione lavorativa e del danno, cioè il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile, e cioè di aver adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno, e che gli esiti dannosi sono stati determinati da un evento imprevisto ed imprevedibile (2).

Secondo i principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità (3), le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili a sue imperizia, negligenza ed imprudenza, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure protettive venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente per l'imprenditore all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e con esse, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (4).

Nel caso considerato, il giudice dell’appello aveva correttamente evidenziato che non erano state disattese le disposizioni di sicurezza quanto ai listelli antisdrucciolo, poiché, in base al DPR n.5445/1957, essi sono previsti solo per le scale doppie o a pioli e quindi di nessuna rilevanza è l’osservazione che non poteva essere escluso che la lavoratrice fosse caduta non per la mancanza di visuale ma per la mancanza dei dispositivi anzidetti, una volta accertato che il datore non dovesse ottemperare alla relativa predisposizione in relazione alla mancanza delle condizioni che ne imponessero l’adozione.

E' stato anche osservato che nessuna allegazione vi era stata in ordine alla circostanza che le scale fossero scivolose e, peraltro, anche in base al richiamato art.7 del DPR n.303/1957, doveva, ai fini del nesso causale, essere dimostrato che le scale fossero normalmente bagnate o coperte da materiali putrescenti che imponessero la collocazione nel percorso di graticolati idonei a rendere sicuro il passaggio.

In relazione all’art.48 del D.Lgs. n.626/1994, anch’esso richiamato dalle censure del ricorrente, la Cassazione ha ricordato che detta norma, nell’imporre  l’adozione, quando sia possibile, di attrezzature meccaniche per evitare la movimentazione manuale dei carichi, è diretta a tutelare le condizioni di salute del lavoratore connesse alla pesantezza dei carichi da trasportare, come si evince dal  riferimento, in particolare, ai rischi di lesioni dorso-lombare, e, pertanto, esula dall’oggetto della specifica doglianza.

Una volta esclusa l’inadempienza del datore rispetto alla predisposizione di dispositivi di sicurezza, di conseguenza, deve  ritenersi che la stessa configurabilità del comportamento abnorme non sia utilizzabile ai fini dell’esonero da responsabilità, essendo la mancanza di imputabilità del datore da ricollegare, piuttosto, alla mancanza di ogni nesso causale della caduta con la prestazione lavorativa svolta, le cui modalità non imponevano, per quanto visto, l’adozione delle cautele invocate dalla lavoratrice.

Alla stregua delle esposte considerazioni, la Suprema Corta ha rigettato il ricorso ed ha condannato la lavoratrice al pagamento delle spese processuali, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini

 
1)      - ai sensi dell’art.7 del  D.P.R. n.303/1956;
2)      - tra le altre, Cass., Sentenza n.10529 del  23 aprile 2008;
3)      - Cass., Sentenza n.28205 del 22 dicembre 2011; Cass., Sentenza n.4656 del 25 febbraio 2011; Cass., Sentenza n.19494 del 10 settembre 2009;
4)      - Cass., Sentenza n.28205 del  22 dicembre 2011;

Contratti a termine: prescrizione dei crediti del lavoratore

Nella sentenza n.22146 del 20 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che, in caso di una successione di diversi contratti a termine intervenuti tra le parti, la prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore,  sorti nel corso del rapporto, decorre dal giorno della loro insorgenza, mentre per  quelli maturati alla cessazione del rapporto la decorrenza della prescrizione inizia dal momento del recesso.

Nel caso di specie un lavoratore di un’azienda agricola, lamentando che i plurimi contratti a termine stagionale con i quali era stato assunto avessero mascherato  un unico rapporto continuativo a tempo indeterminato, aveva richiesto in giudizio il pagamento delle differenze retributive  maturate da maggio 1985 ad agosto 1998.

La Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva rigettato la domanda dopo aver accertato che  il ricorrente  aveva prestato la propria attività lavorativa solamente nei periodi risultanti dai contratti a termine. Tale circostanza risultava acclarata dal fatto che, negli intervalli tra un contratto e l’altro, il dipendente aveva percepito  l’indennità di disoccupazione.

Rientrando la pretesa retributiva nell’ambito della disciplina dei contratti a termine, la Corte territoriale aveva  osservato che la prescrizione dei crediti dedotti dal ricorrente dovesse operare in relazione ai singoli rapporti e che, conseguentemente,  le differenze reclamate per gli anni dal 1985 al 1995 dovevano ritenersi prescritte.

Investita della questione, la Cassazione ha confermato la pronuncia del merito, ricordando che, secondo il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, qualora tra le stesse parti si succedano due o più contratti di lavoro a tempo determinato,  il termine prescrizionale dei crediti retributivi (1) inizia a decorrere, per i crediti che sorgono nel corso del rapporto lavorativo dal giorno della loro insorgenza e, per quelli che si maturano alla cessazione del rapporto, a partire da tale momento.

Da quanto appena affermato, scaturisce che, ai fini della decorrenza della prescrizione, i crediti inerenti a ciascun contratto debbono essere considerati in maniera autonoma e distinta da quelli derivanti dagli altri e, pertanto, non è possibile desumere alcuna efficacia sospensiva della prescrizione dagli intervalli di tempo correnti tra un rapporto lavorativo e quello successivo (2).

Gli ermellini hanno quindi precisato come detto principio trovi applicazione anche in materia di lavoro agricolo stagionale.

A tal proposito, infatti, il decorso della prescrizione dei diritti maturati dal lavoratore in una determinata stagione si verifica a partire dalla cessazione delle relative prestazioni, senza che assuma rilevanza in senso contrario la successiva riassunzione del dipendente per un nuovo ciclo stagionale.

Valerio Pollastrini

 
1)      - di cui agli artt.2948, n.4; 2955, n.2; 2956, n. 1, del codice civile;
2)      - Cass., Sez. Un., Sentenza n.575 del 16 gennaio 2003; Cass., Sentenza n.19351 del 17 dicembre 2003; Cass., Sentenza n.6322 del 30 marzo 2004;

Licenziamento orale - Impugnazione – Ripartizione degli oneri probatori

Nella sentenza n.22542 del 23 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha riepilogato la ripartizione dell’onere della prova per l’accertamento dell’eventuale sussistenza di un licenziamento orale.

Nel caso di specie, una donna aveva convenuto in giudizio l’ex datore di lavoro, lamentando di essere stata licenziata verbalmente dopo essersi assentata dal lavoro a causa di minacce di aborto.

La Corte di Appello di Roma, riformando parzialmente la sentenza del Tribunale di primo grado, aveva  rigettato la domanda avente ad oggetto l'impugnativa del supposto licenziamento verbale.

La Corte territoriale, infatti, aveva osservato che il solo certificato di nascita della figlia della ricorrente non fosse sufficiente a ritenere provato il suddetto recesso.

Di contro, il giudice dell’appello aveva rilevato che, dall’escussione di una teste, era emerso solamente che la dipendente si era volontariamente allontanata dal lavoro.

Avverso questa sentenza, la donna aveva adito la  Cassazione, sostenendo che la Corte territoriale erroneamente non aveva considerato che sul lavoratore incombe il solo onere della prova relativo alla sua estromissione dal rapporto, mentre la relativa prova della controdeduzione spetta la datore di lavoro.

La ricorrente, inoltre, aveva dedotto che la Corte del merito non aveva tenuto conto della convocazione dell’azienda per il tentativo di conciliazione dinanzi la DPL di Roma in epoca d'interdizione del licenziamento e della sua manifestazione della disponibilità  a ripristinare il rapporto di lavoro.

Investiti della questione, gli ermellini hanno ritenuto infondate le predette censure.

Nella premessa, la Suprema Corte ha confermato che la giurisprudenza di legittimità, richiamata dalla ricorrente, sia concorde nel ritenere che, qualora il lavoratore deduca di essere stato licenziato oralmente e faccia valere in giudizio la inefficacia o invalidità dello stesso, il datore di lavoro è chiamato a dedurre la sussistenza di dimissioni del dipendente.

In simili casi, pertanto, la prova gravante sul lavoratore è limitata alla sua estromissione dal  rapporto, mentre la controdeduzione del datore di lavoro assume la valenza di un'eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull'eccipiente ai sensi dell'art.2697, secondo comma, del Codice Civile (1).

In sostanza, il lavoratore è chiamato a  dimostrare la sua estromissione.

Ebbene, con riguardo al caso di specie, la Corte del merito aveva chiarito  che l’unica circostanza provata era stata quella  dell'allontanamento volontario della lavoratrice, difettando, invece, la prova della sua estromissione.

Né la dimostrazione del recesso poteva essere desunta dalla mancata presentazione della società alla convocazione per il tentativo di conciliazione avanti alla DPL di Roma, nonché dal fatto che, in tale sede, la lavoratrice aveva formalmente messo a disposizione dell’azienda le proprie energie lavorative.

Tali circostanze, infatti, poiché afferenti ad un periodo successivo alla data del dedotto licenziamento, non potevano assumere rilievo ai fini di cui trattasi.

Sulla base delle esposte considerazioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

1)      - Cass., Sentenza n.21684 del 19 ottobre 2011;

La determinazione dell’orario di lavoro nel part-time

Nella sentenza n.17009 del 25 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che nel contratto part-time la determinazione dell’orario di lavoro deve essere concordata tra le parti.

La normativa di riferimento (1), infatti, dispone che nel contratto a tempo parziale deve essere espressamente indicata la durata della prestazione lavorativa e della ripartizione temporale dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno.

Nella sostanza, la fattispecie contrattuale in commento richiede che il dipendente sia messo nella condizione di conoscere preventivamente il periodo nel quale verrà richiesta la sua prestazione lavorativa.

Gli ermellini hanno quindi precisato come, nel rispetto di tale preventiva determinazione, il contratto a tempo parziale risulti compatibile con un'organizzazione del lavoro articolata su turni predefiniti, sottratta però ad ogni variazione unilaterale da parte del datore di lavoro, sia nell'ipotesi di una pattuizione espressa, c.d. clausola rigida, che in presenza di clausole c.d. elastiche.

Di conseguenza, la Suprema Corte ha ribadito l’illegittimità di una eventuale variazione dell’orario disposta unilateralmente dal datore di lavoro, atteso che tra le finalità del part-time vi è quella di consentire al dipendente la puntuale soddisfazione di esigenze familiari e/o di altre attività di lavoro.

Valerio Pollastrini

1)      - Art.2, comma 2, del D.Lgs. n.61 del 25 febbraio 2000;

lunedì 27 ottobre 2014

Chiarimenti dei Cdl sull’incidenza nei rapporti di lavoro del nuovo Codice della Strada

Nella Circolare n.18 del 27 ottobre 2014, la Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla modifica del  codice della strada, recentemente approvata dal Governo, che, già dal prossimo 3 novembre, andrà ad impattare sulla gestione del personale dipendente.

Si tratta della disposizione che ha imposto l'obbligo di registrare alla Motorizzazione Civile e di annotare sulla carta di circolazione il nome del soggetto che dispone del veicolo aziendale per più di 30 giorni, pur non essendone intestatario.

La Circolare in commento analizza nel dettaglio le nuove procedure, illustrando gli obblighi da seguire e gli ambiti oggettivi e soggettivi di applicazione.

La novità nel dettaglio
Il nuovo comma 4-bis dell’art.94 del codice della strada (1) recita testualmente: “Fatto salvo quanto previsto dall'articolo 93, comma 2, gli atti, ancorché diversi da quelli di cui al comma 1 del presente articolo, da cui derivi una variazione dell'intestatario della carta di circolazione ovvero che comportino la disponibilità del veicolo, per un periodo superiore a trenta giorni, in favore di un soggetto diverso dall'intestatario stesso, nei casi previsti dal regolamento sono dichiarati dall'avente causa, entro trenta giorni, al Dipartimento per i trasporti, la navigazione ed i sistemi informativi e statistici al fine dell'annotazione sulla carta di circolazione, nonché della registrazione nell'archivio di cui agli articoli 225, comma 1, lettera b), e 226, comma 5. In caso di omissione si applica la sanzione prevista dal comma 3”.

La Fondazione ha tentato di analizzare la portata operativa di tale disposizione, anche alla luce di quanto specificato nella Circolare n.15513 del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, con particolare attenzione alla gestione dei casi nei quali i beni vengono concessi al proprio personale dipendente.

Data di entrata in vigore
Teoricamente, il nuovo obbligo sarebbe dovuto entrare in vigore  il 7 dicembre 2012 (2), tuttavia, la necessità di approntare le procedure informatiche necessarie all’aggiornamento dell’Archivio Nazionale dei Veicoli e dei documenti di circolazione ne ha protratto la decorrere al 3 novembre 2014.

Sul punto, i Cdl hanno richiamato quanto previsto dalla predetta Circolare n.15513, nella quale il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha evidenziato come "è fatto obbligo di annotare sulla carta di circolazione e nell’Archivio Nazionale dei Veicoli i dati relativi agli atti posti in essere a decorrere dal 3 novembre 2014.
Pertanto, in caso di omissione, saranno applicabili nei confronti dell’avente di causa le sanzioni previste dal medesimo art.94, comma 4-bis, c.d.s.. Laddove richiesto dagli utenti interessati, resta ovviamente salva la possibilità di provvedere all’aggiornamento delle carte di circolazione e dell’archivio Nazionale dei Veicoli anche con riferimento agli atti insorti anteriormente al 3 novembre 2014, ed in specie quelli posti in essere tra il 7 dicembre 2012 ed il 2 novembre 2014; in tal caso, tuttavia, l’eventuale omissione non dà luogo alla applicazione delle predette sanzioni".

Soggetti esclusi
La nota in commento ha precisato che  nuove procedure non si applicano ai veicoli in disponibilità di soggetti che effettuano attività di autotrasporto sulla base di:

- Iscrizione al REN o all’albo degli autotrasportatori;

- Licenza di trasporto di cose in conto proprio;

- Autorizzazione al trasporto di persone mediante autobus in uso proprio o mediante autovetture in uso a terzi (taxi e ncc).

Ambito oggettivo di applicazione
L’ambito di applicazione è ristretto alle carte di circolazione relative agli autoveicoli, ai motoveicoli ed ai rimorchi, la cui disponibilità non sia assoggettata al possesso di titoli autorizzativi.

I casi che rientrano in tale normativa sono:

- Variazione della denominazione dell’ente intestatario;

- Variazione delle generalità della persona fisica intestataria;

- Soggetto che abbia la temporanea disponibilità, per un periodo superiore a 30 giorni, di un veicolo intestato ad un terzo, a titolo di comodato, in forza di un provvedimento di affidamento in custodia giudiziale o di un contratto di locazione senza conducente;

- Intestazione a soggetti giuridicamente incapaci.

L’analisi prodotta dalla Fondazione si sofferma esclusivamente sul terzo dei punti appena indicati.

Soggetti esclusi
Le nuove procedure non si applicano ai veicoli in disponibilità di soggetti che effettuano attività di autotrasporto sulla base di:

- Iscrizione al REN o all’albo degli autotrasportatori;

- Licenza di trasporto di cose in conto proprio;

- Autorizzazione al trasporto di persone mediante autobus in uso proprio o mediante autovetture in uso a terzi (taxi e ncc).

Ambito soggettivo di applicazione
L’art.94, comma 4-bis, del Codice della Strada fa riferimento all’intestatario della carta di circolazione, pertanto, per tale soggetto  si deve intendere:

- Il proprietario del veicoli, ivi compreso il “trustee”, il locatore, il nudo proprietario e l’acquirente;

- Il locatario;

- L’usufruttuario.

A tale proposito, la citata  Circolare ministeriale n.15513 aveva analizzato la questione del comodato, evidenziando alcune particolarità per la gestione delle comunicazioni di cui sopra.

Giova ricordare che, ai sensi dell’art.1803 del  Codice Civile: “Il comodato è il contratto col quale una parte consegna all'altra una cosa mobile o immobile, affinché se ne serva per un tempo o per un uso determinato, con l'obbligo di restituire la stessa cosa ricevuta”.

Il comodato, dunque, è essenzialmente gratuito.

Per la questione all’oggetto, i Cdl hanno precisato quanto segue:

Requisiti del comodato per portare all’insorgenza dell’obbligo comunicativo: il comodato deve durare per un periodo superiore a 30 giorni.

Soggetto obbligato ad effettuare la comunicazione: il comodatario.

Soggetti esclusi: sono esentati da tale obbligo i componenti del nucleo familiare, purché conviventi. In tal caso è comunque possibile procedere all’aggiornamento della carta di circolazione.

Soggetti legittimati a concedere a terzi il comodato del veicolo: il proprietario (od il “trustee”), il locatario (nell’ipotesi di leasing, previo assenso del locatore), l’usufruttuario, l’acquirente (nell’ipotesi di acquisto con patto di riservato dominio, previo assenso del venditore).

Ne consegue, pertanto, che è esclusa la possibilità per il comodatario di concedere ad altro soggetto l’uso del veicolo (sub comodato).

In ogni caso, va evidenziato che, in sede di rilascio del tagliando di aggiornamento, l’UMC non procederà a verifiche in merito ai rapporti privatistici intercorrenti tra l’intestatario della carta di circolazione ed il comodatario, né in merito alla concreta possibilità per l’intestatario stesso di concedere il veicolo in comodato a terzi, limitandosi a verificare la regolarità formale delle documentazioni di cui si dirà in seguito.

Soggetti legittimati all’utilizzo del veicolo: sia persone fisiche che giuridiche.
A seguito di richiesta di aggiornamento della carta di circolazione viene emesso tagliando nel quale è annotato nome, cognome, luogo e data di nascita e residenza del comodatario, nonché scadenza del comodato stesso con apposita dicitura: “Comodato – Intestazione temporanea effettuata ai sensi dell’art. 94, comma 4-bis, c.d.s.”.

Nel caso in cui, invece, necessiti l’aggiornamento dei dati tecnici del veicolo, si dovrà provvedere al rilascio del duplicato della carta di circolazione.

Comodato di veicoli aziendali
Con riguardo a questa ipotesi, sempre la Circolare ministeriale di cui si è detto ha evidenziato che, anche se non espressamente previsti, stante “l’esigenza di tutela dei preminenti interessi di ordine pubblico cui sono preordinate le norme in esame”, ricadono nel campo di applicazione le seguenti due casistiche:

- veicoli di proprietà di case costruttrici che vengano da queste concesse in comodato, per periodi superiori ai 30 giorni, a soggetti esterni alla struttura organizzativa d’impresa (es. giornalisti, istituzioni pubbliche, ecc.) per esigenze di mercato o di rappresentanza connesse a particolari eventi;

- veicoli in disponibilità di aziende (comprese le case costruttrici) o di Enti (pubblici o privati), a titolo di proprietà, di acquisto con patto di riservato dominio, di usufrutto, di leasing o di locazione senza conducente che vengano da queste concesse, per periodi superiori a 30 giorni, in comodato d’uso gratuito ai propri dipendenti.

A questo proposito, la Fondazione ha  espresso solo due chiarimenti:

- trattandosi di veicoli aziendali, nel caso in cui gli stessi siano in disponibilità del comodante a titolo di leasing o di acquisto con patto di riservato dominio non occorre, per l’annotazione, il preventivo assenso del locatore o del venditore;

- a fronte dell’istanza viene rilasciata attestazione di avvenuta annotazione delle informazioni.

Ai fini della regolarità della circolazione non è prescritto che tale attestazione debba essere tenuta a bordo del veicolo.

A questo punto, la Circolare in commento ha suggerito le  corrette modalità di gestione dei diversi casi la cui incidenza ricade sui rapporti con il personale aziendale.

Beni concessi in uso al personale
Le casistiche che principalmente si pongono sono 3: bene concesso in uso prettamente aziendale, bene concesso in uso promiscuo e bene concesso in uso personale.

1.     Per il bene concesso in uso aziendale non è corretto parlare di contratto di comodato.

Il bene stesso viene messo a disposizione del lavoratore per l’espletamento delle proprie funzioni, è quindi un mezzo strumentale all’esecuzione della prestazione sinallagmatica.

L’utilizzo prettamente aziendale non configura un utilizzo continuativo di oltre 30 giorni, il lavoratore al rientro dal viaggio di lavoro dovrà riconsegnare il mezzo.

A maggior ragione restando un bene nelle disponibilità dell’azienda, la stessa potrà liberamente consegnare tale mezzo ad altri lavoratori. 

2.     Per il bene concesso in uso promiscuo o totalmente personale, invece, si configura l’obbligo di annotare sul libretto di circolazione il reale utilizzatore del bene.

L’obbligo di attivare tale nuova procedura vige solo per gli atti posti in essere a decorrere dal 3 novembre 2014. Ne discende che gli atti posti in essere anteriormente a tale data non soggiacciono a tale obbligo. Il problema che maggiormente si pone è quello relativo alla certezza della consegna del bene al lavoratore dato che, nelle generalità dei casi, il riconoscimento del bene in uso promiscuo avviene tramite lettera di consegna del bene che resta poi alle parti e che non ha necessità di forme particolari.

Qualcuno potrebbe obiettare che, giustamente, in tal caso l’evidenza del riconoscimento del bene in uso promiscuo viene evidenziato dall’esposizione sul Libro Unico del Lavoro del relativo fringe benefit.

Sicuramente una dimostrazione di un comodato d’uso del bene tramite tale strumento appare di difficile rilievo. Merita, quindi, procedere con una diversa formalizzazione della consegna del bene in uso promiscuo (od in uso prettamente personale), provvedendo a dare data certa al documento anteriormente al 3 novembre 2014, in modo da bypassare l’obbligo di iscrizione che scaturirebbe per gli atti posti in essere da tale data. Tale formalizzazione si andrà ad affiancare a quella già posta in essere a suo tempo col solo intento di evidenziare in modo certo che l’atto originario era stato posto in essere precedentemente al 3 novembre p.v..

3.     Beni concessi in uso al personale:

-          bene concesso in uso prettamente aziendale;

-         bene concesso in uso promiscuo;

-         bene concesso in uso personale

Beni concessi in uso ai soci
Da una prima lettura del dettato normativo e della circolare del Ministero sembrerebbe che anche tali casistiche vadano denunciate, al fine di registrare il reale utilizzatore del bene. Infatti l’art.94, comma 4-bis, del Codice della Strada, parla di reale utilizzatore diverso dall’intestatario del bene. Il socio, pur facendo parte della compagine sociale costituente la società, è soggetto terzo rispetto alla stessa.

Per converso, la stessa Circolare, al paragrafo E.1.1, ha evidenziato come tale obbligo nasca per i beni concessi ai propri dipendenti. La dizione utilizzata dall’estensore è molto stringente e, ad ora, non vi sono ulteriori chiarimenti.

La Fondazione, a tale riguardo, ritiene che nella dizione “propri dipendenti” bisognerà ricomprendere tutti quei soggetti per i quali, a diverso titolo, vige l’obbligo di iscrizione sul Libro Unico del Lavoro: collaborazioni coordinate e continuative (anche a progetto o mini co.co.co.) ed associati in partecipazione.

Relativamente ai beni concessi a soci, collaboratori e coadiuvanti familiari, a titolo precauzionale, meriterebbe procedere alla stipula di un comodato con data precedente al 3 novembre 2014 (dando allo stesso data certa) al fine di scongiurare eventuali profili sanzionatori.

Profili sanzionatori
Queste le sanzioni connesse all’inosservanza della norma:

1) Chi non osserva le disposizioni stabilite è soggetto alla sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 705 a euro 3.526;

2) La carta di circolazione è ritirata immediatamente da chi accerta le violazioni previste ed è inviata all'ufficio della Direzione centrale della MCTC, che provvede al rinnovo dopo l'adempimento delle prescrizioni omesse.

Valerio Pollastrini

1)      - così come introdotto dall’art.12, comma 1, lettera a), della Legge n.120/2010;
2)      - a seguito della pubblicazione della norma sulla G.U. del 22 novembre 2012;

Decorrenza del diritto alla retribuzione in caso di dimissioni illegittime

Nella sentenza n.22063 del 17 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che, in caso di acclarata illegittimità delle dimissioni, il diritto del lavoratore alla retribuzione decorre solamente dalla data della sentenza che abbia dichiarato la nullità dell’atto di recesso.

Nel caso di specie, un lavoratore aveva ottenuto in giudizio l’annullamento delle sue dimissioni, in quanto rassegnate in stato di incapacità.

Per tale ragione, il giudice del merito aveva condannato l’azienda a corrispondere al ricorrente i compensi dallo stesso maturati dalla data della sentenza a quella dell'effettivo ripristino del rapporto lavorativo.

Questa pronuncia, però, era stata impugnata dal  lavoratore, il quale, nell’adire la Cassazione, aveva sostenuto che le retribuzioni dovutegli non fossero solamente quelle decorrenti successivamente alla sentenza del merito, bensì, anche quelle maturate a partire dalla data in cui aveva reso le proprie dimissioni.

Investita della questione, la Suprema Corte ha confermato, tuttavia, quanto disposto nella sentenza del merito.

Gli ermellini, infatti, hanno precisato come, in simili casi, occorra tenere presente che, in virtù della natura sinallagmatica del contratto di lavoro, il diritto del dipendente a ricevere la retribuzione sorge dal momento in cui lo stesso mette a disposizione dell’azienda la propria prestazione lavorativa.

Di conseguenza, la richiesta con la quale il ricorrente aveva dedotto il proprio diritto al compenso maturato sin dalla data delle dimissioni, non può essere accolta.

In base alle suddette considerazioni, pertanto, la Cassazione ha concluso precisando che, nel caso di annullamento delle dimissioni, le retribuzioni spettano dalla data della sentenza che dichiari la loro illegittimità.

Valerio Pollastrini

Accertamento della natura autonoma o subordinata del rapporto di lavoro

Nella sentenza n.22690 del 24 ottobre 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che per accertare l’esistenza della subordinazione, dedotta da un collaboratore coordinato e continuativo, il giudice deve verificare l’eventuale sussistenza del vincolo di soggezione del lavoratore ai poteri direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro.

Nel caso di specie, un collaboratore coordinato e continuativo aveva convenuto in giudizio l’azienda committente, esponendo di avere prestato in favore della stessa un’attività di natura subordinata dal 9 ottobre 1991 al 15 febbraio 1994, con le mansioni di capo del settore ingegneria civile, e di essere stato, illegittimamente estromesso dal suo posto di lavoro.

Per tali ragioni, il ricorrente aveva chiesto al Pretore di Roma di voler dichiarare l'illegittimità del licenziamento e, conseguentemente, ordinare la sua reintegra nel posto di lavoro con la condanna al relativo risarcimento dovutogli per legge e, altresì, di voler condannare la convenuta al pagamento in suo favore delle somme dovute a titolo di tredicesima, quattordicesima mensilità e, gradatamente, di indennità di preavviso e trattamento di fine rapporto.

L'adito giudice, dopo avere ammesso ed espletato prova testimoniale,  aveva rigettato il ricorso, ma la Corte di Appello di Roma, in riforma dell'impugnata sentenza, aveva ritenuto che tra le parti fosse intercorso  un rapporto di lavoro subordinato e, pertanto, dichiarato illegittimo il recesso, aveva ordinato la reintegrazione dell'appellante nel posto di lavoro ed aveva condannato la società al risarcimento del danno, liquidato  in un'indennità pari a 36 mensilità dell'ultima retribuzione di fatto percepita.

Il giudice dell’Appello, inoltre, aveva condannato la società a corrispondere al lavoratore il pagamento dei ratei di 13ma e 14ma maturati.

Investita della questione, la Cassazione, con sentenza n.17549\2003, aveva ritenuto che la Corte del merito avesse riconosciuto la subordinazione sulla base dei soli elementi cd. sussidiari, senza valutare in concreto l'assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, e senza attribuire alcun rilievo all'iniziale volontà delle parti quale risultante dagli atti negoziali.

La Corte di Appello di L'Aquila, a cui la causa era stata rinviata, aveva quindi respinto le domande del collaboratore, il quale aveva  proposto ricorso per Cassazione, lamentando che il giudice del rinvio fosse tenuto a ricercare, alla luce del materiale istruttorio acquisito, "l'astrattamente possibile" dimostrazione dell'assoggettamento del ricorrente alle direttive e controlli del datore di lavoro.

Formulando un quesito di diritto, il ricorrente aveva chiesto alla Suprema Corte  se anche nell'ipotesi di attività svolta da un ingegnere, responsabile del servizio dell'ingegneria civile di una società di ingegneria, la dedotta natura subordinata del rapporto vada sempre indagata con l'esistenza di un assoggettamento del prestatore alle direttive ed ai controlli della datrice di lavoro, in considerazione dell'attenuazione di tale requisito in virtù del carattere "elevato" delle prestazioni e ricercando conferma del detto assoggettamento nelle manifestazioni concrete del rapporto e negli elementi accessori dell'inserzione organica del prestatore nell'organizzazione dell'impresa, dell'orario di lavoro e dell'obbligo di osservarlo, della cadenza mensile della retribuzione, del pagamento delle ferie, del pagamento degli straordinari, dell'essere egli il necessario anello di congiunzione tra il dirigente apicale dell'impresa e gli ingegneri e geometri sottoposti per la manifestazione della subordinazione in ordine a questi ultimi, dell'avere egli sempre effettuato le sue prestazioni nell’ambito dell'ufficio tecnico della società con utilizzazione delle sue attrezzature e materiali, dell'unicità del rapporto del ricorrente con la società.

In riferimento all’assoggettamento alle direttive e ai controlli della società, il ricorrente aveva contestato all’impugnata sentenza di non aver indicato le fonti del suo convincimento in relazione all'esclusione della subordinazione.

Chiamata nuovamente a dirimere la controversia, la Cassazione ha ritenuto fondate le censure mosse dal lavoratore.

Nella premessa, gli ermellini hanno ricordato che il giudizio di rinvio è necessariamente vincolato all'osservanza del principio di diritto affermato dalla pronuncia rescindente, nella quale, nella specie, la Cassazione aveva affermato con chiarezza che il giudice di appello era stato indotto a ritenere sussistente la subordinazione senza valutare l'esistenza, o meno, del requisito fondamentale del rapporto di lavoro subordinato, costituito proprio dalla "subordinazione", intesa quale assoggettamento del dipendente al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, il quale discende dall'emanazione di ordini specifici, oltre che dall'esercizio di un'assidua attività di vigilanza e controllo dell'esecuzione delle prestazioni lavorative.

Gli ermellini hanno quindi osservato  come la Corte aquilana non avesse svolto alcuna indagine od esame delle risultanze istruttorie al fine di accertare la subordinazione nel senso chiarito dalla sentenza rescindente, senza neppure adeguatamente apprezzare la specificità dell'incarico conferito al lavoratore ed il modo della sua attuazione.

Sempre la precedente pronuncia rescindente aveva poi evidenziato come la Corte di merito non avesse attribuito alcun rilievo alla chiara volontà negoziale delle parti nel senso dell'autonomia, attribuendo rilievo, in sostanza,  solo ai criteri cd. sussidiari della subordinazione, quali un compenso fisso, l'osservanza di un orario, la presenza del ricorrente nel cd. piano ferie, etc., e senza  considerare che il potere di indicazione, che il lavoratore eserciti eventualmente nei confronti di altri lavoratori, non costituisce, di per sé, una manifestazione della sua subordinazione al datore, dato che è ipotizzabile anche nell'ambito di un rapporto di lavoro autonomo, mentre diventa segnale di subordinazione solo ove il suo potere si eserciti quale subordinata esecuzione dell'assoggettamento a specifiche direttive che il datore gli abbia impartito.

Richiamando i precedenti espressi dalla giurisprudenza di legittimità, la Cassazione ha precisato che il fatto che il lavoratore abbia un proprio staff, nei confronti del quale proponga assunzioni, promozioni, aumenti di stipendio e ferie, non esprime, di per sé, subordinazione, potendo essere anche attuazione di un rapporto di lavoro autonomo (1).

Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte di Appello, l'emanazione di "direttive circa i costi e le spese",  comprovava  che il lavoratore non fosse assoggettato al potere direttivo datoriale, ben potendo qualunque committente stabilire, di volta in volta, i "tetti" dei costi o delle spese al progettista, il quale, nell'ambito della sua autonoma prestazione, doveva ovviamente tenerne conto per rispettare criteri di economicità insiti a qualsiasi progetto di opera da realizzare concretamente.

Né costituisce parametro valido per determinare la natura subordinata del rapporto la continuità per un certo periodo di tempo  della prestazione lavorativa di progettista, atteso che la continuità della prestazione coordinata e prevalentemente personale riconducibile alla natura del rapporto è svincolata dall'occasione in cui si manifesta la necessità dell'incarico professionale, assumendo rilevanza la causa dell'incarico stesso (2).

Tornando all’impugnata sentenza, la Cassazione ha rilevato che la Corte di merito si era limitata a svolgere delle generiche considerazioni sulla distinzione tra lavoro subordinato ed autonomo, senza alcun effettivo riferimento al caso di specie.

In sostanza, detta sentenza non aveva in alcun modo esaminato, come richiesto dalla pronuncia rescindente, le risultanze di causa, limitandosi a discettazioni generali sulla autonomia e subordinazione, deducendo, senza una effettiva e specifica motivazione, che la posizione del lavoratore fosse compatibile con un rapporto di lavoro subordinato.

Per tale ragione gli ermellini, accolto il ricorso, hanno cassato la sentenza impugnata, con rinvio, per l'ulteriore esame della controversia, ad altro giudice in dispositivo indicato.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.15001/2000;
2)      - Cass., Sentenza n.2120/2001;