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mercoledì 23 ottobre 2013

Legittimo il licenziamento del dipendente che usufruisca delle ferie senza autorizzazione


Nella sentenza n.22869 dell’8 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un dipendente straniero che aveva abbandonato il posto di lavoro per recarsi nel Paese di origine nonostante il datore di lavoro si fosse rifiutato di concedergli le ferie.
Nel procedimento di merito le dichiarazioni rese dai testi e dal legale rappresentante dell’azienda avevano evidenziato come il lavoratore avesse spontaneamente lasciato il luogo di lavoro senza alcuna autorizzazione. Tale circostanza, unitamente ad altri elementi, quali l’assenza della documentazione doganale  predisposta per i lavoratori che rientrano nel Paese di origine per ferie, avevano indotto la Corte territoriale ad escludere che l’assenza  fosse stata autorizzata.

Una simile analisi è stata ritenuta corretta dalla Suprema Corte che, pertanto, ha confermato la legittimità del recesso.

Valerio Pollastrini

Criteri per accertare lo scarso rendimento del lavoratore


Nella sentenza n. 23172 dell'11 ottobre 2013, la Corte di Cassazione ha chiarito che l’eccessiva lentezza del dipendente nell’esecuzione della propria prestazione lavorativa ne legittima il licenziamento. Una simile condotta è, infatti, potenzialmente idonea a ledere  irreparabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro.

Nel caso di specie,  oltre alla lentezza nell’assolvimento dei compiti assegnati, erano state accertate, ai danni del dipendente, frequenti irreperibilità, il rifiuto di utilizzare il computer, l’incapacità di lavorare in gruppo e l’inosservanza delle sanzioni disciplinari ricevute.
In linea generale,  ciascuna prestazione lavorativa deve essere eseguita con la professionalità e la diligenza richieste dal tipo di attività svolta.

Ai fini della legittimità  del licenziamento per scarso rendimento è indispensabile accertare   se l’insufficiente produttività del dipendente sia dovuta alla mancanza di impegno oppure a fattori contingenti, che esulino quindi dalle singole capacità.

In base al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, per dimostrare la condotta colposa del dipendente è necessario individuare preventivamente degli oggettivi livelli di prestazione che il datore di lavoro può legittimamente esigere.

Si tratta di un’analisi valutativa che deve tener conto delle prestazioni medie dei lavoratori adibiti alle medesime mansioni.

Un’evidente sproporzione tra gli obiettivi fissati nei programmi di produzione e quelli effettivamente raggiunti costituisce lo strumento utile a dimostrare la negligenza del lavoratore.

Valerio Pollastrini

Legittimo svolgere prestazioni occasionali durante la malattia se non ne pregiudicano la guarigione


Il caso è quello di un lavoratore che, durante l’assenza dal  lavoro per malattia, aveva svolto per tre giorni alcune prestazioni occasionali nell’Agenzia Immobiliare di un parente. Per tale motivo era stato licenziato.

Nella sentenza n.23365 del 15 ottobre 2013 la Cassazione, confermando la sentenza della Corte territoriale,  ha ritenuto illegittimo il licenziamento. L’attività saltuaria svolta in concomitanza con la malattia è stata ritenuta  del tutto compatibile con le condizioni fisiche del lavoratore e non aveva pregiudicato i tempi di guarigione.

Dalle risultanze istruttorie era stato escluso che, nel caso di specie, il lavoratore avesse violato i canoni di correttezza e buona fede. La malattia era stata accertata e le marginali attività espletate non solo non pregiudicavano il processo di guarigione, ma potevano, altresì, avere un'incidenza funzionale e positiva per la stessa guarigione.

Valerio Pollastrini

sabato 12 ottobre 2013

Elementi valutativi per l’accertamento del mobbing


Nella sentenza n. 19814 del 28 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha compiuto una puntuale analisi degli elementi sui quali deve essere incentrata la valutazione del giudice di merito affinché possa dirsi configurato il reato di mobbing nei confronti del lavoratore.

Il caso di specie è quello di un’ insegnante che  si era rivolta al Tribunale di Frosinone, sostenendo di avere subito un prolungato mobbing manifestatosi in 66 episodi e chiedendo la condanna del Ministero dell'Istruzione, del Centro Servizi amministrativi di Frosinone e della direttrice dell'istituto scolastico.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma avevano ritenuto la domanda priva di fondamento.

In particolare, il giudice di appello aveva osservato che  la vicenda era stata rappresentata con molte valutazioni ed affermazioni personali irrilevanti ai fini della decisione, come pure irrilevante era la conflittualità, sicuramente sussistente, tra l'insegnante e la direttrice scolastica.

Sul punto, mancava infatti la prova dell’intento persecutorio e vessatorio.

La direttrice, ritenendo di possedere una maggiore preparazione,  voleva assumere all'interno del corpo insegnanti il ruolo di "garante" delle regole, suscitando più volte delle reazioni accese ed esasperate della lavoratrice, cosa che,  talvolta, durante il collegio dei docenti, aveva causato la protrazione delle riunioni e la conseguente irritazione delle colleghe.

Dall’ analisi analitica del ricorso era emerso che delle sessantasei circostanze poste a base della domanda, molte erano risultate irrilevanti o addirittura incomprensibili, altre costituivano una giustificata risposta ai comportamenti inadeguati tenuti dall’insegnante, mentre altre, infine, esprimevano un'interpretazione soggettiva di determinati fatti.

Anche le dichiarazioni dei testimoni avevano escluso l'esistenza di mobbing, evidenziando, invece, la tendenza dell'appellante all'eccessiva personalizzazione, alla vis polemica, alla continua censura dell'operato della direttrice ed anche delle colleghe.

La consulenza medico-legale d'ufficio aveva inoltre evidenziato un modesto danno biologico, stimato nel 5%, con una valore rientrante nel concetto generale di sofferenza endogena, verosimilmente ascrivibile a tratti della personalità che condizionavano la percezione che l’insegnante aveva delle proprie vicende lavorative.

L'insegnante aveva proposto ricorso per cassazione, ricordando quanto disposto dell'art. 2087 cod. civ. a proposito dell’obbligo in capo al datore di lavoro di adottare nell'impresa tutte le misure occorrenti per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Per la ricorrente anche le "costrittività organizzative", ossia le deficienze della struttura organizzativa, sarebbero suscettibili di arrecare danni al lavoratore a prescindere da qualsivoglia intento vessatorio.

La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha ricordato il costante orientamento interpretativo di legittimità che qualifica come “mobbing” la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico nei confronti del lavoratore che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica.

Si tratta, in particolare, di atti dai quali può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Perché una simile condotta possa dirsi configurata, è necessario valutare i seguenti elementi:

-  la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

-  l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

- il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;

- la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

Per la Cassazione, i giudici di merito,  dopo un dettagliato esame dei singoli episodi, avevano correttamente escluso  l'esistenza di atti di contenuto vessatorio, rilevando, altresì, come i fatti denunciati, molti dei quali comunque irrilevanti o rimasti indimostrati, avevano assunto una valenza lesiva solo nella percezione soggettiva della ricorrente.

Sia le risultanze testimoniali, che gli accertamenti medico-legali, avevano evidenziato un atteggiamento dell’insegnante tendente a personalizzare come ostile ogni avvenimento.

Le iniziative assunte dalla direttrice, dovevano quindi essere interpretate all’interno di un simile contesto e spesso  costituivano veri e propri atti dovuti in presenza di comportamenti tenuti dalla ricorrente contrari alle regole organizzative dell'Istituto  e non consoni al ruolo ricoperto.

Valerio Pollastrini

venerdì 11 ottobre 2013

Inidoneità lavorativa del dipendente – Discordanza tra la diagnosi del medico competente e quella del Ctu


Nella sentenza n.23068 del 10 ottobre 2013 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla discordanza della diagnosi del medico competente con quella del consulente tecnico relativa all’idoneità fisica di un lavoratore allo svolgimento delle proprie mansioni.

La Corte ha ricordato che, in caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire  quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile.

Il caso è quello di un dipendente che, in seguito al parere di inidoneità al lavoro, formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica, era stato licenziato per sopraggiunta impossibilità fisica allo svolgimento della prestazione.

Il lavoratore aveva contestato il recesso  presso il Tribunale di Lodi che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, disponendo la sua reintegrazione nel posto di lavoro.

Contro questa decisione l’azienda aveva ricorso in appello presso la Corte di Milano.

Il processo di appello
La Corte di Appello di Milano aveva rigettato l’impugnazione proposta dal datore di lavoro, condividendo  il convincimento del primo giudice sulla mancanza del carattere di decisività del parere espresso dal medico competente di cui alla procedura prevista dal decreto legislativo n. 626 del 1994.

Per i giudici di merito l’attendibilità di un simile parere può sempre essere verificata attraverso  il sindacato giudiziario. Dopo che la consulenza medico-legale d’ufficio aveva accertato che l’inidoneità fisica del dipendente fosse da escludere con la semplice  adozione di talune cautele da parte della datrice di lavoro atte ad evitare rischi per la salute del lavoratore, per la Corte non restava che confermare l’illegittimità del provvedimento di licenziamento.

L’azienda aveva quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza di appello, lamentando la falsa applicazione della norma di cui all’art. 17, comma quarto, del decreto legislativo n. 626 del 19/9/1994, assumendo che il lavoratore non aveva impugnato, innanzi alla Asl territorialmente competente, il parere di inidoneità al lavoro, formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica, entro il termine di trenta giorni previsto da tale disposizione di legge. Secondo la tesi datoriale tale parere era pertanto divenuto incontestabile, precludendo al dipendente la possibilità di proporre domanda giudiziaria intesa a contestare le risultanze dell’accertamento sanitario il cui esito era vincolante per l’azienda.

La pronuncia della Cassazione
Nel ritenere infondato il ricorso dell’azienda, la Cassazione ha ricordato la sentenza n. 420 del 14/12/1998 della Corte Costituzionale che aveva chiarito come la dichiarazione di inidoneità fisica formulata al termine delle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto dei lavoratori non ha carattere definitivo, potendo il giudice  pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio.

Optando per l’immediato licenziamento del dipendente, anziché richiedere la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, il datore di lavoro aveva agito a suo rischio.

La Cassazione ha poi ricordato alcuni  precedenti giudizi di legittimità (1) nei quali aveva affermato   che “nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire  quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile, atteso che le norme che prevedono la possibilità di controllo della malattia, nell’affidare la relativa indagine ad organi pubblici per garantirne l’imparzialità, non hanno inteso attribuire agli atti di accertamento compiuti da tali organi una particolare ed insindacabile efficacia probatoria che escluda il generale potere di controllo del giudice”.

La Corte di Appello aveva rispettato il richiamato principio sancito in sede di legittimità, là dove, in virtù del parere tecnico del consulente d’ufficio, aveva adeguatamente motivato  il proprio convincimento sull’ idoneità del lavoratore allo svolgimento delle sue mansioni.

Dopo un esame fisico del dipendente e l’ispezione del luogo di lavoro il Ctu aveva ritenuto il lavoratore idoneo allo svolgimento delle mansioni a cui era stato addetto. Dagli esami del caso non  erano emerse patologie che  imponessero la sospensione in via precauzionale del lavoratore, mentre  era stato ritenuto necessario un ausilio meccanico per il trasporto dei pesi o quello di un altro lavoratore per carichi superiori ai quindici chilogrammi, onde evitare il sovraccarico della colonna vertebrale del ricorrente.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva evidenziato che, in materia dì movimentazione di carichi, esistono già disposizioni a tutela dei lavoratori sottoposti ad attività che comportino rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari, che impongono l’uso di mezzi appropriati e dì attrezzature meccaniche.

Per tali motivi la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, condannando il datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio liquidate nella misura di 4.000,00 € per compensi professionali e 50,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

1 - Cass. Sez. lav. n. 2953 del 4/4/1997;  Cass. Sez. lav. n. 6564 dell’11/5/2001;

L’indennità sostitutiva delle ferie spetta indipendentemente dalla responsabilità del datore di lavoro


Con la sentenza n.16735 del 4 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha chiarito che, alla cessazione del rapporto di lavoro, il dipendente ha diritto a percepire l’indennità economica per ferie non godute  anche se  non abbia provveduto a richiederne la fruizione in costanza del rapporto.

La Suprema Corte ricorda  quanto disposto sia dall’art.36 della nostra Costituzione che dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE a proposito del carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, la cui funzione è quella di consentire al lavoratore alcuni diritti primari come il recupero delle proprie energie psicofisiche, la possibilità di dedicarsi al meglio alle relazioni sociali e familiari, nonché la partecipazione ad attività ricreative e simili.

Ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, al lavoratore spetta quindi  la relativa indennità sostitutiva per compensare il danno costituito dalla perdita del diritto al riposo dalla prestazione lavorativa.

Valerio Pollastrini

giovedì 10 ottobre 2013

Responsabilità del datore di lavoro per l’inadeguata formazione dei dipendenti sulla sicurezza


Nel caso di specie, il Tribunale aveva condannato un imprenditore al pagamento della contravvenzione di cui all'art. 22 del D.Lgs n. 626/1994 perché aveva omesso di fornire adeguate informazioni sulla sicurezza ad un lavoratore straniero, per il quale, anche in considerazione del suo status, due incontri di quindici minuti ciascuno non erano stati ritenuti sufficienti.

Nella sentenza n.40605 del 1° ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha ribadito  la responsabilità del datore di lavoro per l'omessa predisposizione di adeguate misure antinfortunistiche perpetrata attraverso l’insufficiente formazione sulla sicurezza fornita ai propri dipendenti.

La Suprema Corte nel sottolineare come il giudice del merito avesse giudicato insufficienti due soli incontri di quindici minuti ha rilevato  che sarebbe stato onere del datore di lavoro accertare se le "procedure scritte" di movimentazione consegnate ai lavoratori fossero state comprese e recepite dagli stessi e in particolare da quelli stranieri.

Valerio Pollastrini

Legittimo adibire il dipendente a mansioni inferiori per salvaguardarne il posto di lavoro


Per la legittimità di un licenziamento irrogato per sopravvenuta inidoneità fisica del lavoratore non è sufficiente la reale sopraggiunta incapacità del dipendente allo svolgimento delle proprie attività. Il datore di lavoro deve, altresì, provare l’impossibilità di collocare il prestatore di lavoro ad altre mansioni compatibili con il suo stato di salute, anche se inferiori.
A ricordarlo è la Corte di Cassazione che, nella sentenza n.18535 del 2 agosto 2013, ha ribadito che spetta al datore di lavoro fornire in giudizio la prova delle attività svolte in azienda, della relativa inidoneità fisica del lavoratore e dell'impossibilità di adibirlo ad esse per ragioni di organizzazione tecnico-produttiva.
Secondo la Corte la possibilità di adibire il dipendente a mansioni inferiori al fine di salvaguardarne il posto di lavoro presuppone necessariamente il consenso dell'interessato.
L'orientamento giurisprudenziale favorevole in questi casi alla validità del cd. "patto di dequalificazione" (1),  si basa, infatti, sulla premessa che in realtà non si tratta di una deroga all'art. 2103 c.c. che sancisce il divieto inderogabile alla variazione in peius delle mansioni del lavoratore, ma di un adeguamento del contratto alla nuova situazione di fatto. Un adeguamento che, però, deve essere sorretto dal consenso dello stesso lavoratore.
La Suprema Corte ha poi richiamato un’altra precedente pronuncia di legittimità (2) nella quale aveva affermato che, ove il lavoratore, nell’atto di costituzione nella prima occasione processuale non abbia manifestato la disponibilità ad essere adibito anche a mansioni eventualmente inferiori, non può poi lamentare che il datore di lavoro non abbia completamente assolto all'onere probatorio su di lui incombente.
La  Corte ha concluso, pertanto, che il datore di lavoro è tenuto a giustificare oggettivamente il recesso per inidoneità sopravvenuta, anche con l'impossibilità di assegnare il lavoratore a mansioni non equivalenti, nel solo caso in cui quest’ultimo abbia, in qualunque forma, manifestato la sua disponibilità ad accettarle.

Valerio Pollastrini

La sola permanenza in casa del presunto datore di lavoro non è sufficiente a provare un rapporto di lavoro domestico


Una colf  aveva denunciato un periodo di lavoro domestico superiore rispetto a quello formalizzato dal datore di lavoro e si era rivolta al Giudice del lavoro chiedendo che le venissero riconosciute  le differenze retributive relative al periodo aggiuntivo.
Con la sentenza n.22399 del 1° ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha respinto le pretese della ricorrente, confermando, in sostanza, la motivazione addotta dai giudici  di merito che, in relazione alle prove testimoniali attestanti la presenza della lavoratrice presso il domicilio del datore di lavoro, avevano ritenuto che tale circostanza non fosse, di per sé, sufficiente ad affermare l’esecuzione di una prestazione lavorativa per l’ulteriore periodo di permanenza.

Valerio Pollastrini

Se le assenze per malattia sono causate da mobbing, il superamento del periodo di comporto non legittima il licenziamento


Nella sentenza n.22538 del 2 ottobre 2013, la Corte di Cassazione, dopo aver preso atto del parere del ctu sulla riconducibilità delle assenze del lavoratore ai reiterati comportamenti vessatori posti in essere nei suoi confronti dal datore di lavoro, ha ritenuto illegittimo il recesso intimato al dipendente per superamento del periodo di conservazione del posto in caso di malattia.

Il fatto
Un dipendente, licenziato per il superamento del periodo di comporto, aveva impugnato il recesso denunciando le reiterate condotte vessatorie che il datore di lavoro aveva attuato nei propri confronti attraverso diverse modalità, quali ripetuti richiami disciplinari non giustificati, continue visite fiscali nei periodi di malattia e costanti pressioni psicologiche che, con il tempo, avevano causato gravi conseguenze al suo equilibrio psicofisico.

I giudizi di merito
Sia il Tribunale, nel corso del primo grado di giudizio, che la Corte di Appello, avevano accertato che la condotta attuata dal datore di lavoro nei confronti del ricorrente fosse stata discriminatoria.

La malattia accusata del lavoratore doveva pertanto ricondursi alle problematiche di natura psicologica causategli dalla condotta datoriale e, pertanto, l’assenza non poteva essere imputabile al periodo di comporto. Di conseguenza, il licenziamento era stato dichiarato illegittimo.

La società aveva quindi proposto ricorso in Cassazione, lamentando che il giudice del merito si fosse ripetutamente sostituito al lavoratore nell'individuazione della prova, disponendo altresì la ctu che avrebbe confermato il collegamento tra assenze per malattia e vessazioni psicologiche subite. Secondo il datore di lavoro in tal modo il giudice si sarebbe spinto oltre l'esercizio di meri poteri esplorativi, sostituendosi di fatto al ricorrente.

La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso la Cassazione ha ricordato come "l'esigenza di contemperare il principio dispositivo con quello della ricerca della verità materiale, allorché le risultanze di causa offrano significativi spunti di indagine" sia una prerogativa del rito del lavoro, legittima anche nel corso del secondo grado.

La Suprema Corte ha dunque concordato con le risultanze dei procedimenti di merito, confermando l’illegittimità del licenziamento irrogato al lavoratore.

Valerio Pollastrini

martedì 8 ottobre 2013

Esclusa la responsabilità solidale del committente se il licenziamento viene irrogato successivamente al termine dell’appalto


Con la sentenza n.22728 del 4 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha escluso la responsabilità solidale dell’azienda committente per i crediti  del dipendente dell’azienda appaltatrice maturati  successivamente alla cessazione del contratto di appalto.

Il fatto
Il dipendente di un’azienda appaltatrice,  che in seguito al proprio licenziamento non aveva ricevuto dal datore di lavoro l’indennità di mancato preavviso, aveva richiesto alla società committente il pagamento di quanto dovutogli a tale titolo.

I giudizi di merito
Sia il Tribunale di Gela che la Corte di Appello di Caltanisetta avevano rigettato la domanda del lavoratore, disponendo la prosecuzione del giudizio nei confronti del solo datore di lavoro.

In particolare, la Corte di Appello aveva spiegato  che, nel caso di specie, non ricorrevano  i presupposti per una responsabilità solidale  della società committente, in quanto il contratto d’appalto intercoso tra le imprese convenute era cessato ancor prima che l’appellante venisse licenziato dall’appaltatrice,  per cui il trattamento retributivo preteso non era sorto nella vigenza del predetto contratto, bensì era  maturato  in conseguenza dell’autonoma scelta della società datrice di lavoro  di interrompere in tronco il rapporto.

Inoltre, il ricorrente non aveva addotto alcun elemento teso a provare che l’atto di recesso era dipeso dalla cessazione dell’appalto e, in difetto di qualsiasi collegamento temporale o causale tra il licenziamento e l’appalto, doveva essere esclusa una possibile responsabilità solidale dell’impresa committente.

Il lavoratore si era quindi rivolto alla Corte di Cassazione, sostenendo che l’indennità sostitutiva del preavviso avesse natura retributiva e, come tale, una qualità giuridica idonea a ritenere applicabile nella fattispecie la responsabilità solidale delle imprese convenute, rispettivamente committente ed appaltatore dei lavori in cui era stato impiegato.

L’art. 29 del D.Lgs. n. 276/03, nel sancire il suddetto regime di responsabilità, si riferisce ai trattamenti retributivi a carico dei soggetti sopra indicati. Quindi, secondo il ricorrente, a nulla può valere quanto affermato dalla Corte territoriale circa il fatto che il contratto d’appalto era cessato precedentemente alla risoluzione del rapporto lavorativo, atteso che il fatto generatore del regime di responsabilità solidale era rappresentato, nel caso in esame, proprio dall’esistenza dell’appalto e dall’avvenuta esecuzione della prestazione lavorativa nell’ambito dello stesso.

Il ricorrente lamentava, inoltre, l’insufficienza e  la contraddittorietà della motivazione con la quale i giudici di merito avevano escluso l’applicabilità del regime di responsabilità solidale attraverso l’assunto che il credito vantato a titolo di indennità sostitutiva del mancato preavviso non era causalmente riconducibile alla cessazione del contratto d’appalto.

Il breve intervallo temporale trascorso tra la cessazione dell’appalto e l’irrogazione del licenziamento, a detta del lavoratore, deponeva invece in favore un collegamento causale dell’atto di recesso alla cessazione dell’appalto.

La pronuncia della Cassazione
Le motivazioni addotte dal lavoratore quale fondamento del proprio ricorso sono state ritenute infondate dalla Suprema Corte.

Invero, la questione della natura giuridica dell’indennità spettante a titolo di mancato preavviso del licenziamento, che il ricorrente ritiene essere retributiva al fine di sostenere la tesi della sua riconducibilità ai trattamenti per i quali è prevista la responsabilità solidale del committente e dell’appaltatore nei contratto d’appalto di opere o di servizi,  non inficia la validità della “ratio decidendi”, vale a dire la mancanza della prova dell’esistenza di un nesso causate tra il recesso e l’appalto atto a giustificare l’applicabilità del suddetto regime di responsabilità.

Al riguardo, la Cassazione ha osservato come la Corte territoriale aveva avuto modo di verificare che il contratto d’appalto era cessato ancor prima che il rapporto di lavoro venisse autonomamente risolto dalla società datrice di lavoro per ragioni non risultate connesse all’esecuzione dell’appalto intercorso in precedenza tra quest’ultima e la società committente.

Ne consegue la correttezza della decisione in ordine all’affermazione che l’indennità di mancato preavviso del licenziamento non era esigibile nei confronti dell’impresa committente,  dal momento che tale indennità era maturata  successivamente alla cessazione del contratto di appalto, per cui è altrettanto logica la motivazione impugnata nella parte in cui è precisato che il credito in questione non derivava dalla prestazione lavorativa resa nell’esecuzione del contratto d’appalto, bensì dall’autonoma scelta imprenditoriale del datore di lavoro, successiva alla cessazione dell’appalto, di non avvalersi più dell’attività lavorativa del dipendente, interrompendo, in tal modo, il rapporto in tronco.

La Suprema Corte ha ritenuto altresì corretto  il rilievo del giudice di merito sul fatto che il credito invocato non era temporalmente ed eziologicamente connesso alla cessazione del contratto d’appalto e che dalla stessa motivazione del licenziamento non emergeva alcun collegamento causale tra lo stesso ed il contratto d’appalto intercorso tra le due società. A ciò aggiungasi l’assenza di qualunque prova utile a configurare il recesso quale diretta conseguenza  della cessazione del contratto d’appalto.

Per tali motivi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura di 1.550,00 € per compensi professionali e  50,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

Il licenziamento della lavoratrice in maternità è legittimo soltanto in caso di cessazione dell’attività aziendale


Nella sentenza n.18363 del 31 luglio 2013, la Corte di Cassazione è intervenuta sulle deroghe al divieto di licenziamento della lavoratrice madre.

L’art.54 del D.Lgs n.151/2001 vieta il licenziamento della lavoratrice dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino. Il terzo comma, lettera b), dello stesso articolo prevede una specifica deroga a tale divieto  nell’ipotesi di cessazione dell’attività dell’azienda alla quale la lavoratrice è addetta.

Si tratta di una deroga che per la Cassazione è insuscettibile di interpretazione estensiva ed analogica  per ipotesi come la soppressione di un ramo d'azienda o di un reparto autonomo.

Per la non applicabilità del divieto di licenziamento, la Suprema Corte ha quindi ribadito che devono ricorrere entrambe le condizioni previste dalla citata lettera b), ovvero che il datore di lavoro sia un'azienda, e che vi sia stata cessazione dell'attività.

Ne consegue che solamente in caso di cessazione dell'attività dell'intera azienda è possibile  licenziare la lavoratrice madre.
 
Valerio Pollastrini

Le spese per la pulizia della divisa del dipendente sono a carico del datore di lavoro


Nella sentenza n.19759 del 26 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha chiarito che ricade sul datore di lavoro l’onere di sostenere le spese di lavaggio della divisa del dipendente.

La Corte è intervenuta sulla questione in seguito al ricorso di un’azienda impegnata in servizi di mensa presso terzi che, in uno specifico contratto di appalto, si era impegnata a dotare il personale di cuffie, grembiuli e divise sempre pulite.

Tale obbligazione contrattuale, a detta della Cassazione, imponeva al datore di lavoro l’automatico obbligo  di sopportare il costo relativo alle pulizie delle divise dei dipendenti.

La Suprema Corte ha ricordato  la validità, ai sensi dell’art.1411 cod. civ., della stipulazione di un contratto a favore di terzi, purché lo stipulante vi abbia interesse. Nel caso di specie è indubbio che la società appaltante, nell’esplicitare all’interno del contratto di appalto l’onere  dell’appaltatrice di  far indossare ai lavoratori una divisa di lavoro  ‘sempre pulita’, palesava  il proprio interesse al rispetto di questa condizione. Da ciò deriva, pertanto, l’obbligo del datore di lavoro di sostenere le spese di lavaggio o di rimborsare al lavoratore quelle sostenute per tale scopo.

Valerio Pollastrini

domenica 6 ottobre 2013

Il datore di lavoro non può essere responsabile per l’infortunio del dipendente causato da un rischio non specifico


Nella sentenza n.39491 del 24 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha ribadito che il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile dell’infortunio del dipendente  causato da manomissioni sul luogo di svolgimento della prestazione.

Il caso di specie riguarda l’infortunio accaduto al dipendente di una società appaltatrice  dei lavori di nettezza urbana e di pulizia dell'area mercatale. Il lavoratore si trovava nei pressi di un cancello privo del perno di fine corsa e spostando una delle ante scorrevoli per effettuare le pulizie aveva determinato la fuoriuscita di detta anta dal binario che lo aveva travolto causandogli gravi lesioni con compromissione della colonna vertebrale.
Il giudizio di merito aveva ritenuto il datore di lavoro responsabile dell’infortunio perché colpevole di aver consentito che il dipendente lavorasse in prossimità di un luogo non sicuro.

Nonostante sia il D.Lgs n.626/1994, in vigore all’epoca dei fatti, che l’attuale T.U n.81/2008 impongano al datore di lavoro l’obbligo di garantire il suo dipendente dai rischi di infortuni connessi all’attività da svolgere e, quindi, di garantire la sicurezza dei luoghi di lavoro, la Corte di Cassazione non ha condiviso quanto disposto dal giudice di merito a proposito della responsabilità del datore di lavoro nell’infortunio accaduto al lavoratore.

Per la Corte di Appello il datore di lavoro avrebbe dovuto controllare l'efficienza degli impianti con cui i suoi lavoratori venivano a contatto. Il particolare difetto del cancello  rendeva percepibile, a detta del giudicante, il rischio di ribaltamento e quindi l’omissione del controllo non aveva consentito di evitare l'evento.

L’analisi dei fatti aveva evidenziato che il cancello, in origine, non presentava alcun vizio costruttivo, condizione provata dal proscioglimento dell’installatore. Da ciò la Cassazione evinceva che l’anomalia di detto cancello fosse frutto di una manomissione che non era stato possibile datare.

Per la Suprema Corte, pertanto, l’impossibilità di stabilire l’epoca in cui si era verificata la manomissione vizia le argomentazioni compiute dai giudici di merito tese a sostenere la responsabilità del datore di lavoro.
Inoltre, il rischio connesso al mal funzionamento del cancello, non può essere definito quale "rischio specifico" dell’attività. Per "rischi specifici", infatti, devono intendersi solo quelli riguardo ai quali sono dettate precauzioni e regole richiedenti una specifica competenza tecnica settoriale, generalmente mancante in chi opera in settori diversi.

Per la Cassazione nel caso di specie il rischio era proprio degli addetti alla manutenzione ed alla custodia del mercato e non certo dell'appaltatore del servizi di nettezza urbana. Per tale motivo il datore di lavoro non poteva ritenersi onerato di un quotidiano controllo della funzionalità della barriera, controllo che peraltro, in un'impresa di medie dimensioni, grava sul preposto operante "sul campo" e non sull'imprenditore a cui carico non possono esser posti oneri di prevenzione di rischi non specifici della sua attività, occulti e solo occasionalmente manifestatisi.

Valerio Pollastrini

Legittima la sanzione irrogata al lavoratore che si rifiuti di collaborare con il collega


Con la sentenza n.22076 del 26 settembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo il provvedimento sospensivo adottato nei confronti del dipendente che, venendo meno all'obbligo di diligenza, si era rifiutato di collaborare con la collega incitandola a non produrre.

Ai sensi dell’articolo 2104 del codice civile il prestatore di lavoro è chiamato ad utilizzare la diligenza richiesta sia dalla natura della prestazione dovuta che  dall'interesse dell'impresa. Ciò comporta l’obbligo per il lavoratore di  osservare le disposizioni impartite dall’imprenditore o dai superiori gerarchici per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro.

Dall’obbligo di diligenza deriva, a carico del lavoratore, l’ulteriore obbligo di collaborazione all’interno dell’azienda. Si tratta di doveri insiti nel rapporto di lavoro che impongono al dipendente, non soltanto di porre formalmente a disposizione dell'imprenditore le sue energie lavorative, ma anche la conformazione del suo comportamento verso modalità tali da consentire al datore di lavoro l’utilizzo proficuo delle stesse.

Il caso di specie si riferisce ad un dipendente di  “Trenitalia Spa” che, dopo essere giunto in ritardo allo sportello della biglietterie, in seguito ad alcune anomalie riscontrate nel sistema di vendita computerizzato aveva omesso di attivare il sistema di vendita manuale dei biglietti invitando una collega, addetta al servizio, a fare altrettanto.

Dopo essersi allontanato per recarsi al bar, al suo rientro il lavoratore aveva avuto un diverbio con la collega, pronunciando nei suoi confronti frasi offensive dell'onore e della dignità della persona.

La Corte di Appello aveva accertato che non vi fosse stata alcuna provocazione, lamentata invece dal lavoratore per giustificare la sua reazione verbale nei confronti della collega. Quest’ultima, infatti, si era limitata solamente ad osservare i doveri previsti dal suo ufficio, mentre il ricorrente non aveva fatto altrettanto ed aveva addirittura invitato la collega a violarli.

In considerazione del dovere di collaborazione, rientrante nell'alveo del concetto di diligenza richiesto dal richiamato art. 2104 cod. civ., la Cassazione ha ritenuto pienamente legittima la richiesta di collaborazione che la collega aveva rivolto al  ricorrente. L’immotivato rifiuto di quest’ultimo costituiva, pertanto, una  violazione disciplinare idonea ad integrare l'ipotesi della provocazione nel contesto delle relazioni intersoggettive tra colleghi.

Valerio Pollastrini