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sabato 12 ottobre 2013

Elementi valutativi per l’accertamento del mobbing


Nella sentenza n. 19814 del 28 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha compiuto una puntuale analisi degli elementi sui quali deve essere incentrata la valutazione del giudice di merito affinché possa dirsi configurato il reato di mobbing nei confronti del lavoratore.

Il caso di specie è quello di un’ insegnante che  si era rivolta al Tribunale di Frosinone, sostenendo di avere subito un prolungato mobbing manifestatosi in 66 episodi e chiedendo la condanna del Ministero dell'Istruzione, del Centro Servizi amministrativi di Frosinone e della direttrice dell'istituto scolastico.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello di Roma avevano ritenuto la domanda priva di fondamento.

In particolare, il giudice di appello aveva osservato che  la vicenda era stata rappresentata con molte valutazioni ed affermazioni personali irrilevanti ai fini della decisione, come pure irrilevante era la conflittualità, sicuramente sussistente, tra l'insegnante e la direttrice scolastica.

Sul punto, mancava infatti la prova dell’intento persecutorio e vessatorio.

La direttrice, ritenendo di possedere una maggiore preparazione,  voleva assumere all'interno del corpo insegnanti il ruolo di "garante" delle regole, suscitando più volte delle reazioni accese ed esasperate della lavoratrice, cosa che,  talvolta, durante il collegio dei docenti, aveva causato la protrazione delle riunioni e la conseguente irritazione delle colleghe.

Dall’ analisi analitica del ricorso era emerso che delle sessantasei circostanze poste a base della domanda, molte erano risultate irrilevanti o addirittura incomprensibili, altre costituivano una giustificata risposta ai comportamenti inadeguati tenuti dall’insegnante, mentre altre, infine, esprimevano un'interpretazione soggettiva di determinati fatti.

Anche le dichiarazioni dei testimoni avevano escluso l'esistenza di mobbing, evidenziando, invece, la tendenza dell'appellante all'eccessiva personalizzazione, alla vis polemica, alla continua censura dell'operato della direttrice ed anche delle colleghe.

La consulenza medico-legale d'ufficio aveva inoltre evidenziato un modesto danno biologico, stimato nel 5%, con una valore rientrante nel concetto generale di sofferenza endogena, verosimilmente ascrivibile a tratti della personalità che condizionavano la percezione che l’insegnante aveva delle proprie vicende lavorative.

L'insegnante aveva proposto ricorso per cassazione, ricordando quanto disposto dell'art. 2087 cod. civ. a proposito dell’obbligo in capo al datore di lavoro di adottare nell'impresa tutte le misure occorrenti per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Per la ricorrente anche le "costrittività organizzative", ossia le deficienze della struttura organizzativa, sarebbero suscettibili di arrecare danni al lavoratore a prescindere da qualsivoglia intento vessatorio.

La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha ricordato il costante orientamento interpretativo di legittimità che qualifica come “mobbing” la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico nei confronti del lavoratore che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica.

Si tratta, in particolare, di atti dai quali può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.

Perché una simile condotta possa dirsi configurata, è necessario valutare i seguenti elementi:

-  la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;

-  l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;

- il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;

- la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.

Per la Cassazione, i giudici di merito,  dopo un dettagliato esame dei singoli episodi, avevano correttamente escluso  l'esistenza di atti di contenuto vessatorio, rilevando, altresì, come i fatti denunciati, molti dei quali comunque irrilevanti o rimasti indimostrati, avevano assunto una valenza lesiva solo nella percezione soggettiva della ricorrente.

Sia le risultanze testimoniali, che gli accertamenti medico-legali, avevano evidenziato un atteggiamento dell’insegnante tendente a personalizzare come ostile ogni avvenimento.

Le iniziative assunte dalla direttrice, dovevano quindi essere interpretate all’interno di un simile contesto e spesso  costituivano veri e propri atti dovuti in presenza di comportamenti tenuti dalla ricorrente contrari alle regole organizzative dell'Istituto  e non consoni al ruolo ricoperto.

Valerio Pollastrini

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