Nella sentenza n.
19814 del 28 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha compiuto una puntuale
analisi degli elementi sui quali deve essere incentrata la valutazione del
giudice di merito affinché possa dirsi configurato il reato di mobbing nei
confronti del lavoratore.
Il caso di specie è
quello di un’ insegnante che si era
rivolta al Tribunale di Frosinone, sostenendo di avere subito un prolungato
mobbing manifestatosi in 66 episodi e chiedendo la condanna del Ministero
dell'Istruzione, del Centro Servizi amministrativi di Frosinone e della direttrice
dell'istituto scolastico.
Sia il Tribunale che
la Corte di Appello di Roma avevano ritenuto la domanda priva di fondamento.
In particolare, il
giudice di appello aveva osservato che la vicenda era stata
rappresentata con molte valutazioni ed affermazioni personali irrilevanti ai
fini della decisione, come pure irrilevante era la conflittualità, sicuramente
sussistente, tra l'insegnante e la direttrice scolastica.
Sul punto, mancava infatti la prova dell’intento persecutorio
e vessatorio.
La direttrice, ritenendo di possedere una maggiore
preparazione, voleva assumere
all'interno del corpo insegnanti il ruolo di "garante" delle regole, suscitando
più volte delle reazioni accese ed esasperate della lavoratrice, cosa che, talvolta, durante il collegio dei docenti, aveva
causato la protrazione delle riunioni e la conseguente irritazione delle
colleghe.
Dall’ analisi analitica del ricorso era emerso che delle sessantasei circostanze
poste a base della domanda, molte erano risultate irrilevanti o addirittura incomprensibili,
altre costituivano una giustificata risposta ai comportamenti inadeguati tenuti
dall’insegnante, mentre altre, infine, esprimevano un'interpretazione
soggettiva di determinati fatti.
Anche le dichiarazioni dei testimoni avevano
escluso l'esistenza di mobbing, evidenziando, invece, la tendenza
dell'appellante all'eccessiva personalizzazione, alla vis polemica, alla
continua censura dell'operato della direttrice ed anche delle colleghe.
La consulenza medico-legale d'ufficio aveva inoltre
evidenziato un modesto danno biologico, stimato nel 5%, con una valore
rientrante nel concetto generale di sofferenza endogena, verosimilmente
ascrivibile a tratti della personalità che condizionavano la percezione che l’insegnante
aveva delle proprie vicende lavorative.
L'insegnante aveva
proposto ricorso per cassazione, ricordando quanto disposto dell'art. 2087 cod.
civ. a proposito dell’obbligo in capo al datore di lavoro di adottare
nell'impresa tutte le misure occorrenti per tutelare l'integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro. Per la ricorrente anche le
"costrittività organizzative", ossia le deficienze della struttura
organizzativa, sarebbero suscettibili di arrecare danni al lavoratore a
prescindere da qualsivoglia intento vessatorio.
La pronuncia
della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha
ricordato il costante orientamento interpretativo di legittimità che qualifica
come “mobbing” la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico nei
confronti del lavoratore che si risolve in sistematici e reiterati
comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di
persecuzione psicologica.
Si tratta, in
particolare, di atti dai quali può conseguire la mortificazione morale e
l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio
fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Perché una simile
condotta possa dirsi configurata, è necessario valutare i seguenti elementi:
- la molteplicità di comportamenti di carattere
persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano
stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il
dipendente con intento vessatorio;
- l'evento lesivo della salute o della
personalità del dipendente;
- il nesso eziologico
tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio
all'integrità psico-fisica del lavoratore;
- la prova
dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Per la Cassazione, i
giudici di merito, dopo un dettagliato
esame dei singoli episodi, avevano correttamente escluso l'esistenza di atti di contenuto vessatorio,
rilevando, altresì, come i fatti denunciati, molti dei quali comunque
irrilevanti o rimasti indimostrati, avevano assunto una valenza lesiva solo nella
percezione soggettiva della ricorrente.
Sia le risultanze
testimoniali, che gli accertamenti medico-legali, avevano evidenziato un
atteggiamento dell’insegnante tendente a personalizzare come ostile ogni
avvenimento.
Le iniziative assunte
dalla direttrice, dovevano quindi essere interpretate all’interno di un simile
contesto e spesso costituivano veri e
propri atti dovuti in presenza di comportamenti tenuti dalla ricorrente
contrari alle regole organizzative dell'Istituto e non consoni al ruolo ricoperto.
Valerio Pollastrini
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