Nella
sentenza n.23068 del 10 ottobre 2013 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla
discordanza della diagnosi del medico competente con quella del consulente
tecnico relativa all’idoneità fisica di un lavoratore allo svolgimento delle
proprie mansioni.
La Corte ha
ricordato che, in caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico
curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del
merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire quale delle contrastanti motivazioni sia
maggiormente attendibile.
Il caso è
quello di un dipendente che, in seguito al parere di inidoneità al lavoro,
formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica, era stato licenziato per
sopraggiunta impossibilità fisica allo svolgimento della prestazione.
Il
lavoratore aveva contestato il recesso presso il Tribunale di Lodi che aveva
dichiarato l’illegittimità del licenziamento, disponendo la sua reintegrazione
nel posto di lavoro.
Contro
questa decisione l’azienda aveva ricorso in appello presso la Corte di Milano.
Il processo di appello
La Corte di
Appello di Milano aveva rigettato l’impugnazione proposta dal datore di lavoro,
condividendo il convincimento del primo
giudice sulla mancanza del carattere di decisività del parere espresso dal
medico competente di cui alla procedura prevista dal decreto legislativo n. 626
del 1994.
Per i
giudici di merito l’attendibilità di un simile parere può sempre essere
verificata attraverso il sindacato
giudiziario. Dopo che la consulenza medico-legale d’ufficio aveva accertato che
l’inidoneità fisica del dipendente fosse da escludere con la semplice adozione di talune cautele da parte della
datrice di lavoro atte ad evitare rischi per la salute del lavoratore, per la
Corte non restava che confermare l’illegittimità del provvedimento di
licenziamento.
L’azienda
aveva quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza di appello, lamentando
la falsa applicazione della norma di cui all’art. 17, comma quarto, del decreto
legislativo n. 626 del 19/9/1994, assumendo che il lavoratore non aveva
impugnato, innanzi alla Asl territorialmente competente, il parere di
inidoneità al lavoro, formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica,
entro il termine di trenta giorni previsto da tale disposizione di legge.
Secondo la tesi datoriale tale parere era pertanto divenuto incontestabile,
precludendo al dipendente la possibilità di proporre domanda giudiziaria intesa
a contestare le risultanze dell’accertamento sanitario il cui esito era
vincolante per l’azienda.
La pronuncia della Cassazione
Nel ritenere
infondato il ricorso dell’azienda, la Cassazione ha ricordato la sentenza n.
420 del 14/12/1998 della Corte Costituzionale che aveva chiarito come la
dichiarazione di inidoneità fisica formulata al termine delle procedure di cui
all’art. 5 dello Statuto dei lavoratori non ha carattere definitivo, potendo il
giudice pervenire a diverse conclusioni
sulla base della consulenza tecnica d’ufficio.
Optando per l’immediato
licenziamento del dipendente, anziché richiedere la risoluzione giudiziaria del
rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, il datore
di lavoro aveva agito a suo rischio.
La
Cassazione ha poi ricordato alcuni precedenti giudizi di legittimità (1) nei quali aveva affermato che “nel caso di contrasto tra il contenuto del
certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di
controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione
comparativa al fine di stabilire quale delle contrastanti motivazioni sia
maggiormente attendibile, atteso che le norme che prevedono la possibilità di
controllo della malattia, nell’affidare la relativa indagine ad organi pubblici
per garantirne l’imparzialità, non hanno inteso attribuire agli atti di
accertamento compiuti da tali organi una particolare ed insindacabile efficacia
probatoria che escluda il generale potere di controllo del giudice”.
La Corte di Appello
aveva rispettato il richiamato principio sancito in sede di legittimità, là
dove, in virtù del parere tecnico del consulente d’ufficio, aveva adeguatamente
motivato il proprio convincimento sull’ idoneità
del lavoratore allo svolgimento delle sue mansioni.
Dopo un
esame fisico del dipendente e l’ispezione del luogo di lavoro il Ctu aveva
ritenuto il lavoratore idoneo allo svolgimento delle mansioni a cui era stato
addetto. Dagli esami del caso non erano emerse
patologie che imponessero la sospensione
in via precauzionale del lavoratore, mentre era stato ritenuto necessario un ausilio
meccanico per il trasporto dei pesi o quello di un altro lavoratore per carichi
superiori ai quindici chilogrammi, onde evitare il sovraccarico della colonna
vertebrale del ricorrente.
A tal riguardo,
la Corte di Appello aveva evidenziato che, in materia dì movimentazione di
carichi, esistono già disposizioni a tutela dei lavoratori sottoposti ad
attività che comportino rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in
particolare dorso-lombari, che impongono l’uso di mezzi appropriati e dì
attrezzature meccaniche.
Per tali
motivi la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, condannando il
datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio liquidate nella misura
di 4.000,00 € per compensi professionali e 50,00 € per esborsi, oltre accessori
di legge.
Valerio
Pollastrini
1 - Cass. Sez.
lav. n. 2953 del 4/4/1997; Cass. Sez.
lav. n. 6564 dell’11/5/2001;
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