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venerdì 11 ottobre 2013

Inidoneità lavorativa del dipendente – Discordanza tra la diagnosi del medico competente e quella del Ctu


Nella sentenza n.23068 del 10 ottobre 2013 la Corte di Cassazione è intervenuta sulla discordanza della diagnosi del medico competente con quella del consulente tecnico relativa all’idoneità fisica di un lavoratore allo svolgimento delle proprie mansioni.

La Corte ha ricordato che, in caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire  quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile.

Il caso è quello di un dipendente che, in seguito al parere di inidoneità al lavoro, formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica, era stato licenziato per sopraggiunta impossibilità fisica allo svolgimento della prestazione.

Il lavoratore aveva contestato il recesso  presso il Tribunale di Lodi che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento, disponendo la sua reintegrazione nel posto di lavoro.

Contro questa decisione l’azienda aveva ricorso in appello presso la Corte di Milano.

Il processo di appello
La Corte di Appello di Milano aveva rigettato l’impugnazione proposta dal datore di lavoro, condividendo  il convincimento del primo giudice sulla mancanza del carattere di decisività del parere espresso dal medico competente di cui alla procedura prevista dal decreto legislativo n. 626 del 1994.

Per i giudici di merito l’attendibilità di un simile parere può sempre essere verificata attraverso  il sindacato giudiziario. Dopo che la consulenza medico-legale d’ufficio aveva accertato che l’inidoneità fisica del dipendente fosse da escludere con la semplice  adozione di talune cautele da parte della datrice di lavoro atte ad evitare rischi per la salute del lavoratore, per la Corte non restava che confermare l’illegittimità del provvedimento di licenziamento.

L’azienda aveva quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza di appello, lamentando la falsa applicazione della norma di cui all’art. 17, comma quarto, del decreto legislativo n. 626 del 19/9/1994, assumendo che il lavoratore non aveva impugnato, innanzi alla Asl territorialmente competente, il parere di inidoneità al lavoro, formulato nei suoi confronti dal medico di fabbrica, entro il termine di trenta giorni previsto da tale disposizione di legge. Secondo la tesi datoriale tale parere era pertanto divenuto incontestabile, precludendo al dipendente la possibilità di proporre domanda giudiziaria intesa a contestare le risultanze dell’accertamento sanitario il cui esito era vincolante per l’azienda.

La pronuncia della Cassazione
Nel ritenere infondato il ricorso dell’azienda, la Cassazione ha ricordato la sentenza n. 420 del 14/12/1998 della Corte Costituzionale che aveva chiarito come la dichiarazione di inidoneità fisica formulata al termine delle procedure di cui all’art. 5 dello Statuto dei lavoratori non ha carattere definitivo, potendo il giudice  pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d’ufficio.

Optando per l’immediato licenziamento del dipendente, anziché richiedere la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilità della prestazione, il datore di lavoro aveva agito a suo rischio.

La Cassazione ha poi ricordato alcuni  precedenti giudizi di legittimità (1) nei quali aveva affermato   che “nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice del merito deve procedere alla loro valutazione comparativa al fine di stabilire  quale delle contrastanti motivazioni sia maggiormente attendibile, atteso che le norme che prevedono la possibilità di controllo della malattia, nell’affidare la relativa indagine ad organi pubblici per garantirne l’imparzialità, non hanno inteso attribuire agli atti di accertamento compiuti da tali organi una particolare ed insindacabile efficacia probatoria che escluda il generale potere di controllo del giudice”.

La Corte di Appello aveva rispettato il richiamato principio sancito in sede di legittimità, là dove, in virtù del parere tecnico del consulente d’ufficio, aveva adeguatamente motivato  il proprio convincimento sull’ idoneità del lavoratore allo svolgimento delle sue mansioni.

Dopo un esame fisico del dipendente e l’ispezione del luogo di lavoro il Ctu aveva ritenuto il lavoratore idoneo allo svolgimento delle mansioni a cui era stato addetto. Dagli esami del caso non  erano emerse patologie che  imponessero la sospensione in via precauzionale del lavoratore, mentre  era stato ritenuto necessario un ausilio meccanico per il trasporto dei pesi o quello di un altro lavoratore per carichi superiori ai quindici chilogrammi, onde evitare il sovraccarico della colonna vertebrale del ricorrente.

A tal riguardo, la Corte di Appello aveva evidenziato che, in materia dì movimentazione di carichi, esistono già disposizioni a tutela dei lavoratori sottoposti ad attività che comportino rischi di patologie da sovraccarico biomeccanico, in particolare dorso-lombari, che impongono l’uso di mezzi appropriati e dì attrezzature meccaniche.

Per tali motivi la Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, condannando il datore di lavoro al pagamento delle spese del giudizio liquidate nella misura di 4.000,00 € per compensi professionali e 50,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

1 - Cass. Sez. lav. n. 2953 del 4/4/1997;  Cass. Sez. lav. n. 6564 dell’11/5/2001;

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