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domenica 6 aprile 2014

Pubblico Impiego: lavoratore adibito, di fatto, a mansioni superiori - Conseguenze

Nell’ambito del Pubblico Impiego, con la sentenza n.796 del 16 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che il diritto del lavoratore ad una retribuzione commisurata alle mansioni superiori effettivamente svolte non è condizionato all’esistenza di un provvedimento del dirigente che ne disponga l’assegnazione.

Il caso giunto al vaglio della Suprema Corte è quello di un’infermiera generica alle dipendenze  della ASL n.X Basso Molise,  che aveva sostenuto di aver svolto dal marzo 2002 fino alla data del suo pensionamento, avvenuto nel gennaio 2006, attività riconducibili al superiore profilo di “infermiere professionale”.

Per tale ragione la lavoratrice si era rivolta al Tribunale di Larino chiedendo la condanna della ASL al pagamento delle differenze retributive derivanti dalle superiori mansioni svolte di fatto.

Riscontrata l’assenza di un provvedimento di assegnazione alle mansioni del superiore profilo professionale, il Tribunale aveva respinto la domanda.

La Corte di Appello di Campobasso, accertato che la dipendente aveva effettivamente svolto in modo ordinario e continuativo l’attività propria della superiore qualifica di infermiere professionale, ne aveva invece accolto la domanda, giudicando irrilevante l’assenza di un formale atto di assegnazione.

Contro la sentenza di secondo grado, la Asl aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che i principi enunciati dalle Sezioni Unite (1) con riguardo  all’esercizio di mansioni superiori conferite con atto illegittimo non fossero estendibili alla diversa ipotesi di svolgimento di fatto di mansioni in assenza di un provvedimento di conferimento.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha ritenuto destituite di fondamento le censure proposte dall’Azienda Sanitaria, ricordando, preliminarmente, come l’art. 56 del D.Lgs. n.29 del 3 febbraio 1993 (2) esclude che dallo svolgimento delle mansioni superiori possa conseguire l’automatica attribuzione della qualifica superiore. Tuttavia, la richiamata sentenza delle Sezioni Unite deve essere interpretata nel senso che,  al di fuori dei casi consentiti, l’impiegato al quale siano state assegnate mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte Costituzionale (3), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente secondo quanto disposto dall’art. 36 Cost.

Secondo la Suprema Corte,  la portata applicativa di tale principio  non può essere limitata al caso in cui le mansioni superiori siano svolte in esecuzione di un provvedimento di assegnazione nullo.

Sulla base dei principi espressi dalla Corte Costituzionale,  le Sezioni Unite (4) hanno già  rilevato come l’obbligo di commisurare il trattamento economico del dipendente alla quantità del lavoro effettivamente prestato esuli dalla eventuale irregolarità dell’atto o dalla sua assenza.

La condizione di illegalità nella quale il dipendente verrebbe a trovarsi nel caso dell’esecuzione di mansioni superiori senza un atto formale di assegnazione, non sarebbe sufficiente ad escluderlo dalla tutela in commento. Nella violazione della mera legalità non può infatti ravvisarsi quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento”, che conduce invece   alla negazione di ogni tutela del lavoratore (5).

L’applicabilità anche al Pubblico Impiego dell’art. 36 Cost., nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato, è stata più volte ribadita dalla Corte Costituzionale, che ha escluso che  tale riconoscimento possa essere negato a causa dell’eventuale illegittimità del provvedimento di assegnazione del dipendente a mansioni superiori rispetto a quelle della qualifica di appartenenza (6).

In virtù del principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost. (7), neppure la normativa che dispone l’accesso agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni mediante pubblico concorso risulta incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori  a percepire il trattamento economico previsto per la corrispondente qualifica.

Parimenti, la Cassazione ha richiamato i precedenti della Corte Costituzionale (8) nel ribadire come il diritto ad un’equa retribuzione non può essere negato neanche al lavoratore assegnato a mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche. Le violazioni in merito alle procedure di  assegnazione di mansioni superiori comportano, infatti, la responsabilità disciplinare e patrimoniale  del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro.

Volendo riassumere, il diritto alla retribuzione commisurata alle mansioni svolte di fatto non può essere subordinato all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico che ne disponga l’assegnazione al dipendente, tranne nel caso in cui l’espletamento di tali mansioni sia stato perfezionato all’insaputa o contro la volontà dell’Ente, oppure in seguito ad una  fraudolenta collusione tra lavoratore e dirigente (9).

Alla stregua dei principi sopra esposti, la Corte di Cassazione ha escluso che nel caso di specie ricorrano i presupposti per giustificare l’esclusione della dipendente dal diritto alla retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato.

La Cassazione ha dunque concluso  rigettando il ricorso aziendale ed ha altresì condannato la ASL n.X Basso Molise al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali, in 100,00 € per esborsi, oltre I.V.A. e C.P.A..

Valerio Pollastrini

 

(1)   – Cass., Sezioni Unite, sentenza n.25837/2007;
(2)   - ora art.52 del D.Lgs. n.165 del 30 marzo 2001;
(3)   - tra le altre, C.Cost., sentenza  n.908 del 1988; C.Cost., sentenza n.57 del 1989; C.Cost, sentenza n.236 del 1992; C.Cost, sentenza  n.296 del 1990;
(4)   - Cass., S.U., sentenza n.27887 del 2009;Cass., S.U., sentenza n.25837 dell’11 dicembre 2007;
(5)   – C.Cost., sentenza n.296 del 19 giugno 1990;
(6)   – C. Cost., sentenza n.57/1989; C.Cost., sentenza n.296/1990; C.Cost., sentenza n.236/1992; C.Cost., sentenza n.101/1995; C.Cost., sentenza n.115/2003; C.Cost., sentenza n.229/2003;
(7)   – C.Cost., sentenza  n.236 del 27 maggio 1992;
(8)   – Cass. S.U., sentenza  n.25837 del 2007;
(9)   - Cass., sentenza  n.27887 del 2009;
(10)                      - Cass., sentenza   n.14599 del 12 luglio 2005; Cass., sentenza n. 14590/2005; Cass., sentenza n.25546 del 30 novembre 2006; Cass., sentenza n.4391 del 26 febbraio 2007; Cass., sentenza n.20518 del 28 luglio 2008; Cass., sentenza n.5070 del 3 marzo 2009;

Collaborazione coordinata e continuativa - Accertamento della natura subordinata o autonoma

Nella sentenza n.7675 del 2 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso con il quale l’Inps, in seguito alla disposta trasformazione in rapporto di lavoro subordinato di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, aveva richiesto ad un’azienda  il pagamento delle relative differenze contributive.

In seguito ad un’ispezione, l’Istituto Previdenziale aveva ritenuto che il rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, intercorso tra l’impresa ed una lavoratrice tra il 1996 ed il 2004, avesse in realtà “celato” un contratto di lavoro subordinato.

Dopo aver disposto la conversione del rapporto, l’Inps aveva richiesto al datore di lavoro il pagamento delle differenze contributive.

In seguito alla ricezione della cartella esattoriale, l’azienda aveva proposto opposizione dinnanzi al Giudice del lavoro.

Dopo il rigetto del Tribunale di Bergamo, la Corte di Appello di Brescia, riformando la sentenza di primo grado, ritenendo che quello intercorso tra le parti fosse un rapporto di lavoro autonomo, aveva accolto la domanda del ricorrente.

La Corte territoriale aveva preliminarmente accertato che  l’impresa e la lavoratrice avevano stipulato nel 1996 un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, annuale, prorogabile anno, avente ad oggetto le prestazioni di “assistenza amministrativa e contabile e rapporti con professionisti esterni”.

Queste le altre condizioni contrattuali:

-         Nessuna prefissione di orario;
-         Compenso annuo lordo di 1.000.000 di lire;
-         Prestazioni da svolgere in azienda.

Il Giudice del merito aveva escluso che le indicate  mansioni potessero assumere un ruolo significativo ai fini dell’accertamento della natura subordinata o autonoma del rapporto, risultando, tra l’altro, che le stesse, in passato, erano state delegate dall’azienda a professionisti esterni.

Ai fini della corretta qualificazione, era dunque risultata decisiva l’analisi delle modalità di esecuzione della prestazione, descritte dalla lavoratrice nel corso di due diverse dichiarazioni. La prima, rilasciata nel corso dell’ispezione, con la quale aveva affermato che le mansioni svolte durante il rapporto di collaborazione fossero identiche a quelle esercitate nel corso di un successivo rapporto di lavoro subordinato. La seconda, rettificatrice della precedente, rilasciata durante la fase istruttoria.

Una testimone  aveva inoltre affermato in giudizio che i periodi di ferie venivano stabiliti in modo che la stessa teste e la lavoratrice potessero alternarsi e sostituirsi.

La Corte di Appello aveva ritenuto che le dichiarazioni rese all’ispettore dalla lavoratrice fossero generiche e non contrastanti con quelle fornite successivamente, avendo quest’ultime meglio chiarito   i mutamenti della prestazione prima e dopo la sua assunzione come  subordinata, circostanze, anch’esse, confermate dalla teste.

Il giudicante aveva perciò ritenuto che l’Inps non avesse fornito la prova della subordinazione.

Contro la pronuncia di Appello, l’Istituto aveva dunque adito la Cassazione, contestando alla Corte territoriale di aver privilegiato le dichiarazioni rese in via istruttoria dalla lavoratrice e dalla teste sull’assenza di vincoli  orari, sulla circostanza che le mansioni svolte richiedessero una grande esperienza e che le prestazioni rese dalle due non fossero fungibili.

A detta dell’Inps, la Corte di Appello avrebbe dovuto invece incentrare la propria analisi sulla semplicità e ripetitività delle mansioni svolte. Il cui contenuto, sempre secondo la tesi dell’Istituto,  non era connaturato da un elevato grado intellettuale.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha ritenuto infondate  le censure promosse dall’Inps.

In particolare, la Cassazione ha rilevato come il Giudice di merito avesse fornito un’adeguata e corretta spiegazione delle ragioni che l’avevano indotto ad escludere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato e di come fosse giunto ad un simile convincimento in seguito ad un completo accertamento di tutte le circostanze di fatto emerse dall’istruttoria.

La Suprema Corte ha ricordato come, secondo il consolidato principio più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato da quello autonomo è quello dell’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro.

Per gli ermellini risulta dunque insindacabile il percorso logico seguito dalla Corte di Appello, che aveva escluso la sussistenza della subordinazione tenendo conto del principio sopra richiamato.

 
La Suprema Corte ha poi rammentato la volontà delle parti, manifestata nella conclusione di un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, annuale e prorogabile, avente ad oggetto l’assistenza amministrativa e contabile e rapporti con professionisti esterni, nonché le dichiarazioni rese dalla lavoratrice in sede di ispezione e poi davanti al Giudice, nonché  quelle rilasciate della testimone.

Si tratta di dichiarazioni che, analizzate nel loro complesso,  consentono di ritenere attendibile quanto affermato dalle stesse in sede di istruttoria e maggiormente chiarificatrici, rispetto a quelle rilasciate all’ispettore, delle caratteristiche della  prestazione svolta.

Per tutte le richiamate considerazioni la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’Inps.

Valerio Pollastrini

Previsti 15mila nuovi ingressi per lavoratori extracomunitari stagionali

Con una nota del 4 aprile 2014 il Ministero del lavoro ha annunciato che per l’anno in corso saranno 15.000 le nuove quote di ingresso per i lavoratori extracomunitari stagionali.

E’ infatti  in corso di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12 marzo 2014, che prevede un’apertura dei flussi di ingresso per i lavoratori non comunitari stagionali.

I datori di lavoro interessati potranno inviare le domande di ingresso dalle ore 8.00 del giorno successivo a quello di  pubblicazione del decreto sulla Gazzetta Ufficiale e sino alle ore 24.00 del 31 dicembre 2014.

L’applicativo per la compilazione dei moduli di domanda è già disponibile  sul sito del Ministero dell'Interno.

Valerio Pollastrini

venerdì 4 aprile 2014

Legittimo negare i premi aziendali ai lavoratori a tempo determinato

Con la sentenza n.4911 del 3 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto legittimo che il datore di lavoro riservi determinati elementi aggiuntivi della retribuzione ai dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato, escludendone l’erogazione ai lavoratori a termine.

Si tratta, in sostanza, delle gratifiche a titolo di premi di produttività, la cui erogazione risulti finalizzata  alla  fidelizzazione dei dipendenti con prospettive di collaborazione duratura nel tempo.

Il caso in commento è quello che ha visto l’Inps adire la Suprema Corte contro la sentenza con la quale la Corte di Appello, confermando l’esito del primo grado di giudizio, aveva accolto l’opposizione formulata da un’azienda nei confronti di due cartelle esattoriali  che le avevano ingiunto il pagamento di lire 3.034.333.003 e di lire 13.638.600, corrispondenti ai contributi maturati e non versati in relazione agli emolumenti per gratifica speciale, gratifica particolare e premio di produttività che, a detta dell’Istituto Previdenziale, il datore di lavoro avrebbe dovuto corrispondere anche ai dipendenti assunti con contratto a termine.

L’Inps sosteneva, infatti, che,  in base al principio dell’equiparazione delle condizioni dei lavoratori precari a quella dei dipendenti a tempo indeterminato, i suddetti elementi aggiuntivi della retribuzione sarebbero spettati di diritto anche ai lavoratori assunti con contratto a termine.

La Corte d’Appello aveva però disatteso la domanda dell’Istituto, negando che le gratifiche, annua e speciale, spettassero a tutto il personale dipendente operante all’interno dell’azienda, stante la finalità premiale assicurata dalle stesse riguardo all’attività svolta dai lavoratori con prospettive di collaborazione duratura nel tempo.

Stesso discorso per il premio di produttività,  dal momento che il contratto aziendale presupponeva per la sua erogazione una continuità di impegno non compatibile con la durata dei contratti a tempo determinato.

L’interpretazione fornita nel giudizio di merito risultava inoltre confermata dall’analisi della documentazione negoziale concernente le predette gratifiche e dalla comprovata prassi aziendale, condivisa, per decenni, dalle organizzazioni sindacali.

Accertato che le richiamate gratifiche non spettassero ai lavoratori “precari”, la Corte di Appello ne aveva escluso il corrispondente obbligo contributivo in relazione ai dipendenti inquadrati con tale modalità.

Investita della questione, la Cassazione ha condiviso la pronuncia di merito, confortata, come detto, dalla costante prassi aziendale, in base alla quale gli specifici elementi aggiuntivi della retribuzione risultavano corrisposti neanche a tutti i dipendenti  a tempo indeterminato, risultando infatti la gratifica particolare  riservata esclusivamente  ai dipendenti assunti nel primo semestre dell’anno precedente a quello di corresponsione. Condizione che, di fatto, ne impediva l’erogazione ai lavoratori assunti a termine per periodi inferiori ad un anno.

La Cassazione ha inoltre confermato come gli emolumenti in questione fossero destinati  a compensare un’attività lavorativa connotata dai requisiti della continuità e della costante partecipazione all’attività aziendale, caratteristiche, queste, non presenti nella fattispecie del contratto a termine.

Valerio Pollastrini

Nuovi contratti a termine - Anche la proroga è senza causale

Come è noto, con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del D.L. n.34/2014, dal 21 marzo sono entrate in vigore le disposizioni del Jobs Act che hanno modificato l’istituto del contratto a termine.

La norma, in particolare, ha esteso la durata del c.d. “contratto acausale”, innalzando da uno a tre anni il termine del rapporto privo di giustificazioni.

La nuova formulazione della fattispecie consente inoltre di prorogare l’originale contratto a tempo determinato fino ad un massimo di otto volte, sempre nel limite massimo di tre anni.

Il Decreto, nel cancellare per tutti i contratti a tempo determinato il precedente obbligo di indicare le esigenze di carattere tecnico, organizzativo, produttivo legittimanti l’apposizione di un termine al rapporto, non pone alcuna distinzione tra il primo contratto o i successivi. Ciò lascia supporre che anche per le proroghe non sia richiesta alcuna causale.

Sul punto si consiglia però di attendere gli opportuni chiarimenti del Ministero del lavoro.

Valerio Pollastrini

Licenziamento disciplinare – Immediatezza della contestazione

In merito al principio dell’immediatezza della contestazione, la Corte di Cassazione, nella sentenza n.4724 del 27 febbraio 2014, ha affermato che, nel caso in cui  il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, la sanzione del licenziamento possa essere irrogata non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale consenta ragionevolmente di ritenere sussistente l’illecito.

In seguito ad un’ispezione interna, la Banca Monte Paschi di Siena aveva accertato che un Direttore di Filiale, attraverso alcune iniziative assunte arbitrariamente, aveva contribuito a determinare la progressiva lievitazione delle esposizioni, con conseguenze dannose e rischio per l’istituto.

L’azienda aveva però atteso circa tre mesi per dare inizio al procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento del lavoratore.

La Corte di Appello di Roma, ritenendo  illegittimo il recesso, aveva condannato la banca  a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto maturate dal recesso alla reintegra, con detrazione dell’”aliunde perceptum” pari a 21.855,41 €.

La Corte del merito aveva rilevato che  dal momento in cui la Direzione Generale aveva avuto a disposizione le risultanze dell’Ispezione a quello in cui il soggetto deputato aveva inviato la contestazione erano trascorsi circa tre mesi e l’entità delle articolazioni della struttura aziendale non poteva assumere una rilevanza sufficiente  a giustificare il lasso di tempo intercorso tra il ricevimento del verbale ispettivo e la contestazione.

Dall’istruttoria era inoltre emerso   che durante tale periodo la  Banca non aveva svolto   ulteriori accertamenti, pertanto, il lasso di tempo indicato doveva ritenersi ingiustificato e la contestazione tardiva.

L’istituto aveva ricorso in Cassazione, assumendo che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che la Direzione Generale non sarebbe stata in grado di formalizzare la contestazione disciplinare immediatamente dopo avere ricevuto la relazione ispettiva, avendo bisogno di un fisiologico spatium deliberandi per valutare i fatti accertati in sede ispettiva e per verificare, all’esito della valutazione, la sussistenza di elementi tali da determinare la necessità di apertura del procedimento disciplinare, per ottenere la relativa delibera e redigere la lettera di contestazione.

L’Azienda aveva poi negato la supposta inerzia del proprio comportamento, avendo provveduto ad allontanare il dipendente dall’agenzia, privandolo del ruolo di Direttore , nelle more dell’ispezione e dell’apertura del procedimento disciplinare, così denotando, a suo dire, la volontà  di irrogare la sanzione del licenziamento e di valutare la rilevanza disciplinare del comportamento tenuto dal dipendente.

L’azienda aveva inoltre contestato la condanna al pagamento di un risarcimento commisurato ad un intervallo temporale di ben sette anni, evidenziando che la Corte di Appello non aveva disposto alcuna  indagine diretta a verificare il comportamento colposo del lavoratore, che,  non essendosi attivato per la ricerca di un nuovo impiego, aveva aggravato i danni economici patiti in seguito al licenziamento.

La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha rilevato che la tempestività della contestazione di cui all’art. 7, secondo comma, legge n. 300 del 1970, deve essere valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti.

La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito in passato che, quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato ove il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo (1).

Sempre facendo ricorso ai precedenti della Suprema Corte, gli ermellini hanno osservato che, con riferimento ai requisiti che qualificano la tempestività della contestazione e della sanzione disciplinare, sia il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, che quello della tempestività del recesso, devono essere intesi in senso relativo, potendo essere compatibili con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per una adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e delle sue eventuali giustificazioni.

In sostanza,  ai fini dell’intimazione del licenziamento disciplinare, la valutazione inerente all’immediatezza della contestazione deve tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro, a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda, e del lavoratore, a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione.

Conseguentemente,  la denuncia a carico di un lavoratore  per un fatto penalmente rilevante, connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti (2).

Sulla base dei richiamati principi,  un coerente bilanciamento dei diversi interessi delle parti, sottesi al procedimento di disciplina, non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e nella conseguente denuncia all’autorità inquirente circostanze  esonerative dall’obbligo di immediata contestazione.

Tornando alla fattispecie in esame, la Suprema Corte ha affermato che il giudice di merito avesse correttamente ritenuto violato il principio di tempestività nella  tardiva contestazione disciplinare inviata dal Dipartimento Risorse Umane e pervenuta al lavoratore soltanto tre mesi dopo che il verbale ispettivo  era pervenuto alla Direzione Generale.

Sul punto, sempre la Cassazione ha ribadito in diverse circostanze  come gravi sul datore di lavoro l’onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare (3).

Nel giudizio di Appello era stata congruamente illustrata  l’eccessiva protrazione temporale della vicenda disciplinare, non giustificata neanche dall’esigenza di attesa dello svolgimento di un processo penale, non essendo stato dimostrato che la struttura dell’azienda, per dimensioni ed articolazione delle procedure interne in materia disciplinare,  fosse tale da giustificare l’attesa di tempi tecnici adeguati e comunque non potendo difficoltà o carenze organizzative pregiudicare il diritto del lavoratore ad una pronta effettiva difesa, senza considerare il giusto affidamento del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, non essendo l’esercizio del potere disciplinare un obbligo bensì una facoltà (4).

Parimenti infondato, a detta della Cassazione, l’assunto della mancata valutazione del comportamento negligente del prestatore che avrebbe dovuto mantenere un comportamento diverso da quello inerte tenuto nel periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo.

Grava infatti sul datore di lavoro la prova del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione ed abbia percepito importi idonei a ridurre l’entità del danno.

Tale principio è stato reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in base alla quali, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum” dalle retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte venga la prova, che il lavoratore abbia trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, essendo il fatto idoneo a ridurre l’entità del danno risarcibile (5).

In virtù delle esposte considerazioni la  Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda e, nel confermare l’illegittimità del recesso nonché il diritto del lavoratore al risarcimento del danno disposto dalla Corte di Appello, ha condannato la Banca Monte Paschi di Siena al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.500,00 per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - Cass., sentenza  n.7983 del 27 marzo 2008;
(2)   - Cass., sentenza  n.1101/2007; Cass., sentenza n.4502/2008;
(3)   - Cass., sentenza  n.1101/2007; Cass., sentenza n.2023/2006;
(4)   – In questo senso Cass., sentenza n.13167/2009;
(5)   - Cass., sentenza  n.5676 del 10 aprile 2012; Cass., sentenza n. 21919 del 26 ottobre 2010;

Certificato penale per il datore di lavoro che occupa minori

Con l’entrata in vigore del D. Lgs. n. 39 del 4 marzo 2014, dal prossimo 6 aprile, prima di assumere dei minori, i datori di lavoro dovranno richiedere il certificato penale del casellario giudiziale, al fine di attestare l'assenza di condanne per prostituzione e pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, pornografia virtuale e adescamento minori, o di sanzioni interdittive all'esercizio di attività che comportino contatti con minori.

Attraverso il decreto è stata infatti recepita la Direttiva Comunitaria n.2011/93 finalizzata  alla lotta contro lo sfruttamento minorile sotto l'aspetto sessuale e la pornografia.

Per chi non ottemperasse l'obbligo in commento sono previste sanzioni da 10 mila a 15 mila euro.

Valerio Pollastrini

giovedì 3 aprile 2014

Imprenditore responsabile del decesso del dipendente in seguito ad un infortunio sul lavoro

Nella sentenza n.14788 del 23 gennaio-31 marzo 2014 la Cassazione ha ritenuto responsabile un imprenditore per la morte del dipendente causata da un incidente sul lavoro.

La vicenda giunta al vaglio della Suprema Corte  è quella che ha visto il decesso di un operaio in seguito alla caduta da un ponteggio mentre si trovava sulla volta di una chiesa privo dell'attrezzatura di sicurezza.

La Cassazione ha dedotto dall’omesso uso della cintura da parte del dipendente la violazione da parte del datore di lavoro degli obblighi di vigilanza sul rispetto delle prescrizioni antinfortunistiche.

Per evitare la condanna il datore di lavoro avrebbe dovuto dimostrare che la vittima avesse deliberatamente omesso di utilizzare il dispositivo di protezione.

La Suprema Corte ha ricordato come, ai sensi dell’art.376 del D.p.r. n.547/1995,  in tutti i casi in cui debbano essere eseguiti lavori di manutenzione e riparazione, l'accesso ai posti elevati di edifici deve essere reso sicuro ed agevole attraverso la predisposizione di adeguati strumenti di sicurezza, indipendentemente dall’ordinarietà o straordinarietà di tali lavorazioni.

Come già affermato dalla giurisprudenza di legittimità (1) la finalità della richiamata norma  è quella di prevenire la caduta dall'alto dei lavoratori chiamati ad operare in simili condizioni ad altezze pericolose, senza che ciò escluda il datore dall’obbligo di vigilare sul corretto utilizzo da parte di coloro  che accedano al tetto delle cinture di sicurezza.

La giurisprudenza è inoltre concorde nel ritenere che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro,  nel caso di lavorazioni eseguite ad altezza superiore a due metri, il datore di lavoro debba  apprestare  impalcature, ponteggi o altre opere provvisionali, senza che tale obbligo possa essere   sostituito dall'uso delle cinture di sicurezza, il cui utilizzo è previsto dalla legge solo in via sussidiaria o  complementare (2).

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass. pen. Sez. IV, n.7682 del 21.1.2010;
(2)   - Cass. pen. Sez. IV, n. 25134 del 19.4.2013;

Automaticità delle prestazioni anche per i Co.co.pro.

Nella sentenza n.941/2013 il Tribunale di Bergamo ha riconosciuto ad una lavoratrice a progetto il diritto alla pensione nonostante il committente non avesse provveduto a versare la contribuzione previdenziale.

Si tratta di una pronuncia estremamente interessante poiché attraverso di essa per la prima volta è stato esteso il  principio della c.d. automaticità delle prestazioni, finora appannaggio esclusivo dei lavoratori subordinati, ai collaboratori coordinati e continuativi a progetto.

Certamente una sentenza di merito non è sufficiente ad incrinare il difforme orientamento pluridecennale, occorrerà dunque attendere l’eventuale pronuncia della Cassazione nel caso in cui la questione giunga al vaglio della Corte di legittimità.

Valerio Pollastrini

mercoledì 2 aprile 2014

Jobs act – Il Disegno di Legge delega in materia di occupazione

Prosegue l’analisi delle misure contenute nel c.d. Jobs Act, con riguardo, questa volta, al Disegno di Legge delega in materia di occupazione.

Il testo, attualmente,  è  al vaglio del Quirinale ed entro la prossima settimana dovrebbe essere trasmesso  al Senato.

Una volta ottenuto  il via libera dal Parlamento, il Governo avrà sei mesi di tempo per predisporre i necessari decreti attuativi.

L'idea di base è quella di calibrare la convenienza per i datori di lavoro nella scelta della tipologia contrattuale, attraverso una diversa onerosità dei contributi sociali obbligatori.

L’obiettivo è quello di introdurre  all'inizio del 2015 un nuovo ventaglio di soluzioni contrattuali.

Il panorama  passerà dal rapporto a termine, leggermente più costoso, al nuovo contratto a tutele crescenti, più vantaggioso nella fase di chiusura del rapporto e nella contribuzione dovuta, fino ad arrivare al più conveniente, in termini di spesa complessiva, contratto a tempo indeterminato.

Il Disegno di Legge prevede inoltre una revisione degli ammortizzatori sociali, mirata a garantire protezioni più uniformi ed estese in caso di disoccupazione involontaria, in base alla storia contributiva dei lavoratori.

In sostanza, verrà introdotta una nuova indennità di disoccupazione  in sostituzione dell’attuale Aspi, la cui fruizione sarà garantita anche a quei lavoratori ora privi di tutela in caso di perdita del posto.

I lavoratori che, dopo l'esaurimento della “nuova Aspi” non riusciranno a ricollocarsi, potranno poi beneficiare di un ulteriore assegno di disoccupazione, al quale potranno accedere  in presenza di determinate condizioni reddituali accertate con lo  strumento Isee.

Continueranno ad essere esclusi dall’indennità di disoccupazione i lavoratori in Partita Iva. Per tale ragione il Ministero del lavoro attiverà a breve una mirata attività ispettiva per  reprimere eventuali abusi in questa forma di inquadramento.

Per garantire il necessario equilibrio finanziario per  la maggiore spesa richiesta dalla “nuova Aspi” sarà immediatamente eliminata la mobilità in deroga, e verrà approntata la progressiva uscita dalla cassa integrazione in deroga.

Tra le fonti di finanziamento del sussidio in commento, 600 milioni saranno garantiti dall'abolizione della Cig prevista in caso di cessazione di attività aziendale, mentre una minore spesa per la Cig sarà consentita dai nuovi  filtri introdotti per la sua concessione. Per fruire della Cassa Integrazione le aziende dovranno infatti dimostrare di aver preventivamente tentato, rispettivamente, la riduzione dell'orario, lo smaltimento delle ferie ed il ricorso alle solidarietà. Verrà inoltre introdotto  un meccanismo di compensazione contributiva in favore delle imprese che ridurranno il ricorso alla Cassa Integrazione.

Valerio Pollastrini

 
N.B. – Sarà possibile accedere agli altri commenti sulle disposizioni del Jobs Act attraverso il lik “Jobs Act” inserito tra le etichette del presente blog

L'assoggettamento a turni e ad orari dimostra la natura subordinata del rapporto

Nella sentenza n.7376 del 28 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che l’assoggettamento a turni ed a specifici orari di lavoro costituiscono  elementi decisivi ai fini della qualificazione della natura subordinata del rapporto.

Nel caso di specie una lavoratrice aveva richiesto la conversione in rapporto di lavoro subordinato delle prestazioni rese in favore  di un Ente Pubblico non economico, con conseguente diritto alle differenze retributive ed alla contribuzione previdenziale.

La Corte di Appello, preso atto della genericità delle contestazioni sollevate dell’Ente in merito alla discontinuità della prestazione svolta dalla ricorrente, aveva accolto la domanda della lavoratrice.

Inoltre, l’esame della prova testimoniale, oltre a confermare  il carattere continuativo e regolare della prestazione, aveva evidenziato l’assoggettamento della ricorrente a specifici orari e turni di lavoro.

Nell’adire la Cassazione, l’azienda aveva sostenuto che tra le parti fosse intercorso in realtà  un rapporto di lavoro autonomo di collaborazione coordinata e continuativa. Diversamente,  la costituzione di un rapporto di natura subordinata avrebbe richiesto il superamento di uno specifico concorso e, pertanto, tale fattispecie contrattuale doveva ritenersi nulla per illiceità della causa e dell'oggetto.

La Suprema Corte ha condiviso le motivazioni con le quali la Corte di Appello aveva accertato il carattere continuativo e regolare della mansioni di  segretaria addetta all'amministrazione ed ai contatti con il pubblico svolte dalla lavoratrice.

La Cassazione ha poi ribadito che la continuità della prestazione, le modalità di erogazione della retribuzione, l'inserimento stabile e prolungato nell'organizzazione aziendale, nonché l’assoggettamento a turni, sono elementi tipici della subordinazione, mentre, ai fini di una corretta qualificazione del rapporto, la volontà espressa dalle parti nella stipulazione del contratto risulta irrilevante.

Nel rigettare il ricorso dell’Ente datore di lavoro, la Suprema Corte ha concluso ricordando che, nonostante la nullità del  rapporto di lavoro subordinato sorto con un Ente Pubblico non economico  non assistito da un regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, il lavoratore conserva tuttavia il diritto al trattamento retributivo e alla contribuzione previdenziale per il tempo nel quale le prestazioni abbiano avuto materiale esecuzione.

Valerio Pollastrini

Il lavoro reso dai familiari del datore di lavoro

Per quanto riguarda le ditte individuali e le società di persone, vige di fatto un principio di gratuità delle prestazioni rese dai  familiari.

Anche se nel nostro ordinamento non esiste alcuna legge che preclude ai parenti stretti l’assunzione con contratto di lavoro subordinato nell’azienda di famiglia, l’Inps è solita disconoscere la contribuzione eventualmente versata a tale titolo.

La giurisprudenza ha chiarito da tempo che per superare la richiamata presunzione il datore di lavoro dovrebbe riuscire a provare che il familiare alle sue dipendenze sia soggetto al  potere disciplinare, caratterizzante la natura della subordinazione.

Si tratta di una prova la cui dimostrazione risulta estremamente complessa. L’unica via che consente una configurazione certa della prestazione resa dal parente stretto sembra dunque essere quella dell’inquadramento come collaboratore nell’ambito di un’impresa familiare.

Valerio Pollastrini

martedì 1 aprile 2014

Accertamento in merito a demansionamento, mobbing e licenziamento ritorsivo

Nella sentenza n.6965 del 25 marzo 2014 la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in ordine alle richieste di un lavoratore relative all’accertamento della sussistenza del demansionamento, del mobbing e del licenziamento ritorsivo posti in essere ai suoi danni dal datore di lavoro.

Il caso di specie è quello del dipendente di una Banca, inquadrato da ultimo nella III area professionale, II livello retributivo,che, successivamente al licenziamento, si era rivolto al Giudice del lavoro chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive  in ragione dell’avanzato diritto ad un inquadramento superiore.

Il lavoratore, ritenendo di essere stato vittima di alcune condotte vessatorie, aveva inoltre  richiesto il risarcimento del danno da mobbing e da demansionamento, contestando, altresì, la legittimità delle sanzioni conservative comminategli e la natura ritorsiva del licenziamento.

Sia il Tribunale di Matera che la Corte di Appello di Potenza avevano rigettato il ricorso.

La Corte di merito aveva escluso l’invocato diritto al superiore inquadramento dopo aver accertato che l’attività svolta dal ricorrente non fosse diretta al raggiungimento dei risultati aziendali - come invece richiesto dalla declaratoria contrattuale del superiore livello retributivo - ma di completamento, è quindi connaturata dall’assenza di autonomia, se non meramente esecutiva.

Quanto al mobbing, il Giudice di Appello aveva ritenuto corretta la pronuncia del Tribunale di primo grado che  ne aveva escluso la ricorrenza in ragione della legittimità delle sanzioni disciplinari e del licenziamento.

Il giudicante, pur confermando la sussistenza del lamentato demansionamento, configuratosi con l’adibizione del lavoratore agli inferiori compiti di Cassiere, aveva escluso che la disposizione della banca avesse  natura discriminatoria.

La Corte era giunta a tale conclusione  in considerazione dell’oggettiva rilevanza della riorganizzazione aziendale addotta come motivo del mutamento di mansioni ed aveva inoltre escluso la configurazione di un danno  patrimoniale, il quanto il lavoratore  nulla al riguardo aveva allegato durante l’istruttoria. Parimenti escluso un danno non patrimoniale, dal momento   che, detto demansionamento, non aveva comportato alcuna conseguenza sull’equilibrio psico-fisico del ricorrente e che la patologia lamentata era risultata  causata da  eventi lavorativi avversativi, vissuti dolorosamente e per nulla accettati.

Relativamente alla tempestività delle sanzioni conservative, la Corte del merito aveva ritenuto che  il lasso di tempo utilizzato dall’azienda per l’irrogazione delle due diverse sanzioni disciplinari, rispettivamente di diciassette e sedici giorni,  non fosse eccessivo e potenzialmente lesivo dei diritti di difesa del lavoratore.

Sia le sanzioni conservative  che il licenziamento erano stati ritenuti legittimi per via dell’accertata sussistenza delle mancanze contestate e dell’illiceità dei comportamenti addebitati al lavoratore, contrastanti con i doveri fondamentali imposti dalla deontologia del dipendente bancario e sufficienti quindi a ledere la fiducia del datore di lavoro.

Il lavoratore aveva quindi adito la  Cassazione, sostenendo che, in ordine alle mansioni corrispondenti, contrariamente a quanto affermato dalla Corte del merito, dall’istruttoria era emerso che il ruolo di referente in materia di Rete Nazionale Interbancaria per tutti gli uffici era stato svolto dal lavoratore con autonomia di funzione.

Per la Suprema Corte si tratta di una censura infondata, in quanto il Giudice di merito, nel maturare la propria motivazione non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti. Il giudicante, dopo aver vagliato le une e le altre nel loro complesso, è chiamato  semplicemente ad indicare gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (1).

Il ricorrente aveva poi  criticato  la sentenza impugnata per aver sostenuto l’insussistenza del mobbing attraverso una motivazione fornita per relationem.

Nel dichiarare infondato anche tale  motivo del ricorso, la Cassazione ha ricordato come la costante   giurisprudenza di legittimità ritenga legittima la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame, purché il Giudice di Appello, facendo proprie le argomentazioni del primo Giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso le due sentenze risulti appagante e corretto.

La Suprema Corte ha ricordato, altresì, che la sentenza di Appello debba essere invece cassata allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, induca al sospetto  che il Giudice di Appello non sia giunto alla condivisione del giudizio di primo grado attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (2).

Nella specie la Corte di Appello, nel sottolineare come il primo giudice, accertata la legittimità delle sanzioni disciplinari e quella del recesso, avesse correttamente escluso il mobbing, aveva fornito adeguati chiarimenti sulle ragioni poste a fondamento della condivisione dell’iter argomentativo posto a base della sentenza del Tribunale.

Tra le censure promosse contro la pronuncia impugnata, il ricorrente aveva indicato l’incongruità della motivazione con la quale,  pur riconoscendo in demansionamento, la Corte territoriale aveva ugualmente negato ogni diritto risarcitorio del danno, sia patrimoniale che  non patrimoniale.

La Cassazione ha ritenuto infondati anche questi rilievi.

La Corte del merito, invero, dopo aver riconosciuto che l’attribuzione al lavoratore delle mansioni di cassiere  ne avesse comportato il demansionamento rispetto all’inquadramento precedentemente rivestito, aveva rigettato la domanda del risarcimento del danno patrimoniale in  difetto di  qualsiasi allegazione e prova fornita nel ricorso.

Il risarcimento del danno non patrimoniale – intendendosi per tale il danno biologico – era stato invece negato in quanto la patologia lamentata, oltre a non aver determinato conseguenza alcuna sull’equilibrio psico-fisico del lavoratore, era risultata causata da eventi lavorativi avversativi vissuti dolorosamente e per nulla accettati.

Sul punto, a detta della Cassazione, la sentenza impugnata, conformandosi alla giurisprudenza di legittimità (3), appare  congrua, adeguatamente motivata e formalmente logica nel disconoscere  il danno patrimoniale in assenza di  prova ed allegazione.

Ugualmente corretto il diniego del risarcimento del danno biologico, dal momento che l’analisi delle risultanze della disposta  Ctu aveva accertato che il demansionamento non aveva causato alcuna patologia psico-fisica ed aveva inoltre escluso che le conseguenze lamentate dal ricorrente fossero collegabili alla situazione fattuale determinatasi nel mutamento della sua posizione lavorativa.

Il lavoratore aveva inoltre presunto  l’omessa motivazione in ordine alla natura ritorsiva dell’esercizio del potere disciplinare, affermando  che la consecuzione temporale degli accadimenti fosse la prima prova delle ragioni ritorsive e discriminatorie che avevano determinato il suo licenziamento.

Anche questa  censura è stata ritenuta infondata.

La Corte del merito aveva escluso la natura ritorsiva dell’irrogazione delle sanzioni conservative e del successivo licenziamento sul coerente rilievo della legittimità sia delle sanzioni disciplinari che del recesso, così escludendo implicitamente ogni collegamento teleologico tra esercizio del potere disciplinare ed azioni giudiziarie intraprese dal lavoratore nei confronti della Banca.

Con l’ultimo motivo di ricorso il lavoratore aveva prospettato la violazione del principio di diritto in materia disciplinare  nonché vizio di motivazione, assumendo l’erronea valutazione del giudicante  sulle varie contestazioni disciplinari e sulla legittimità del licenziamento.

Anche questi ultimi rilievi, per come formulati, sono stati ritenuti inammissibili, dal momento che  alla Cassazione non può essere demandata  l’individuazione di quali  argomentazioni siano rapportabili alla violazione di leggi e quali, invece, al vizio di motivazione. A tal proposito, la giurisprudenza (4) impone al ricorrente l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di Cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata (5).

Per tutte le richiamate motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.500,00 € per compensi professionali  e 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - Cass., sentenza  n.5748 del 25 maggio 1995;
(2)   - Cass., sentenza  n.15483 dell’11 giugno 2008;  Cass., sentenza  n.7347 dell’11 maggio 2012;
(3)   - Cass., sentenza  n.29832 del 19 dicembre 2008; Cass., sentenza    n.4479 del 21 marzo 2012;
(4)   - Cass., sentenza  n.10420 del 18 maggio 2005;
(5)   - Cass., sentenza  n.6225  del 23 marzo 2005; Cass., sentenza  n.21611 del 20 settembre 2013;

Verifiche sull’utilizzo improprio di contratti a progetto e Partita Iva

Il 1° aprile 2014 il Ministero del lavoro ha comunicato l’imminente  inizio di una vasta azione  di  controllo  sull’utilizzo improprio di alcune tipologie contrattuali da parte delle aziende.

Nell'ambito delle iniziative di contrasto al lavoro irregolare, verranno dunque intensificate le ispezioni tese ad accertare i casi in cui, attraverso i contratti di collaborazione a progetto o le partite IVA, siano stati mascherati dei rapporti di lavoro subordinato.

Il Ministro Poletti ha ricordato come il ricorso ai menzionati contratti risulti legittimo esclusivamente  in presenza di  ragioni oggettive legate alle esigenze produttive ed organizzative aziendali.

Diversamente, nel caso in cui Co.Co.Pro e Partita Iva siano state utilizzate per sfuggire agli obblighi previdenziali ed assistenziali,  ponendo il lavoratore in condizione di precarietà connaturata da scarse tutele ed inesistenti prospettive di stabilizzazione, i rapporti di lavoro dovranno essere ricondotti nell’alveo della subordinazione.

Nella nota in commento il dicastero ha annunciato, altresì, la costituzione  di un gruppo di lavoro preposto alla  valutazione  dell'eventuale esigenza di semplificazioni e revisioni normative. 

Il prossimo rafforzamento dell’attività ispettiva ripercorre l’esperienza già attuata nel 2013, grazie alla quale circa 19.000 posizioni lavorative, attivate con contratti di collaborazione a progetto e Partita IVA, sono state trasformate in rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Valerio Pollastrini

Illegittimo il licenziamento se le assenze ingiustificate non sono provate

Ai sensi di quanto disposto dall’art.5 della Legge n.604/1966 il datore di lavoro ha l’onere di provare la sussistenza delle ragioni poste a fondamento della giusta causa o del giustificato motivo del recesso.

Nel  caso in cui il licenziamento sia stato irrogato in seguito all’assenza ingiustificata del lavoratore,  il datore di lavoro è dunque chiamato a provare l’effettività dell’assenza, mentre il dipendente potrà esercitare la propria difesa dimostrando gli elementi giustificativi dell’assenza, quali, ad esempio, la riconducibilità della stessa a cause a lui non imputabili.

Tali concetti sono stati ribaditi nella sentenza n.7108 del 26 marzo 2014, nella quale la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo un licenziamento poiché nel corso del giudizio l’imprenditore non aveva fornito alcuna prova delle assenze ingiustificate contestate al lavoratore.

La Suprema Corte ha escluso che la sola indicazione delle assenze nella lettera di contestazione di addebito inoltrata al dipendente sia sufficiente per ritenere perfezionato l’onere della prova, risultando irrilevante, a tal fine,  la mancata indicazione in sede disciplinare di eventuali ragioni giustificatrici da parte del lavoratore.

Valerio Pollastrini