In
seguito ad un’ispezione interna, la Banca Monte Paschi di Siena aveva accertato
che un Direttore di Filiale, attraverso alcune iniziative assunte arbitrariamente,
aveva contribuito a determinare la progressiva
lievitazione delle esposizioni, con conseguenze dannose e rischio per
l’istituto.
L’azienda
aveva però atteso circa tre mesi per dare inizio al procedimento disciplinare
conclusosi con il licenziamento del lavoratore.
La
Corte di Appello di Roma, ritenendo illegittimo il recesso, aveva condannato la banca
a reintegrare il dipendente nel posto di
lavoro ed a risarcirgli il danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto
maturate dal recesso alla reintegra, con detrazione dell’”aliunde perceptum” pari a 21.855,41 €.
La
Corte del merito aveva rilevato che dal
momento in cui la Direzione Generale aveva avuto a disposizione le risultanze
dell’Ispezione a quello in cui il soggetto deputato aveva inviato la
contestazione erano trascorsi circa tre mesi e l’entità delle articolazioni
della struttura aziendale non poteva assumere una rilevanza sufficiente a giustificare il lasso di tempo intercorso
tra il ricevimento del verbale ispettivo e la contestazione.
Dall’istruttoria
era inoltre emerso che durante tale periodo la Banca non aveva svolto ulteriori accertamenti, pertanto, il lasso di
tempo indicato doveva ritenersi ingiustificato e la contestazione tardiva.
L’istituto
aveva ricorso in Cassazione, assumendo che la Corte territoriale non avrebbe
tenuto conto del fatto che la Direzione Generale non sarebbe stata in grado di
formalizzare la contestazione disciplinare immediatamente dopo avere ricevuto
la relazione ispettiva, avendo bisogno di un fisiologico spatium deliberandi per valutare i fatti accertati in sede
ispettiva e per verificare, all’esito della valutazione, la sussistenza di
elementi tali da determinare la necessità di apertura del procedimento
disciplinare, per ottenere la relativa delibera e redigere la lettera di
contestazione.
L’Azienda
aveva poi negato la supposta inerzia del proprio comportamento, avendo provveduto
ad allontanare il dipendente dall’agenzia, privandolo del ruolo di Direttore ,
nelle more dell’ispezione e dell’apertura del procedimento disciplinare, così
denotando, a suo dire, la volontà di
irrogare la sanzione del licenziamento e di valutare la rilevanza disciplinare
del comportamento tenuto dal dipendente.
L’azienda
aveva inoltre contestato la condanna al pagamento di un risarcimento
commisurato ad un intervallo temporale di ben sette anni, evidenziando che la
Corte di Appello non aveva disposto alcuna
indagine diretta a verificare il comportamento colposo del lavoratore,
che, non essendosi attivato per la
ricerca di un nuovo impiego, aveva aggravato i danni economici patiti in
seguito al licenziamento.
La pronuncia
della Cassazione
Nel
rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha rilevato che la tempestività della
contestazione di cui all’art. 7, secondo comma, legge n. 300 del 1970, deve
essere valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore,
costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti.
La
giurisprudenza di legittimità ha già chiarito in passato che, quando il fatto
costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio
dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato ove il
datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la
commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del
giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione
dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere
ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere
la conclusione del processo (1).
Sempre
facendo ricorso ai precedenti della Suprema Corte, gli ermellini hanno
osservato che, con riferimento ai requisiti che qualificano la tempestività
della contestazione e della sanzione disciplinare, sia il principio
dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, che quello della
tempestività del recesso, devono essere intesi in senso relativo, potendo
essere compatibili con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto
e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per una adeguata
valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e delle sue
eventuali giustificazioni.
In
sostanza, ai fini dell’intimazione del
licenziamento disciplinare, la valutazione inerente all’immediatezza della
contestazione deve tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro,
a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda,
e del lavoratore, a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo
dalla loro commissione.
Conseguentemente, la denuncia a carico di un lavoratore per un fatto penalmente rilevante, connesso
con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli
esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione
dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in
relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono
ragionevolmente sussistenti (2).
Sulla
base dei richiamati principi, un coerente
bilanciamento dei diversi interessi delle parti, sottesi al procedimento di
disciplina, non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei
fatti accertati e nella conseguente denuncia all’autorità inquirente
circostanze esonerative dall’obbligo di
immediata contestazione.
Tornando
alla fattispecie in esame, la Suprema Corte ha affermato che il giudice di
merito avesse correttamente ritenuto violato il principio di tempestività nella
tardiva contestazione disciplinare
inviata dal Dipartimento Risorse Umane e pervenuta al lavoratore soltanto tre
mesi dopo che il verbale ispettivo era
pervenuto alla Direzione Generale.
Sul
punto, sempre la Cassazione ha ribadito in diverse circostanze come gravi sul datore di lavoro l’onere di
provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto,
giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro
contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività
dell’esercizio del potere disciplinare (3).
Nel
giudizio di Appello era stata congruamente illustrata l’eccessiva protrazione temporale della
vicenda disciplinare, non giustificata neanche dall’esigenza di attesa dello
svolgimento di un processo penale, non essendo stato dimostrato che la
struttura dell’azienda, per dimensioni ed articolazione delle procedure interne
in materia disciplinare, fosse tale da
giustificare l’attesa di tempi tecnici adeguati e comunque non potendo
difficoltà o carenze organizzative pregiudicare il diritto del lavoratore ad
una pronta effettiva difesa, senza considerare il giusto affidamento del
prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile
possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, non essendo
l’esercizio del potere disciplinare un obbligo bensì una facoltà (4).
Parimenti
infondato, a detta della Cassazione, l’assunto della mancata valutazione del
comportamento negligente del prestatore che avrebbe dovuto mantenere un
comportamento diverso da quello inerte tenuto nel periodo intercorrente tra il
licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo.
Grava
infatti sul datore di lavoro la prova del fatto che il lavoratore licenziato abbia
assunto nel frattempo una nuova occupazione ed abbia percepito importi idonei a
ridurre l’entità del danno.
Tale
principio è stato reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità,
in base alla quali, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum” dalle
retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la
negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che
comunque risulti, da qualsiasi parte venga la prova, che il lavoratore abbia
trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, essendo il
fatto idoneo a ridurre l’entità del danno risarcibile (5).
In
virtù delle esposte considerazioni la
Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda e, nel confermare
l’illegittimità del recesso nonché il diritto del lavoratore al risarcimento
del danno disposto dalla Corte di Appello, ha condannato la Banca Monte Paschi
di Siena al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in
4.500,00 per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di
legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., sentenza n.7983 del 27 marzo
2008;
(2)
-
Cass., sentenza n.1101/2007; Cass.,
sentenza n.4502/2008;
(3)
-
Cass., sentenza n.1101/2007; Cass.,
sentenza n.2023/2006;
(4)
–
In questo senso Cass., sentenza n.13167/2009;
(5)
-
Cass., sentenza n.5676 del 10 aprile
2012; Cass., sentenza n. 21919 del 26 ottobre 2010;
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