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venerdì 4 aprile 2014

Licenziamento disciplinare – Immediatezza della contestazione

In merito al principio dell’immediatezza della contestazione, la Corte di Cassazione, nella sentenza n.4724 del 27 febbraio 2014, ha affermato che, nel caso in cui  il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, la sanzione del licenziamento possa essere irrogata non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale consenta ragionevolmente di ritenere sussistente l’illecito.

In seguito ad un’ispezione interna, la Banca Monte Paschi di Siena aveva accertato che un Direttore di Filiale, attraverso alcune iniziative assunte arbitrariamente, aveva contribuito a determinare la progressiva lievitazione delle esposizioni, con conseguenze dannose e rischio per l’istituto.

L’azienda aveva però atteso circa tre mesi per dare inizio al procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento del lavoratore.

La Corte di Appello di Roma, ritenendo  illegittimo il recesso, aveva condannato la banca  a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro ed a risarcirgli il danno commisurato alle retribuzioni globali di fatto maturate dal recesso alla reintegra, con detrazione dell’”aliunde perceptum” pari a 21.855,41 €.

La Corte del merito aveva rilevato che  dal momento in cui la Direzione Generale aveva avuto a disposizione le risultanze dell’Ispezione a quello in cui il soggetto deputato aveva inviato la contestazione erano trascorsi circa tre mesi e l’entità delle articolazioni della struttura aziendale non poteva assumere una rilevanza sufficiente  a giustificare il lasso di tempo intercorso tra il ricevimento del verbale ispettivo e la contestazione.

Dall’istruttoria era inoltre emerso   che durante tale periodo la  Banca non aveva svolto   ulteriori accertamenti, pertanto, il lasso di tempo indicato doveva ritenersi ingiustificato e la contestazione tardiva.

L’istituto aveva ricorso in Cassazione, assumendo che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto del fatto che la Direzione Generale non sarebbe stata in grado di formalizzare la contestazione disciplinare immediatamente dopo avere ricevuto la relazione ispettiva, avendo bisogno di un fisiologico spatium deliberandi per valutare i fatti accertati in sede ispettiva e per verificare, all’esito della valutazione, la sussistenza di elementi tali da determinare la necessità di apertura del procedimento disciplinare, per ottenere la relativa delibera e redigere la lettera di contestazione.

L’Azienda aveva poi negato la supposta inerzia del proprio comportamento, avendo provveduto ad allontanare il dipendente dall’agenzia, privandolo del ruolo di Direttore , nelle more dell’ispezione e dell’apertura del procedimento disciplinare, così denotando, a suo dire, la volontà  di irrogare la sanzione del licenziamento e di valutare la rilevanza disciplinare del comportamento tenuto dal dipendente.

L’azienda aveva inoltre contestato la condanna al pagamento di un risarcimento commisurato ad un intervallo temporale di ben sette anni, evidenziando che la Corte di Appello non aveva disposto alcuna  indagine diretta a verificare il comportamento colposo del lavoratore, che,  non essendosi attivato per la ricerca di un nuovo impiego, aveva aggravato i danni economici patiti in seguito al licenziamento.

La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso, la Suprema Corte ha rilevato che la tempestività della contestazione di cui all’art. 7, secondo comma, legge n. 300 del 1970, deve essere valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti.

La giurisprudenza di legittimità ha già chiarito in passato che, quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato ove il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo (1).

Sempre facendo ricorso ai precedenti della Suprema Corte, gli ermellini hanno osservato che, con riferimento ai requisiti che qualificano la tempestività della contestazione e della sanzione disciplinare, sia il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito, che quello della tempestività del recesso, devono essere intesi in senso relativo, potendo essere compatibili con un intervallo necessario, in relazione al caso concreto e alla complessità dell’organizzazione del datore di lavoro, per una adeguata valutazione della gravità dell’addebito mosso al dipendente e delle sue eventuali giustificazioni.

In sostanza,  ai fini dell’intimazione del licenziamento disciplinare, la valutazione inerente all’immediatezza della contestazione deve tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro, a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda, e del lavoratore, a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione.

Conseguentemente,  la denuncia a carico di un lavoratore  per un fatto penalmente rilevante, connesso con la prestazione di lavoro, non consente al datore di lavoro di attendere gli esiti del procedimento penale prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore medesimo appaiono ragionevolmente sussistenti (2).

Sulla base dei richiamati principi,  un coerente bilanciamento dei diversi interessi delle parti, sottesi al procedimento di disciplina, non consente di individuare nella potenziale rilevanza penale dei fatti accertati e nella conseguente denuncia all’autorità inquirente circostanze  esonerative dall’obbligo di immediata contestazione.

Tornando alla fattispecie in esame, la Suprema Corte ha affermato che il giudice di merito avesse correttamente ritenuto violato il principio di tempestività nella  tardiva contestazione disciplinare inviata dal Dipartimento Risorse Umane e pervenuta al lavoratore soltanto tre mesi dopo che il verbale ispettivo  era pervenuto alla Direzione Generale.

Sul punto, sempre la Cassazione ha ribadito in diverse circostanze  come gravi sul datore di lavoro l’onere di provare, con puntualità, le circostanze che, sulla base del caso concreto, giustificano il tempo trascorso fra l’accadimento dei fatti rilevanti e la loro contestazione, e che, quindi, evidenzino in concreto la tempestività dell’esercizio del potere disciplinare (3).

Nel giudizio di Appello era stata congruamente illustrata  l’eccessiva protrazione temporale della vicenda disciplinare, non giustificata neanche dall’esigenza di attesa dello svolgimento di un processo penale, non essendo stato dimostrato che la struttura dell’azienda, per dimensioni ed articolazione delle procedure interne in materia disciplinare,  fosse tale da giustificare l’attesa di tempi tecnici adeguati e comunque non potendo difficoltà o carenze organizzative pregiudicare il diritto del lavoratore ad una pronta effettiva difesa, senza considerare il giusto affidamento del prestatore, nel caso di ritardo nella contestazione, che il fatto incriminabile possa non avere rivestito una connotazione “disciplinare”, non essendo l’esercizio del potere disciplinare un obbligo bensì una facoltà (4).

Parimenti infondato, a detta della Cassazione, l’assunto della mancata valutazione del comportamento negligente del prestatore che avrebbe dovuto mantenere un comportamento diverso da quello inerte tenuto nel periodo intercorrente tra il licenziamento illegittimo e la sentenza di annullamento del medesimo.

Grava infatti sul datore di lavoro la prova del fatto che il lavoratore licenziato abbia assunto nel frattempo una nuova occupazione ed abbia percepito importi idonei a ridurre l’entità del danno.

Tale principio è stato reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in base alla quali, ai fini della sottrazione dell’aliunde perceptum” dalle retribuzioni dovute, occorre che il datore di lavoro dimostri quantomeno la negligenza del lavoratore nella ricerca di altra proficua occupazione, o che comunque risulti, da qualsiasi parte venga la prova, che il lavoratore abbia trovato una nuova occupazione e quanto egli ne abbia percepito, essendo il fatto idoneo a ridurre l’entità del danno risarcibile (5).

In virtù delle esposte considerazioni la  Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda e, nel confermare l’illegittimità del recesso nonché il diritto del lavoratore al risarcimento del danno disposto dalla Corte di Appello, ha condannato la Banca Monte Paschi di Siena al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.500,00 per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - Cass., sentenza  n.7983 del 27 marzo 2008;
(2)   - Cass., sentenza  n.1101/2007; Cass., sentenza n.4502/2008;
(3)   - Cass., sentenza  n.1101/2007; Cass., sentenza n.2023/2006;
(4)   – In questo senso Cass., sentenza n.13167/2009;
(5)   - Cass., sentenza  n.5676 del 10 aprile 2012; Cass., sentenza n. 21919 del 26 ottobre 2010;

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