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martedì 1 aprile 2014

Accertamento in merito a demansionamento, mobbing e licenziamento ritorsivo

Nella sentenza n.6965 del 25 marzo 2014 la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in ordine alle richieste di un lavoratore relative all’accertamento della sussistenza del demansionamento, del mobbing e del licenziamento ritorsivo posti in essere ai suoi danni dal datore di lavoro.

Il caso di specie è quello del dipendente di una Banca, inquadrato da ultimo nella III area professionale, II livello retributivo,che, successivamente al licenziamento, si era rivolto al Giudice del lavoro chiedendo la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive  in ragione dell’avanzato diritto ad un inquadramento superiore.

Il lavoratore, ritenendo di essere stato vittima di alcune condotte vessatorie, aveva inoltre  richiesto il risarcimento del danno da mobbing e da demansionamento, contestando, altresì, la legittimità delle sanzioni conservative comminategli e la natura ritorsiva del licenziamento.

Sia il Tribunale di Matera che la Corte di Appello di Potenza avevano rigettato il ricorso.

La Corte di merito aveva escluso l’invocato diritto al superiore inquadramento dopo aver accertato che l’attività svolta dal ricorrente non fosse diretta al raggiungimento dei risultati aziendali - come invece richiesto dalla declaratoria contrattuale del superiore livello retributivo - ma di completamento, è quindi connaturata dall’assenza di autonomia, se non meramente esecutiva.

Quanto al mobbing, il Giudice di Appello aveva ritenuto corretta la pronuncia del Tribunale di primo grado che  ne aveva escluso la ricorrenza in ragione della legittimità delle sanzioni disciplinari e del licenziamento.

Il giudicante, pur confermando la sussistenza del lamentato demansionamento, configuratosi con l’adibizione del lavoratore agli inferiori compiti di Cassiere, aveva escluso che la disposizione della banca avesse  natura discriminatoria.

La Corte era giunta a tale conclusione  in considerazione dell’oggettiva rilevanza della riorganizzazione aziendale addotta come motivo del mutamento di mansioni ed aveva inoltre escluso la configurazione di un danno  patrimoniale, il quanto il lavoratore  nulla al riguardo aveva allegato durante l’istruttoria. Parimenti escluso un danno non patrimoniale, dal momento   che, detto demansionamento, non aveva comportato alcuna conseguenza sull’equilibrio psico-fisico del ricorrente e che la patologia lamentata era risultata  causata da  eventi lavorativi avversativi, vissuti dolorosamente e per nulla accettati.

Relativamente alla tempestività delle sanzioni conservative, la Corte del merito aveva ritenuto che  il lasso di tempo utilizzato dall’azienda per l’irrogazione delle due diverse sanzioni disciplinari, rispettivamente di diciassette e sedici giorni,  non fosse eccessivo e potenzialmente lesivo dei diritti di difesa del lavoratore.

Sia le sanzioni conservative  che il licenziamento erano stati ritenuti legittimi per via dell’accertata sussistenza delle mancanze contestate e dell’illiceità dei comportamenti addebitati al lavoratore, contrastanti con i doveri fondamentali imposti dalla deontologia del dipendente bancario e sufficienti quindi a ledere la fiducia del datore di lavoro.

Il lavoratore aveva quindi adito la  Cassazione, sostenendo che, in ordine alle mansioni corrispondenti, contrariamente a quanto affermato dalla Corte del merito, dall’istruttoria era emerso che il ruolo di referente in materia di Rete Nazionale Interbancaria per tutti gli uffici era stato svolto dal lavoratore con autonomia di funzione.

Per la Suprema Corte si tratta di una censura infondata, in quanto il Giudice di merito, nel maturare la propria motivazione non è tenuto a valutare singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte le argomentazioni prospettate dalle parti. Il giudicante, dopo aver vagliato le une e le altre nel loro complesso, è chiamato  semplicemente ad indicare gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento, dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (1).

Il ricorrente aveva poi  criticato  la sentenza impugnata per aver sostenuto l’insussistenza del mobbing attraverso una motivazione fornita per relationem.

Nel dichiarare infondato anche tale  motivo del ricorso, la Cassazione ha ricordato come la costante   giurisprudenza di legittimità ritenga legittima la motivazione per relationem della sentenza pronunciata in sede di gravame, purché il Giudice di Appello, facendo proprie le argomentazioni del primo Giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile attraverso le due sentenze risulti appagante e corretto.

La Suprema Corte ha ricordato, altresì, che la sentenza di Appello debba essere invece cassata allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata in termini di mera adesione, induca al sospetto  che il Giudice di Appello non sia giunto alla condivisione del giudizio di primo grado attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (2).

Nella specie la Corte di Appello, nel sottolineare come il primo giudice, accertata la legittimità delle sanzioni disciplinari e quella del recesso, avesse correttamente escluso il mobbing, aveva fornito adeguati chiarimenti sulle ragioni poste a fondamento della condivisione dell’iter argomentativo posto a base della sentenza del Tribunale.

Tra le censure promosse contro la pronuncia impugnata, il ricorrente aveva indicato l’incongruità della motivazione con la quale,  pur riconoscendo in demansionamento, la Corte territoriale aveva ugualmente negato ogni diritto risarcitorio del danno, sia patrimoniale che  non patrimoniale.

La Cassazione ha ritenuto infondati anche questi rilievi.

La Corte del merito, invero, dopo aver riconosciuto che l’attribuzione al lavoratore delle mansioni di cassiere  ne avesse comportato il demansionamento rispetto all’inquadramento precedentemente rivestito, aveva rigettato la domanda del risarcimento del danno patrimoniale in  difetto di  qualsiasi allegazione e prova fornita nel ricorso.

Il risarcimento del danno non patrimoniale – intendendosi per tale il danno biologico – era stato invece negato in quanto la patologia lamentata, oltre a non aver determinato conseguenza alcuna sull’equilibrio psico-fisico del lavoratore, era risultata causata da eventi lavorativi avversativi vissuti dolorosamente e per nulla accettati.

Sul punto, a detta della Cassazione, la sentenza impugnata, conformandosi alla giurisprudenza di legittimità (3), appare  congrua, adeguatamente motivata e formalmente logica nel disconoscere  il danno patrimoniale in assenza di  prova ed allegazione.

Ugualmente corretto il diniego del risarcimento del danno biologico, dal momento che l’analisi delle risultanze della disposta  Ctu aveva accertato che il demansionamento non aveva causato alcuna patologia psico-fisica ed aveva inoltre escluso che le conseguenze lamentate dal ricorrente fossero collegabili alla situazione fattuale determinatasi nel mutamento della sua posizione lavorativa.

Il lavoratore aveva inoltre presunto  l’omessa motivazione in ordine alla natura ritorsiva dell’esercizio del potere disciplinare, affermando  che la consecuzione temporale degli accadimenti fosse la prima prova delle ragioni ritorsive e discriminatorie che avevano determinato il suo licenziamento.

Anche questa  censura è stata ritenuta infondata.

La Corte del merito aveva escluso la natura ritorsiva dell’irrogazione delle sanzioni conservative e del successivo licenziamento sul coerente rilievo della legittimità sia delle sanzioni disciplinari che del recesso, così escludendo implicitamente ogni collegamento teleologico tra esercizio del potere disciplinare ed azioni giudiziarie intraprese dal lavoratore nei confronti della Banca.

Con l’ultimo motivo di ricorso il lavoratore aveva prospettato la violazione del principio di diritto in materia disciplinare  nonché vizio di motivazione, assumendo l’erronea valutazione del giudicante  sulle varie contestazioni disciplinari e sulla legittimità del licenziamento.

Anche questi ultimi rilievi, per come formulati, sono stati ritenuti inammissibili, dal momento che  alla Cassazione non può essere demandata  l’individuazione di quali  argomentazioni siano rapportabili alla violazione di leggi e quali, invece, al vizio di motivazione. A tal proposito, la giurisprudenza (4) impone al ricorrente l’onere di indicare con precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto, per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di Cassazione, il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata (5).

Per tutte le richiamate motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 4.500,00 € per compensi professionali  e 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - Cass., sentenza  n.5748 del 25 maggio 1995;
(2)   - Cass., sentenza  n.15483 dell’11 giugno 2008;  Cass., sentenza  n.7347 dell’11 maggio 2012;
(3)   - Cass., sentenza  n.29832 del 19 dicembre 2008; Cass., sentenza    n.4479 del 21 marzo 2012;
(4)   - Cass., sentenza  n.10420 del 18 maggio 2005;
(5)   - Cass., sentenza  n.6225  del 23 marzo 2005; Cass., sentenza  n.21611 del 20 settembre 2013;

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