Il
caso di specie è quello del dipendente di una Banca, inquadrato da ultimo nella
III area professionale, II livello retributivo,che, successivamente al
licenziamento, si era rivolto al Giudice del lavoro chiedendo la condanna del datore
di lavoro al pagamento delle differenze retributive in ragione dell’avanzato diritto ad un
inquadramento superiore.
Il
lavoratore, ritenendo di essere stato vittima di alcune condotte vessatorie,
aveva inoltre richiesto il risarcimento
del danno da mobbing e da demansionamento, contestando, altresì, la legittimità delle
sanzioni conservative comminategli e la natura ritorsiva del licenziamento.
Sia
il Tribunale di Matera che la Corte di Appello di Potenza avevano rigettato il
ricorso.
La
Corte di merito aveva escluso l’invocato diritto al superiore inquadramento dopo
aver accertato che l’attività svolta dal ricorrente non fosse diretta al
raggiungimento dei risultati aziendali - come invece richiesto dalla
declaratoria contrattuale del superiore livello retributivo - ma di
completamento, è quindi connaturata dall’assenza di autonomia, se non meramente
esecutiva.
Quanto
al mobbing, il Giudice di Appello aveva ritenuto corretta la pronuncia del Tribunale
di primo grado che ne aveva escluso la
ricorrenza in ragione della legittimità delle sanzioni disciplinari e del licenziamento.
Il
giudicante, pur confermando la sussistenza del lamentato demansionamento,
configuratosi con l’adibizione del lavoratore agli inferiori compiti di Cassiere,
aveva escluso che la disposizione della banca avesse natura discriminatoria.
La
Corte era giunta a tale conclusione in
considerazione dell’oggettiva rilevanza della riorganizzazione aziendale
addotta come motivo del mutamento di mansioni ed aveva inoltre escluso la
configurazione di un danno patrimoniale,
il quanto il lavoratore nulla al riguardo aveva allegato durante l’istruttoria.
Parimenti escluso un danno non patrimoniale, dal momento che,
detto demansionamento, non aveva comportato alcuna conseguenza sull’equilibrio
psico-fisico del ricorrente e che la patologia lamentata era risultata causata da eventi lavorativi avversativi, vissuti
dolorosamente e per nulla accettati.
Relativamente
alla tempestività delle sanzioni conservative, la Corte del merito aveva
ritenuto che il lasso di tempo utilizzato
dall’azienda per l’irrogazione delle due diverse sanzioni disciplinari,
rispettivamente di diciassette e sedici giorni, non fosse eccessivo e potenzialmente lesivo
dei diritti di difesa del lavoratore.
Sia
le sanzioni conservative che il licenziamento
erano stati ritenuti legittimi per via dell’accertata sussistenza delle mancanze
contestate e dell’illiceità dei comportamenti addebitati al lavoratore, contrastanti
con i doveri fondamentali imposti dalla deontologia del dipendente bancario e
sufficienti quindi a ledere la fiducia del datore di lavoro.
Il
lavoratore aveva quindi adito la Cassazione, sostenendo che, in ordine alle mansioni
corrispondenti, contrariamente a quanto affermato dalla Corte del merito, dall’istruttoria
era emerso che il ruolo di referente in materia di Rete Nazionale Interbancaria
per tutti gli uffici era stato svolto dal lavoratore con autonomia di funzione.
Per
la Suprema Corte si tratta di una censura infondata, in quanto il Giudice di
merito, nel maturare la propria motivazione non è tenuto a valutare
singolarmente tutte le risultanze processuali ed a confutare tutte le argomentazioni
prospettate dalle parti. Il giudicante, dopo aver vagliato le une e le altre
nel loro complesso, è chiamato semplicemente
ad indicare gli elementi sui quali intende fondare il proprio convincimento,
dovendosi ritenere disattesi, per implicito, tutti gli altri rilievi e
circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, siano logicamente
incompatibili con la decisione adottata (1).
Il
ricorrente aveva poi criticato la sentenza impugnata per aver sostenuto l’insussistenza
del mobbing attraverso una motivazione fornita per relationem.
Nel
dichiarare infondato anche tale motivo del
ricorso, la Cassazione ha ricordato come la costante giurisprudenza di legittimità ritenga legittima
la motivazione per relationem della
sentenza pronunciata in sede di gravame, purché il Giudice di Appello, facendo
proprie le argomentazioni del primo Giudice, esprima, sia pure in modo sintetico,
le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di
impugnazione proposti, in modo che il percorso argomentativo desumibile
attraverso le due sentenze risulti
appagante e corretto.
La
Suprema Corte ha ricordato, altresì, che la sentenza di Appello debba essere
invece cassata allorquando la laconicità della motivazione adottata, formulata
in termini di mera adesione, induca al sospetto che il Giudice di Appello non sia giunto alla condivisione
del giudizio di primo grado attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza
dei motivi di gravame (2).
Nella
specie la Corte di Appello, nel sottolineare come il primo giudice, accertata
la legittimità delle sanzioni disciplinari e quella del recesso, avesse
correttamente escluso il mobbing, aveva fornito adeguati chiarimenti sulle
ragioni poste a fondamento della condivisione dell’iter argomentativo posto a
base della sentenza del Tribunale.
Tra
le censure promosse contro la pronuncia impugnata, il ricorrente aveva indicato
l’incongruità della motivazione con la quale, pur riconoscendo in demansionamento, la Corte
territoriale aveva ugualmente negato ogni diritto risarcitorio del danno, sia patrimoniale
che non patrimoniale.
La
Cassazione ha ritenuto infondati anche questi rilievi.
La
Corte del merito, invero, dopo aver riconosciuto che l’attribuzione al
lavoratore delle mansioni di cassiere ne
avesse comportato il demansionamento rispetto all’inquadramento precedentemente
rivestito, aveva rigettato la domanda del risarcimento del danno patrimoniale
in difetto di qualsiasi allegazione e prova fornita nel
ricorso.
Il
risarcimento del danno non patrimoniale – intendendosi per tale il danno
biologico – era stato invece negato in quanto la patologia lamentata, oltre a
non aver determinato conseguenza alcuna sull’equilibrio
psico-fisico del lavoratore, era risultata causata da eventi lavorativi
avversativi vissuti dolorosamente e per nulla accettati.
Sul
punto, a detta della Cassazione, la sentenza impugnata, conformandosi alla
giurisprudenza di legittimità (3), appare congrua, adeguatamente motivata e formalmente
logica nel disconoscere il danno
patrimoniale in assenza di prova ed
allegazione.
Ugualmente
corretto il diniego del risarcimento del danno biologico, dal momento che l’analisi
delle risultanze della disposta Ctu
aveva accertato che il demansionamento non aveva causato alcuna patologia
psico-fisica ed aveva inoltre escluso che le conseguenze lamentate dal
ricorrente fossero collegabili alla situazione fattuale determinatasi nel
mutamento della sua posizione lavorativa.
Il
lavoratore aveva inoltre presunto l’omessa
motivazione in ordine alla natura ritorsiva dell’esercizio del potere
disciplinare, affermando che la
consecuzione temporale degli accadimenti fosse la prima prova delle ragioni
ritorsive e discriminatorie che avevano determinato il suo licenziamento.
Anche
questa censura è stata ritenuta infondata.
La
Corte del merito aveva escluso la natura ritorsiva dell’irrogazione delle
sanzioni conservative e del successivo
licenziamento sul coerente rilievo della legittimità sia delle sanzioni
disciplinari che del recesso, così escludendo implicitamente ogni collegamento teleologico tra esercizio del
potere disciplinare ed azioni giudiziarie intraprese dal lavoratore nei
confronti della Banca.
Con
l’ultimo motivo di ricorso il lavoratore aveva prospettato la violazione del
principio di diritto in materia disciplinare
nonché vizio di motivazione, assumendo l’erronea valutazione del
giudicante sulle varie contestazioni
disciplinari e sulla legittimità del licenziamento.
Anche
questi ultimi rilievi, per come formulati, sono stati ritenuti inammissibili,
dal momento che alla Cassazione non può
essere demandata l’individuazione di
quali argomentazioni siano rapportabili
alla violazione di leggi e quali, invece, al vizio di motivazione. A tal
proposito, la giurisprudenza (4) impone al ricorrente l’onere di indicare con
precisione gli asseriti errori contenuti nella sentenza impugnata, in quanto,
per la natura di giudizio a critica vincolata propria del processo di Cassazione,
il singolo motivo assolve alla funzione condizionante il devolutum della sentenza impugnata (5).
Per
tutte le richiamate motivazioni, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso
ed ha condannato il lavoratore al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, liquidate in 4.500,00 € per compensi professionali e 100,00 € per esborsi, oltre accessori di
legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., sentenza n.5748 del 25 maggio
1995;
(2)
-
Cass., sentenza n.15483 dell’11 giugno
2008; Cass., sentenza n.7347 dell’11 maggio 2012;
(3)
-
Cass., sentenza n.29832 del 19 dicembre
2008; Cass., sentenza n.4479 del 21 marzo 2012;
(4)
-
Cass., sentenza n.10420 del 18 maggio
2005;
(5)
-
Cass., sentenza n.6225 del 23 marzo 2005; Cass., sentenza n.21611 del 20 settembre 2013;
Nessun commento:
Posta un commento