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lunedì 16 dicembre 2013

Legittima l’impugnativa del licenziamento presentata dalla Camera del lavoro


Nella sentenza n.26514 del 27 novembre 2013 la Cassazione ha ribadito la legittimità dell’impugnativa del licenziamento formulata dalla Camera del Lavoro,  anche attraverso un rappresentante sprovvisto di procura e senza necessità di una ratifica del lavoratore.

Il caso è quello del licenziamento intimato ad un lavoratore la cui impugnativa, nel rispetto del termine di 60 giorni, era stata formalizzata attraverso una lettera della Camera del lavoro alla quale il dipendente si era rivolto.

Il Tribunale di Marsala, nel corso del primo grado di giudizio, aveva disposto l’annullamento del recesso.

Successivamente, la Corte di Appello di Palermo aveva però rigettato la domanda del lavoratore, ritenendo che l'impugnativa del licenziamento formulata dalla Camera del Lavoro di Castelvetrano non fosse idonea ad impedire la decadenza ex art. 6 della Legge n. 604/66 perché al rappresentante del sindacato  che l'aveva sottoscritta non era stata previamente conferita una procura in forma scritta e dovendosi ritenere esclusa anche una successiva ratifica.

Il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione censurando la decisione della Corte palermitana per vizi di motivazione e violazione di legge.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte, nell’accogliere le doglianze del lavoratore, ha ricordato che il primo comma dell’art.6 della Legge n.604/1966 recita che:  "il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta ovvero dalla comunicazione, anch'essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento scritto".

Nel motivare la decisione in favore del lavoratore, i Giudici della Cassazione pongono l’accento sul fatto che sia la stessa norma di riferimento a disporre che l’impugnativa del recesso possa essere effettuata "anche attraverso l'intervento dell'organizzazione sindacale".

Tra l’altro, la titolarità del sindacato nell’impugnare l’atto di licenziamento,  anche attraverso un rappresentante sprovvisto di procura e senza necessità di una ratifica del lavoratore, è da tempo riconosciuta sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza

La Suprema Corte ha chiarito, inoltre, che, in casi come quello di specie, il sindacato deve considerarsi un rappresentante legale equiparato dalla legge del 1966 al lavoratore.

In capo al sindacato sussiste quindi  il potere di impugnazione del recesso sulla base della presunzione che l'associazione sindacale, in quanto a conoscenza della situazione aziendale, sia in grado di valutare al meglio gli interessi del lavoratore, almeno impedendo che si verifichi il termine decadenziale e si possa, poi, valutare con l'interessato l'opportunità di una prosecuzione dell'impugnazione in sede giudiziaria.

Per tali ragioni la Suprema Corte ha dunque rinviato la causa per nuovo esame alla Corte d'Appello di Palermo in diversa composizione.

Valerio Pollastrini

Conguaglio di fine anno 2013 dei contributi previdenziali e assistenziali

Con l'approssimarsi della fine dell'anno solare l'Inps ha diramato la Circola n.174/2013 recante alcuni chiarimenti sulle operazioni di conguaglio riferite ai contributi previdenziali e assistenziali.
 
 

sabato 14 dicembre 2013

Criteri per la determinazione del danno professionale da demansionamento


In caso di demansionamento, la sentenza della Corte di Cassazione n.26517 del 14 novembre 2013 ha chiarito che il risarcimento del danno professionale può essere determinato in via equitativa, in considerazione del curriculum del lavoratore, della durata della condizione di inattività forzata e della perdita dei compensi variabili.

Un dirigente della Rai che, con la qualifica di vice direttore, aveva svolto per anni l'incarico di "seguire la programmazione dell'intrattenimento comico", e che quindi si era occupato dell’ideazione e  realizzazione dei programmi, a partire dal gennaio del 2001, in seguito alla nomina di un altro vicedirettore delegato all’intrattenimento, era stato privato di ogni incarico.

Il lavoratore aveva agito dinnanzi al Tribunale di Milano per la reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza e per la condanna dell’azienda al risarcimento del danno.

In accoglimento della domanda, il Tribunale aveva stimato in via equitativa  il risarcimento del danno professionale in misura pari alla retribuzione relativa al periodo del demansionamento ed aveva, inoltre, disposto in favore del lavoratore l’ulteriore risarcimento del danno derivato  dalla perdita della parte variabile della retribuzione.

Nel secondo grado di giudizio la Corte di Appello di Milano aveva confermato quanto stabilito dal Tribunale in considerazione dell’estrema gravità del demansionamento al quale il dirigente era stato forzato, protrattosi per lungo tempo e tale da privare  il lavoratore di una concreta attività di direzione in ogni ambito della sua professionalità, dall’attività progettuale a quella di scelta di programmi e dei relativi soggetti che dovevano dirigerli o condurli, dell’attività organizzativa e di quella del controllo dei budget per la realizzazione.

Dalle risultanze del procedimento era risultato pacifico il notevole background professionale del dirigente oltre al fatto che l'inattività aveva compromesso il mantenimento non solo di un’esperienza professionale, ma anche la chance di sviluppo di carriera.

Tali elementi, a detta della Corte di merito, assumevano un valore probatorio, anche presuntivo, di un sicuro danno professionale.

L’analisi dei fatti aveva inoltre mostrato l’evoluzione crescente di un duplice indirizzo del danno: uno strettamente patrimoniale, relativo  al deterioramento delle esperienze acquisite ed al venir meno di sicure e sempre più possibili prospettive di carriera future, l’altro, in termini di immagine, collegato proprio alle prospettive di carriera. Si tratta quindi di danni intrinsecamente connessi e, perciò,  fondanti la doglianza relativa alla intervenuta duplicazione degli stessi, dovendosi escludere la somma liquidata a titolo di danno all'immagine.

La liquidazione del danno attraverso il riconoscimento della  somma equivalente alla retribuzione mensilmente percepita per tutti i mesi di dequalificazione ed il riconoscimento delle somme variabili non liquidate, era dunque apparsa al Giudice di Appello idonea  a compensare i pregiudizi arrecati al lavoratore  dall'inadempimento aziendale.

A proposito della retribuzione variabile, il giudice aveva infatti attestato che la mancata prestazione lavorativa secondo i termini contrattualmente concordati aveva impedito al ricorrente di ottenerne il percepimento e dunque anche tale danno, l'unico realmente non determinato in via equitativa, doveva essere riconosciuto.

In seguito alle risultanze del giudizio di Appello, la Rai aveva proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che, in tema di demansionamento, riconosce il diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale anche attraverso la prova per presunzione, sulla base cioè di elementi quali caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale ed effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto.

La Cassazione ha quindi concluso affermando che, sia nel riconoscimento della sussistenza del danno, che nella sua liquidazione in via equitativa, la Corte di Appello aveva correttamente rispettato i criteri sopra citati e per tale ragione ne ha confermato la decisione.

Valerio Pollastrini

Chiarimenti sulle cause ostative al rilascio del Durc


In risposta all’Interpello n.33/2013 il Ministero del lavoro ha rilasciato alcune considerazioni sulla corretta interpretazione del DM 24 ottobre 2007, recante le modalità di rilascio ed i contenuti analitici del Documento Unico di Regolarità Contributiva.

L’istanza era stata presentata dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro che aveva chiesto dei chiarimenti in ordine alla corretta individuazione dell’arco temporale di riferimento di non rilascio del DURC in presenza delle cause ostative indicate nella Tabella A di cui al medesimo Decreto.

Il Ministero ha ricordato preliminarmente che la Tabella A del suddetto Decreto stabilisce che, in presenza di violazioni delle disposizioni penali e amministrative in materia di tutela delle condizioni di lavoro definitivamente accertate, l’impresa non possa ottenere il DURC utile al godimento di benefici “normativi e contributivi” per un determinato periodo di tempo che può raggiungere anche i 24 mesi.

Tali periodi decorrono, evidentemente, dal momento in cui gli illeciti che ne costituiscono il presupposto sono definitivamente accertati. Lo stesso Ministero, infatti, aveva chiarito nella  circolare n.5/2008 che “ai fini dell’impedimento al rilascio di un DURC, dette violazioni devono essere state accertate con sentenza passata in giudicato ovvero con ordinanza ingiunzione (evidentemente non impugnata); viceversa, l’estinzione delle violazioni attraverso la procedura della prescrizione obbligatoria ovvero, per quanto concerne le violazioni amministrative, attraverso il pagamento in misura ridotta ex art. 16 della L. n. 689/1981 non integra il presupposto della causa ostativa”.

Una volta esaurito il periodo di non rilascio del DURC l’impresa potrà, pertanto, tornare a godere di benefici “normativi e contributivi”, ivi compresi quei benefici di cui è ancora possibile usufruire in quanto non legati a particolari vincoli temporali.

Viceversa, per tutto il periodo di non rilascio del DURC, non sarà possibile usufruire di benefici concernenti, ad esempio, l’abbattimento degli oneri contributivi nei confronti dell’INPS nel caso in cui gli stessi vengano assolti in base a scadenze legali mensili.

La risposta del Ministero chiarisce che, trattandosi di agevolazioni correlate ad un preciso termine di fruizione, la regolarità contributiva deve sussistere con riferimento al mese dell’erogazione ovvero al periodo temporale all’interno del quale si colloca l’erogazione prevista dalla normativa di riferimento che, per ciascun periodo retributivo, legittima il datore di lavoro a fruire dell’agevolazione.  Per tale ragione, nel caso in cui la richiesta di rimborso o di fruizione dell’agevolazione venga effettuata in un periodo successivo, l’Inps, per poter riconoscere l’agevolazione, deve compiere la verifica di regolarità in riferimento all’arco  temporale in cui l’agevolazione stessa avrebbe dovuto essere fruita.

Da ultimo il Ministero ha ricordato alcune novità introdotte dall’art. 31 del D.L. n. 69/2013 ed, in particolare, quanto disposto dal comma 8 ter, in base al quale “ai fini della fruizione dei benefici normativi e contributivi in materia di lavoro e legislazione sociale e per finanziamenti e sovvenzioni previsti dalla normativa dell’Unione europea, statale e regionale, il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC) ha validità di centoventi giorni dalla data del rilascio”.

A tal proposito la risposta all’Interpello in commento specifica che l’eventuale sospensione del DURC e quindi dei benefici “normativi e contributivi” in forza di una causa ostativa al suo rilascio opererà necessariamente a far data dalla scadenza dei 120 giorni di un eventuale Documento Unico rilasciato in precedenza per la stessa finalità.

Va inoltre chiarito che la disciplina delle c.d. cause ostative al rilascio del DURC trova applicazione anche per i Documenti acquisiti d’ufficio dalle Pubbliche Amministrazioni procedenti le quali, ai sensi del successivo comma 8 quater, “ai fini dell’ammissione delle imprese di tutti i settori ad agevolazioni oggetto di cofinanziamento europeo finalizzate alla realizzazione di investimenti produttivi”, sono tenute a verificare, in sede di concessione delle agevolazioni, la regolarità contributiva del beneficiario, acquisendo d’ufficio il DURC.

In tal caso dette Amministrazioni dovrebbero attivare i controlli, eventualmente a campione, in merito alla presentazione alle competenti DTL delle autocertificazioni relative alla non commissione degli illeciti ostativi al rilascio del DURC.

Valerio Pollastrini

mercoledì 11 dicembre 2013

Il lavoratore non ha obblighi di reperibilità durante le ferie


Nella sentenza n.27057 del 3 dicembre 2013 la Corte di Cassazione è stata chiamata a stabilire se  il datore di lavoro abbia la possibilità di interrompere le ferie dei dipendenti, richiamandoli a lavoro per ragioni di servizio.

Nel caso di specie il Comune di Revere aveva richiamato in servizio un  dipendente assente per ferie, attraverso  una comunicazione indirizzata presso l’abituale domicilio del lavoratore.

Trovandosi in altra località, il dipendente non aveva però ricevuto l’ordine di rientro  e, conseguentemente, non si era presentato al lavoro nella data pretesa dal datore.

L’assenza  era stata ritenuta ingiustificata dal Comune che, per tale motivo, aveva disposto il licenziamento del lavoratore, sostenendo che il contratto collettivo di riferimento prevede la possibilità di sospendere le ferie per ragioni di servizio e che, da tale disposizione, è possibile desumere l’obbligo del lavoratore  di comunicare all’amministrazione la dimora scelta per il godimento delle ferie al fine di consentire l’invio del possibile ordine di rientro.

Il dipendente si era quindi rivolto al Tribunale di Mantova per chiedere l’annullamento del licenziamento, sostenendo di essersi legittimamente allontanato dal proprio domicilio per godere del periodo feriale concessogli.

Il Tribunale aveva accolto le richieste del ricorrente ed aveva annullato il licenziamento, escludendo, in particolare, che  il lavoratore avesse un obbligo di reperibilità durante le ferie, salvo in caso di interruzione delle stesse per malattia.

Questa decisione era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello di Brescia.

Contro la sentenza della Corte territoriale il Comune aveva proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, confermando l’illegittimità del recesso.

Per la  Cassazione  il datore di lavoro ha il diritto di conoscere il domicilio del lavoratore  per poter inviare delle comunicazioni al dipendente solamente nel corso del rapporto e non durante il legittimo godimento delle ferie.

Il lavoratore è infatti libero di godere del periodo di riposo secondo le modalità e nelle località che ritenga più congeniali al recupero delle sue energie psicofisiche.

Costringere il lavoratore a far conoscere al datore di lavoro i luoghi e tempi dei suoi spostamenti, oltre ad una inammissibile e gravosa attività di comunicazione formale, magari giornaliera, dei suoi spostamenti, sarebbe contrario alla natura costituzionalmente rilevante del diritto al riposo e lesiva, altresì, delle esigenze di privacy.

Per motivare la propria decisione la Corte ha analizzato   la  normativa contrattuale applicata al caso di specie che, a proposito della sospensione del periodo feriale, dispone  che, nel caso in cui le ferie siano interrotte per motivi di servizio, il dipendente ha diritto al rimborso delle spese documentate per il viaggio di rientro in sede e per quello di ritorno al luogo di svolgimento delle ferie, nonché all'indennità di missione per la durata del medesimo viaggio; il dipendente ha inoltre diritto al rimborso delle spese anticipate per il periodo di ferie non goduto.

Oltre alla possibile sospensione del periodo di riposo per cause di servizio, la stessa disposizione contrattuale prevede, inoltre, che le ferie possono essere sospese da malattie, adeguatamente e debitamente documentate, che si siano protratte per più di 3 giorni o abbiano dato luogo a ricovero ospedaliero. In questo caso, l'amministrazione deve essere stata posta in grado di accertare la sussistenza della malattia attraverso la tempestiva informazione da parte del lavoratore.

Dall’analisi della normativa contrattuale la Cassazione non ha riscontrato alcun potere totalmente discrezionale del datore di lavoro di interrompere o sospendere il periodo feriale già in godimento, risultando allo scopo insufficiente la generica locuzione "Qualora le ferie già in godimento siano interrotte o sospese per motivi di servizio" che, di per sé, non chiarisce le modalità con cui l'interruzione o la sospensione possa essere adottata e debba essere comunicata.

La Suprema Corte ha ricordato che, nonostante la giurisprudenza di legittimità (1) abbia affermato il diritto del datore di lavoro di modificare il periodo feriale, anche soltanto per una riconsiderazione delle esigenze aziendali, ha, nel contempo, ritenuto che le modifiche debbano essere comunicate al lavoratore con congruo preavviso.

In base al richiamato principio, per l’interruzione del periodo feriale, è richiesta una comunicazione tempestiva ed efficace, idonea cioè ad essere conosciuta dal lavoratore prima dell'inizio del godimento delle ferie, tenendo conto che il lavoratore non è tenuto, salvo patti contrari, ad essere reperibile durante il godimento delle ferie (2).  

In conclusione, la Corte di Cassazione ha  ribadito la totale libertà del lavoratore di scegliere le modalità e la località per il godimento delle ferie.

Salvo specifici accordi individuali o collettivi, l’istituto della “reperibilità” può riguardare quindi il lavoratore solo durante il servizio e non nell’arco temporale di effettiva fruizione delle ferie.

Valerio Pollastrini

 

(1)     - Cass., sentenza n. 1557\2000;

(2)     - salvo il diverso caso di malattia insorta nel periodo feriale, al fine di sospenderne il decorso e consentire al datore di lavoro i controlli sanitari: Cass., sentenza n. 12406\1999;

lunedì 9 dicembre 2013

Scade il 31 gennaio 2014 il termine per presentare le domande di stabilizzazione delle associazioni in partecipazione con apporto di lavoro


Negli ultimi tempi il legislatore, sia la Riforma del lavoro che con il c.d. “Decreto Lavoro 2013” è intervenuto pesantemente sull’istituto dell’associazione in partecipazione con apporto di lavoro.

Se con la Riforma è stato introdotto un numero massimo di associati all’interno di un’azienda non  superiore a 3 unità, il Decreto Lavoro ha escluso tale limitazione per le imprese a scopo mutualistico, agli associati individuati mediante elezione dall’organo assembleare di cui all’art. 2540, il cui contratto sia certificato dagli organismi di cui all’art. 76 del D. lgs 276/2003, e successive modificazioni, nonché in relazione al rapporto fra produttori e artisti, interpreti, esecutori, volto alla realizzazione di registrazioni sonore, audiovisive o di sequenze di immagini in movimento.

Lo stesso Decreto Lavoro ha inoltre previsto, sempre allo scopo di limitare l’uso dell’associazione in partecipazione, al fine di evitarne possibili gli abusi,  una particolare procedura finalizzata alla stabilizzazione dell’occupazione mediante la trasformazione del rapporto in lavoro subordinato a tempo indeterminato.

Con la circolare n. 167 del 5 dicembre 2013, l’INPS ha chiarito i limiti e le modalità di attuazione della suddetta stabilizzazione.

Si tratta di una procedura subordinata alla stipula di contratti collettivi, nel periodo intercorrente tra il 1° giugno ed il 30 settembre 2013. Tali contratti devono prevedere l’assunzione, entro tre mesi, dei soggetti già associati in partecipazione con apporto di lavoro, con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato anche sotto forma di apprendistato.

In presenza degli specifici presupposti, la norma prevede, inoltre, la possibilità di utilizzare gli incentivi previsti dalla legislazione vigente per questi nuovi rapporti di lavoro.

Soggetti interessati
Potranno accedere alla procedura di stabilizzazione  anche le aziende che siano destinatarie di provvedimenti amministrativi o giurisdizionali non definitivi concernenti la qualificazione dei pregressi rapporti.

Per quanto riguarda i lavoratori, invece, la disposizione fa riferimento a soggetti già parti, in veste di associati, di contratti di associazione in partecipazione con apporto di lavoro, anche se sugli stessi siano pendenti accertamenti ispettivi o siano stati adottati provvedimenti amministrativi o giurisdizionali non definitivi.

Atti di conciliazione
La norma prevede che, in seguito alla stipulazione dei contratti collettivi, i lavoratori interessati sottoscrivano un atto di conciliazione ex art.410 c.p.c. relativo a tutti  i diritti maturati nei pregressi rapporti di associazione.

Pur se immediata, l’efficacia dell’atto conciliativo è risolutivamente condizionata al versamento alla Gestione separata INPS, da parte del datore di lavoro, di una somma pari al 5% della quota di contribuzione a carico degli associati per i periodi di vigenza dei contratti di associazione in partecipazione e comunque per un periodo non superiore a sei mesi, riferito a ciascun lavoratore assunto a tempo indeterminato.

Verifica degli adempimenti
I datori di lavoro dovranno depositare entro il 31 gennaio 2014, presso le competenti sedi dell’INPS:

·         i contratti collettivi;

·         gli atti di conciliazione;

·         i contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, stipulati con ciascun lavoratore;

·         l’attestazione dell’avvenuto versamento delle somme alla Gestione separata INPS.

L’Istituto potrà così verificare se le assunzioni previste nel contratto collettivo siano state effettuate e se a queste corrispondano altrettanti atti di conciliazione, nonché i relativi versamenti alla Gestione separata.

Gli esiti della verifica dovranno essere comunicati dall’INPS alle competenti Direzioni territoriali del lavoro, individuate in base alla sede legale del datore di lavoro, nonché ai datori di lavoro interessati.

La norma, al fine di evitare situazioni di incertezza che potrebbero ripercuotersi sia sulle aziende che sui lavoratori interessati, raccomanda all’Istituto la massima tempestività nella definizione delle procedure.

Estinzione degli illeciti
Uno degli effetti della stabilizzazione, di sicuro impatto per le aziende, è costituito dall’estinzione degli eventuali illeciti, compresi quelli  in materia di versamenti contributivi, assicurativi e fiscali, accertati anche relativamente a pregressi rapporti di associazione.

L’estinzione degli illeciti riguarderà anche quelli risultanti da attività ispettiva già compiuta entro il 23 agosto 2013,  data di entrata in vigore della L. n. 99/2013.

Le istruzioni operative
Entro il 31 gennaio 2014, i datori di lavoro interessati alla procedura di stabilizzazione dovranno inviare alle competenti sedi INPS la seguente documentazione:

1.     contratto collettivo;

2.     atti di conciliazione;

3.     contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

4.     attestazione dell’avvenuto versamento del contributo straordinario;

5.     domanda di adesione alla stabilizzazione predisposta dall’Istituto.

L’Istituto sarà tenuto ad effettuare la verifica della correttezza degli adempimenti e a comunicarne l’esito, anche con riguardo all’effettività dell’assunzione, alle Direzioni territoriali del lavoro competenti in base alla sede legale dell’azienda.

Valerio Pollastrini

Il datore di lavoro è il solo responsabile dell’infortunio, anche se il lavoratore abbia scelto di utilizzare una scala non idonea


In materia di sicurezza sul lavoro, la Corte di Cassazione, nella sentenza n.27127 del 4 dicembre 2013, ha ricordato che, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del lavoratore, il datore di lavoro può essere esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute. Ne consegue che, una volta esclusa tale condotta, l’imprenditore non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, dovendo egli  proteggere l’incolumità del lavoratore, nonostante la sua eventuale imprudenza e negligenza.

La sentenza in commento prende lo spunto dall’infortunio occorso ad un lavoratore che, durante la sostituzione della lampada di emergenza di un mezzo compattatore, avvalendosi di una scala normale, priva di dispositivi antiscivolo e, pertanto, inidonea all’uso, era caduto dall’altezza di circa 3,5 metri riportando gravi lesioni.
Sia il giudice di primo grado che la Corte di Appello di L’Aquila avevano condannato l’azienda al pagamento, in favore del lavoratore, della somma di  33.168,80 €, oltre interessi legali, a titolo di risarcimento del danno biologico e morale, nonché al pagamento della somma di  2.582,20 €, con aggiunta degli interessi legali.

La Corte territoriale, pur ritenendo il datore di lavoro responsabile dell’infortunio, nella quantificazione delle varie somme risarcitorie aveva attribuito al lavoratore un concorso di colpa in quanto, operaio esperto, avrebbe dovuto usare una scala più sicura presente nel magazzino.

Il lavoratore aveva proposto ricorso per la cassazione della pronuncia di Appello, lamentando che la Corte di merito non avrebbe considerato che, dal verbale ispettivo redatto dai funzionari dell’ASL di L’Aquila, risultava che l’azienda aveva mantenuto in esercizio una scala metallica a forbice - dalla quale era caduto  - priva dei necessari requisiti di idoneità per la sicurezza del lavoro, ed in particolare del dispositivo antisdrucciolevole all’estremità, ed aveva consentito che si effettuassero lavori di manutenzione e riparazione di automezzi compattatori ad un altezza di circa 3-4 metri senza che sui lati aperti verso il vuoto fossero installati parapetti normali con arresto al piede o mezzi di protezione equivalenti, idonei ad impedire la caduta di persone.

Per il ricorrente, il giudice di Appello non avrebbe tenuto conto che in forza dell’art.4 del D.P.R. n. 547/55 il datore di lavoro avrebbe dovuto rendere edotto il lavoratore sul rischio specifico cui era esposto nell'eseguire quella pericolosa operazione, fornire al medesimo i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale, controllare le situazioni di pericolo e che venissero osservate dallo stesso lavoratore le disposizioni in materia di sicurezza.

Per tali ragioni doveva pertanto escludersi l’ipotesi del concorso di colpa del lavoratore nel verificarsi dell’infortunio, essendo pacifico nella giurisprudenza di legittimità che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell’integrità fisica del dipendente, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo il dovere di proteggere l'incolumità di quest’ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza.

In sostanza, secondo la tesi del ricorrente, il datore di lavoro è  interamente responsabile dell’infortunio non solo quando ometta di adottare idonee misure protettive, ma anche quando ometta di controllare e vigilare che di tali misure sia fatto effettivamente uso da parte del lavoratore.


La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, ha richiamato preliminarmente la costante giurisprudenza di legittimità (1) in base alla quale le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso; ne consegue che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore che abbia provocato un infortunio sul lavoro per violazione delle relative prescrizioni, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore; con l'ulteriore conseguenza che l'imprenditore è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità e esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, come pure dell'atipicità ed eccezionalità, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.

La Cassazione ha ricordato, inoltre, come in altre circostanze (2) è stato affermato che il datore di lavoro, in caso di violazione delle norme poste a tutela dell'integrità fisica del lavoratore, è interamente responsabile dell'infortunio che ne sia conseguito e non può invocare il concorso di colpa del danneggiato, avendo egli il dovere di proteggere l'incolumità di quest'ultimo nonostante la sua imprudenza o negligenza; ne consegue che, in tutte le ipotesi in cui la condotta del lavoratore dipendente finisca per configurarsi nell’eziologia dell'evento dannoso come una mera modalità dell'iter produttivo del danno, tale condotta, proprio perché "imposta" in ragione della situazione di subordinazione in cui il lavoratore versa, va addebitata al datore di lavoro, il cui comportamento, concretizzantesi invece nella violazione di specifiche norme antinfortunistiche (o di regole di comune prudenza) e nell’ordine di eseguire incombenze lavorative pericolose, funge da unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso.
 
Nel caso di specie, la Suprema Corte ha rilevato che il giudice di Appello aveva accertato che il lavoratore era stato adibito ad una operazione pericolosa con una scala inidonea all’uso, senza che sui lati aperti verso il vuoto fossero installati parapetti normali con arresto al piede o mezzi di protezione equivalenti, idonei ad impedire la caduta di persone e, per di più, senza che sull’esecuzione di tale prestazione vi fosse alcuna vigilanza ed aveva poi escluso che il lavoratore avesse posto in essere una condotta abnorme, atipica ed eccezionale.

Tuttavia, a fronte di tali accertamenti, la Corte di merito non si era attenuta ai principi giurisprudenziali sopra indicati, ritenendo, erroneamente, che l’infortunio fosse stato determinato con il concorso di colpa del lavoratore.

Per tali ragioni la sentenza impugnata è stata cassata, con conseguente rinvio alla Corte di Appello di Roma che è stata chiamata a decidere anche a proposito delle spese del processo di legittimità.

Valerio Pollastrini


 
(1)   - cfr., ex plurimis, Cass. 5493/06; Cass. 9689/09; Cass. 19494/09; Cass. 4656/11;

(2)   - Cass. 8 aprile 2002 n. 5024, Cass. 3213/04; Cass. 1994/12;

Nel corso del primo anno di nozze il divieto di licenziamento sussiste anche in caso di esternalizzazione


L’articolo 1 della legge n.7 del 1963 sancisce la nullità di ogni clausola contrattuale che preveda la risoluzione  del  rapporto di lavoro delle lavoratrici in conseguenza del matrimonio. Del pari nulli sono i licenziamenti attuati a causa di matrimonio.

La norma dispone, inoltre, la presunzione che il licenziamento irrogato alla lavoratrice nel periodo intercorrente  dal  giorno  della  richiesta  delle  pubblicazioni di matrimonio fino ad un anno dopo la celebrazione stessa, sia disposto per causa di matrimonio e pertanto deve considerarsi  nullo.

Nella sentenza n.27055 del 2 dicembre 2013 la Corte di Cassazione ha chiarito che il divieto di licenziamento nei confronti delle lavoratrici sposate fino all’anno successivo alle nozze sussiste anche nel caso di esternalizzazione da parte del datore di lavoro dei servizi nei quali la lavoratrice appena sposata risulta occupata.

Il caso di specie è quello di un'azienda che riteneva legittimo il licenziamento di una lavoratrice addetta al centralino, irrogato durante il primo anno del suo matrimonio, in quanto, a causa di una ristrutturazione organizzativa con relativo ridimensionamento dell'organico, il servizio di centralino era stato appaltato ad una ditta esterna e dunque lo specifico posto di lavoro  non esisteva più.

Al riguardo la Suprema Corte ha posto l’accento sulla perentorietà del termine utilizzato nella norma di riferimento, in virtù  del quale ogni recesso intimato nell’arco temporale indicato deve ritenersi nullo.

La Cassazione ha escluso quindi ogni diversa interpretazione poiché, oltre a contrastare la formulazione letterale della norma, agevolerebbe inevitabili abusi nei confronti dei soggetti che l’ordinamento ha inteso tutelare.

La Corte, dopo aver equiparato la norma in commento con le disposizioni poste a tutela delle lavoratrici madri, ha chiarito che si tratta di provvedimenti legislativi che, nel loro insieme, tendono a rafforzare la tutela della lavoratrice in momenti di passaggio esistenziale particolarmente importanti e da salvaguardare attraverso una più rigorosa disciplina limitativa dei licenziamenti.

Un simile insieme di leggi ha lo scopo di sgravare la lavoratrice dall'onere della prova di una discriminazione, addossando al datore di lavoro l'onere di allegare e documentare l'esistenza di una legittima causa di scioglimento del rapporto.

Con questo verdetto la Cassazione, nel respingere  il ricorso dell'azienda, con conseguente dichiarazione di illegittimità del recesso, ha ricordato che la deroga al divieto di licenziare una lavoratrice nel corso del primo anno di matrimonio è ammessa solo in caso di cessazione dell'attività dell'azienda.


Valerio Pollastrini

Il figlio maggiorenne va mantenuto fino a quando non rifiuti un lavoro


Nella sentenza n. 7970 del 2013 la Corte di Cassazione ha affrontato la questione dei limiti  sulla corresponsione dell’assegno di mantenimento ai figli da parte del genitore separato.

In virtù di un consolidato orientamento della giurisprudenza di  legittimità, l’obbligo del mantenimento persiste finché il maggiorenne non abbia conseguito l'indipendenza economica, non essendo reputato sufficiente il mero conseguimento della laurea e neppure la costituzione di una nuova entità familiare finanziariamente non indipendente.

Tale obbligo viene però a cessare nel momento in cui il maggiorenne rifiuti la possibilità di raggiungere l’autonomia economica. Ciò è quanto disposto dalla sentenza in commento nella quale la Suprema Corte ha escluso il diritto di una figlia trentasettenne al mantenimento, in quanto, pur avendo la stessa ricevuto offerte di lavoro, le aveva rifiutate perché non rispondenti alle proprie aspirazioni.


Valerio Pollastrini

giovedì 5 dicembre 2013

Punibile per estorsione il datore che, sotto la minaccia del licenziamento, obblighi i dipendenti ad accettare compensi inferiori


Risulta ormai consolidato l’orientamento della giurisprudenza di legittimità che esclude ogni riconducibilità alla normale dinamica dei rapporti di lavoro all'attività minatoria, in danno di lavoratori dipendenti, che approfitti delle difficoltà economiche o della situazione precaria del mercato del lavoro per ottenere il loro consenso a subire condizioni di lavoro deteriori rispetto a quelle previste dall'ordinamento giuridico.

Conforme a questo orientamento si segnala la sentenza n.32525 del 31 agosto 2010 con la quale la Corte di Cassazione ha sancito la sussistenza del reato di estorsione a carico dell’imprenditore che minacci di licenziare i dipendenti che si rifiutino di accettare un compenso inferiore rispetto a quello indicato in busta paga.

La minaccia, infatti, quale elemento costitutivo del reato di estorsione, non deve necessariamente essere ricondotta alla prospettazione di un male irreparabile alle persone o alle cose tale da impedire alla persona offesa di operare una libera scelta A detta della Suprema Corte il reato può dirsi, altresì, configurato anche quando, in relazione alle circostanze concrete nelle quali l’intimidazione viene posta in essere, questa sia comunque idonea a far sorgere il timore di subire un concreto pregiudizio.

Valerio Pollastrini

Quando il lavoratore in malattia può risultare assente alla visita fiscale


La malattia costituisce un’ipotesi legale di sospensione del rapporto di lavoro subordinato causata dall’impossibilità sopravvenuta della prestazione da parte del dipendente.

L’insorgenza della malattia determina una serie di precise conseguenze sia nei confronti dell’azienda che del lavoratore.

Se, ad esempio, il datore di lavoro ha l’obbligo di corrispondere ugualmente la retribuzione, oltre a garantire la sussistenza del rapporto  entro determinati limiti temporali, il lavoratore deve, invece,  attuare dei comportamenti che non pregiudichino o ritardino la guarigione e deve inoltre  consentire  (ai medici inviati direttamente dall’Inps o su richiesta dell’azienda) il controllo dello stato di malattia rendendosi reperibile presso il domicilio abituale o quello eletto per il periodo della malattia, comprese le domeniche e i giorni festivi, nelle seguenti fasce orarie: dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19.

Il mancato rispetto dell’obbligo di reperibilità comporta diverse conseguenze a carico del lavoratore, sia di natura contrattuale che strettamente economiche.

Sussistono però alcune condizioni particolari che possono giustificare l’assenza del lavoratore dal proprio domicilio negli orari preposti al controllo medico.

In particolare, l’Inps, nella circolare n.183 dell’8 agosto 1984,  ha elencato le seguenti ipotesi configuranti un  giustificato motivo di assenza:

-         forza maggiore;

-         situazioni che abbiano reso imprescindibile e indifferibile la presenza personale del lavoratore altrove;

-         concomitanza di visite, prestazioni e accertamenti specialistici, quando si dimostri che le stesse non potevano essere effettuate in ore diverse da quelle corrispondenti alle fasce orarie di reperibilità.

Per quanto riguarda la seconda fattispecie indicata dall’Inps, la  Corte di Cassazione, nella sentenza n.21621/2010, ha chiarito che può costituire una giustificata causa di esonero dall’obbligo di reperibilità ogni serio e fondato motivo che possa rendere plausibile l’allontanamento del lavoratore dal proprio domicilio, non essendo necessaria, a differenza di quanto  asserito nella circolare previdenziale, l’assoluta indifferibilità della presenza del lavoratore altrove.

La pronuncia della Suprema Corte ha preso lo spunto dal licenziamento in tronco irrogato ad una dipendente in malattia per una sindrome ansioso depressiva  che in occasione del primo controllo del medico fiscale non era stata trovata in casa e che, nel persistere del lamentato stato morboso,  era stata vista in spiaggia per qualche ora.

Sia il  Tribunale di Taranto che la Corte di Appello avevano ritenuto illegittimo il recesso in quanto la sanzione espulsiva applicata dall’azienda, in entrambi i giudizi di merito, era stata ritenuta sproporzionata rispetto alla gravità della condotta contestata alla lavoratrice. In favore della dipendente i giudici ne avevano dunque disposto la reintegrazione nel posto di lavoro.

L'azienda aveva quindi  ricorso per la cassazione della sentenza di merito, sostenendo che in realtà la lavoratrice, assente nel proprio domicilio durante la visita di controllo, non aveva provato che la visita specialistica a cui si era sottoposta in concomitanza con le fasce orarie di reperibilità non fosse indifferibile.

Nel respingere il ricorso del datore di lavoro, la Corte di Cassazione ha dapprima affermato, in via generale, che per giustificare il mancato rispetto dell'obbligo di reperibilità in determinati orari non è richiesta l'assoluta indifferibilità della prestazione sanitaria da effettuare, ma è sufficiente un serio e fondato motivo che giustifichi l'allontanamento dal proprio domicilio.

Quanto al caso di specie, la Suprema Corte, in relazione alla breve esposizione al sole da parte della lavoratrice, ha ritenuto che tale condotta non poteva pregiudicarne o ritardarne la  guarigione e, pertanto, doveva ritenersi legittima.

A rafforzare l’illegittimità del recesso la Cassazione ha infine osservato che a carico della lavoratrice, nell'intero arco di 17 anni di carriera lavorativa alle dipendenze della società, non sussistevano altri precedenti addebiti di natura disciplinare.

Valerio Pollastrini

martedì 3 dicembre 2013

I lavoratori dei call center costretti a stipendi “albanesi”


Una delle conseguenze della persistente crisi economica è rappresentata dal ricorso sempre maggiore, da parte delle imprese italiane, alla delocalizzazione, intendendosi per tale il trasferimento di settori produttivi in Paesi stranieri caratterizzati dai minori costi di gestione, specie quello del personale.

Il fenomeno, negli ultimi anni, ha riguardato in modo particolare il settore simbolo del precariato nella nostra nazione: quello dei call center.

Numerose aziende, comprese importanti realtà del settore, hanno scelto l’Albania, la Romania o la Tunisia per la gestione delle proprie attività.

I lavoratori del settore, dopo aver richiesto per anni una corretta regolarizzazione del proprio lavoro, si trovano ora costretti a manifestare contro le delocalizzazioni.

Per contrastare la progressiva “fuga” verso l’estero sono state approntate soluzioni diverse nell’ambito legislativo e in quello sindacale.

Il legislatore ha posto dei limiti (anche se relativi solo ai Paesi extracomunitari) con apposite restrizioni, come l’obbligo di informare il cliente contattato della collocazione estera di chi raccoglie i suoi dati, ma, soprattutto, la sospensione dell’erogazione degli incentivi alle aziende che delocalizzano attività in Paesi stranieri. La via intrapresa dai sindacati sembra invece improntata alla drastica riduzione dei salari. Emblematico, in proposito, quanto disposto nel contratto siglato da Cgil, Cisl e Uil con  Assotelecomunicazioni e Assocontact, nel quale è previsto un salario di ingresso pari al 60% dei minimi retributivi.

L’accordo sindacale del 1° agosto prevede infatti contratti a progetto con salari ridotti al 60% dei minimi.

Il contratto si riferisce ai lavoratori a progetto in outbound cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing e televendita, ricerche di mercato, ecc.).

Per gli operatori del settore la riforma Fornero aveva disposto il ricorso alla contrattazione collettiva per la determinazione di alcune componenti retributive. I datori di lavoro e i sindacati di categoria, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, hanno quindi siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60 per cento fino a gennaio 2015, con aumenti cadenzati su base annua, fino a raggiungere il 100 per cento del compenso nel 2018.

Per quanto riguarda le nuove assunzioni al termine del contratto, le aziende dovranno utilizzare i lavoratori già assunti sulla base di una graduatoria. Per potervi accedere i collaboratori dovranno però sottoscrivere, inspiegabilmente, un atto di conciliazione individuale conforme alla disciplina prevista dagli articoli 410 e seguenti del Codice di procedura civile, per mezzo del quale, di fatto, sarà loro negata la possibilità di agire nei confronti del datore di lavoro per il riconoscimento di eventuali diritti pregressi.

Per concludere, ad avviso di chi scrive, le vie intraprese - specie dalle organizzazioni sindacali - per tutelare i lavoratori del settore non fanno che aumentarne la precarietà, riducendo le loro condizioni contrattuali equiparandole a quelle dei Paesi stranieri con manodopera a basso costo. L’ennesimo segnale, se mai ce ne fosse stato bisogno, della via per il terzo mondo intrapresa dal nostro Stato.

Valerio Pollastrini

Trasformazione dell’associazione in partecipazione in rapporto di lavoro subordinato


Nella sentenza n.26522 del 27 novembre 2013 la Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della corretta qualificazione dei contratti di lavoro, tracciando i confini tra i due diversi istituti  dell’associazione in partecipazione e del rapporto di lavoro subordinato.

Il caso in questione è quello di un ristorante che, in seguito ad ispezione,  aveva visto disconosciuti  due rapporti di associazione in partecipazione, trasformati in altrettanti rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con relative sanzioni e richiesta degli arretrati relativi alle differenze contributive.

Contro la cartella esattoriale, emessa in favore dell’Inps per  un importo di circa 20.000,00 €, l’azienda si era rivolta al giudice del lavoro.

Dopo che il Tribunale, al termine del primo grado di giudizio, aveva accolto le richieste del datore di lavoro, la Corte di Appello aveva capovolto la situazione,  rigettando l’opposizione proposta dall’azienda avverso la cartella esattoriale.

La Corte Territoriale aveva ritenuto fondata da richiesta dell’Inps sulla base dei fatti emersi nel corso dell’istruttoria. In particolare, la compartecipazione prevista dai contratti stipulati dalla società appellata risultava calcolata solo sui ricavi lordi, al netto degli sconti praticati, e non sugli utili. I due lavoratori, inoltre, non avevano svolto alcuna partecipazione alla gestione dell’impresa e la loro attività si inseriva nell’ambito dell’organizzazione aziendale, dal momento che gli stessi ripetevano dal titolare dell’impresa i poteri di controllo e direzione del lavoro esercitati sugli altri addetti alla sala ristorante-pizzeria.

A questo punto l’azienda aveva ricorso per la cassazione della sentenza di merito.

La Suprema Corte, nel confermare quanto disposto dalla Corte territoriale, ha rilevato che i contratti di associazione in partecipazione erano stati giustamente qualificati come contratti di lavoro subordinato  poiché la partecipazione solo ai ricavi e non anche alle perdite rappresentava un chiaro indice di assenza del rischio economico.

A tale proposito la Corte di legittimità ha ricordato come, in ragione di un generale favor prestatoris, sancito dall’art. 35 della Costituzione, la prestazione lavorativa  inserita stabilmente nel contesto dell’organizzazione aziendale, senza partecipazione al rischio d’impresa e senza alcun controllo  nella gestione dell’azienda, configuri un rapporto di lavoro subordinato.

La Cassazione ha poi ribadito l’irrilevanza del nomen iuris che le parti hanno attribuito al contratto dinnanzi alle concrete modalità di esecuzione della prestazione. In sostanza, pur risultando il contratto di lavoro stipulato sotto la dizione “associazione in partecipazione”, ciò non impedisce una sua diversa  qualificazione, in quanto la pattuizione della partecipazione solo ai ricavi, l’esclusione di qualsiasi effettivo coinvolgimento nella gestione aziendale con un controllo limitato solo ai ricavi e l’inserimento nell’organizzazione aziendale rappresentano circostanze idonee alla trasformazione in contratto di lavoro subordinato. 

Da ultimo la Cassazione ha escluso ogni fondamento ai rilievi posti dal ricorrente, in base ai  quali, avendo i due lavoratori dichiarato che il loro contratto fosse di associazione in partecipazione, sarebbe stato l’Inps a dover dimostrare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato. L’istruttoria aveva infatti evidenziato la presenza dei tratti tipici di un rapporto di lavoro subordinato, escludendo, pertanto, la configurabilità dell’associazione in partecipazione.

Valerio Pollastrini

domenica 1 dicembre 2013

L’impiego di lavoratori extracomunitari senza permesso di soggiorno non esclude l’obbligo contributivo


A carico del datore di lavoro che abbia occupato un lavoratore extracomunitario privo di regolare permesso di soggiorno sussiste l’obbligo del versamento della contribuzione previdenziale.

A ricordarlo è stata la Corte di Cassazione che, con la sentenza n.22559 del 5 novembre 2010, ha ribadito il principio già espresso in passato (1), disponendo che il datore di lavoro, stipulando di fatto un contratto di lavoro attraverso l’impiego del lavoratore extracomunitario, anche se privo di permesso di soggiorno, ha l’obbligo di versare i contributi Inps in relazione alle retribuzioni dovute, a nulla valendo invocare la condizione di clandestino, propria del lavoratore.

Il caso è quello di un imprenditore che aveva impugnato un avviso di accertamento emesso dall’Inps per omissioni contributive relative alle prestazioni  rese nei suoi confronti da lavoratori extracomunitari privi del permesso di soggiorno.

In seguito al rigetto della domanda nei due giudizi di merito, il datore di lavoro si era rivolto alla Corte di Cassazione, sostenendo l’impossibilità, da parte dell’Inps, di recuperare in via coattiva la contribuzione per tali dipendenti a fronte del divieto di stipulare contratti di lavoro con extracomunitari clandestini.

La Corte di Cassazione ha precisato che, nonostante il contratto di lavoro stipulato con il lavoratore privo del permesso di soggiorno sia un contratto in violazione della legge in materia di immigrazione, tale illegittimità non comporta il venir meno del diritto del lavoratore alla retribuzione (e, di qui, alla contribuzione) per il lavoro eseguito, secondo le indicazioni dell’art.2126 cc.

Una diversa conclusione, a detta della Suprema Corte, consentirebbe a chi violasse la legge sulla immigrazione di fruire di condizioni più vantaggiose rispetto a quelle delle aziende rispettose della norma.

In conclusione,  il datore di lavoro che impieghi lavoratori extracomunitari in violazione della legge sulla immigrazione, oltre ad incorrere nella sanzione penale, è tenuto al pagamento della contribuzione all’Inps, quale obbligazione derivante dell’instaurato rapporto di lavoro.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cassazione n. 7380/2010;