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sabato 14 dicembre 2013

Criteri per la determinazione del danno professionale da demansionamento


In caso di demansionamento, la sentenza della Corte di Cassazione n.26517 del 14 novembre 2013 ha chiarito che il risarcimento del danno professionale può essere determinato in via equitativa, in considerazione del curriculum del lavoratore, della durata della condizione di inattività forzata e della perdita dei compensi variabili.

Un dirigente della Rai che, con la qualifica di vice direttore, aveva svolto per anni l'incarico di "seguire la programmazione dell'intrattenimento comico", e che quindi si era occupato dell’ideazione e  realizzazione dei programmi, a partire dal gennaio del 2001, in seguito alla nomina di un altro vicedirettore delegato all’intrattenimento, era stato privato di ogni incarico.

Il lavoratore aveva agito dinnanzi al Tribunale di Milano per la reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza e per la condanna dell’azienda al risarcimento del danno.

In accoglimento della domanda, il Tribunale aveva stimato in via equitativa  il risarcimento del danno professionale in misura pari alla retribuzione relativa al periodo del demansionamento ed aveva, inoltre, disposto in favore del lavoratore l’ulteriore risarcimento del danno derivato  dalla perdita della parte variabile della retribuzione.

Nel secondo grado di giudizio la Corte di Appello di Milano aveva confermato quanto stabilito dal Tribunale in considerazione dell’estrema gravità del demansionamento al quale il dirigente era stato forzato, protrattosi per lungo tempo e tale da privare  il lavoratore di una concreta attività di direzione in ogni ambito della sua professionalità, dall’attività progettuale a quella di scelta di programmi e dei relativi soggetti che dovevano dirigerli o condurli, dell’attività organizzativa e di quella del controllo dei budget per la realizzazione.

Dalle risultanze del procedimento era risultato pacifico il notevole background professionale del dirigente oltre al fatto che l'inattività aveva compromesso il mantenimento non solo di un’esperienza professionale, ma anche la chance di sviluppo di carriera.

Tali elementi, a detta della Corte di merito, assumevano un valore probatorio, anche presuntivo, di un sicuro danno professionale.

L’analisi dei fatti aveva inoltre mostrato l’evoluzione crescente di un duplice indirizzo del danno: uno strettamente patrimoniale, relativo  al deterioramento delle esperienze acquisite ed al venir meno di sicure e sempre più possibili prospettive di carriera future, l’altro, in termini di immagine, collegato proprio alle prospettive di carriera. Si tratta quindi di danni intrinsecamente connessi e, perciò,  fondanti la doglianza relativa alla intervenuta duplicazione degli stessi, dovendosi escludere la somma liquidata a titolo di danno all'immagine.

La liquidazione del danno attraverso il riconoscimento della  somma equivalente alla retribuzione mensilmente percepita per tutti i mesi di dequalificazione ed il riconoscimento delle somme variabili non liquidate, era dunque apparsa al Giudice di Appello idonea  a compensare i pregiudizi arrecati al lavoratore  dall'inadempimento aziendale.

A proposito della retribuzione variabile, il giudice aveva infatti attestato che la mancata prestazione lavorativa secondo i termini contrattualmente concordati aveva impedito al ricorrente di ottenerne il percepimento e dunque anche tale danno, l'unico realmente non determinato in via equitativa, doveva essere riconosciuto.

In seguito alle risultanze del giudizio di Appello, la Rai aveva proposto ricorso per cassazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, richiamando il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità che, in tema di demansionamento, riconosce il diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale anche attraverso la prova per presunzione, sulla base cioè di elementi quali caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse relazionale ed effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto.

La Cassazione ha quindi concluso affermando che, sia nel riconoscimento della sussistenza del danno, che nella sua liquidazione in via equitativa, la Corte di Appello aveva correttamente rispettato i criteri sopra citati e per tale ragione ne ha confermato la decisione.

Valerio Pollastrini

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