In caso di
demansionamento, la sentenza della Corte di Cassazione n.26517 del 14 novembre
2013 ha chiarito che il risarcimento del danno professionale può essere
determinato in via equitativa, in considerazione del curriculum del lavoratore,
della durata della condizione di inattività forzata e della perdita dei
compensi variabili.
Un dirigente
della Rai che, con la qualifica di vice direttore, aveva svolto per anni l'incarico
di "seguire la programmazione dell'intrattenimento comico", e che
quindi si era occupato dell’ideazione e realizzazione dei programmi, a partire dal
gennaio del 2001, in seguito alla nomina di un altro vicedirettore delegato all’intrattenimento,
era stato privato di ogni incarico.
Il lavoratore
aveva agito dinnanzi al Tribunale di Milano per la reintegrazione nelle
mansioni svolte in precedenza e per la condanna dell’azienda al risarcimento
del danno.
In
accoglimento della domanda, il Tribunale aveva stimato in via equitativa il risarcimento del danno professionale in
misura pari alla retribuzione relativa al periodo del demansionamento ed aveva,
inoltre, disposto in favore del lavoratore l’ulteriore risarcimento del danno derivato
dalla perdita della parte variabile
della retribuzione.
Nel secondo
grado di giudizio la Corte di Appello di Milano aveva confermato quanto
stabilito dal Tribunale in considerazione dell’estrema gravità del
demansionamento al quale il dirigente era stato forzato, protrattosi per lungo
tempo e tale da privare il lavoratore di
una concreta attività di direzione in ogni ambito della sua professionalità, dall’attività
progettuale a quella di scelta di programmi e dei relativi soggetti che dovevano
dirigerli o condurli, dell’attività organizzativa e di quella del controllo dei
budget per la realizzazione.
Dalle
risultanze del procedimento era risultato pacifico il notevole background
professionale del dirigente oltre al fatto che l'inattività aveva compromesso
il mantenimento non solo di un’esperienza professionale, ma anche la chance di
sviluppo di carriera.
Tali
elementi, a detta della Corte di merito, assumevano un valore probatorio, anche
presuntivo, di un sicuro danno professionale.
L’analisi
dei fatti aveva inoltre mostrato l’evoluzione crescente di un duplice indirizzo
del danno: uno strettamente patrimoniale, relativo al deterioramento delle esperienze acquisite
ed al venir meno di sicure e sempre più possibili prospettive di carriera
future, l’altro, in termini di immagine, collegato proprio alle prospettive di
carriera. Si tratta quindi di danni intrinsecamente connessi e, perciò, fondanti la doglianza relativa alla
intervenuta duplicazione degli stessi, dovendosi escludere la somma liquidata a
titolo di danno all'immagine.
La
liquidazione del danno attraverso il riconoscimento della somma equivalente alla retribuzione
mensilmente percepita per tutti i mesi di dequalificazione ed il riconoscimento
delle somme variabili non liquidate, era dunque apparsa al Giudice di Appello idonea
a compensare i pregiudizi arrecati al
lavoratore dall'inadempimento aziendale.
A proposito
della retribuzione variabile, il giudice aveva infatti attestato che la mancata
prestazione lavorativa secondo i termini contrattualmente concordati aveva
impedito al ricorrente di ottenerne il percepimento e dunque anche tale danno,
l'unico realmente non determinato in via equitativa, doveva essere
riconosciuto.
In seguito
alle risultanze del giudizio di Appello, la Rai aveva proposto ricorso per
cassazione.
La pronuncia della Cassazione
La Suprema
Corte ha rigettato il ricorso, richiamando il consolidato orientamento della
giurisprudenza di legittimità che, in tema di demansionamento, riconosce il
diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale anche attraverso
la prova per presunzione, sulla base cioè di elementi quali caratteristiche,
durata, gravità, conoscibilità all'interno ed all'esterno del luogo di lavoro
dell'operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli
aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere
nei confronti del datore comprovanti l'avvenuta lesione dell'interesse
relazionale ed effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto.
La
Cassazione ha quindi concluso affermando che, sia nel riconoscimento della
sussistenza del danno, che nella sua liquidazione in via equitativa, la Corte
di Appello aveva correttamente rispettato i criteri sopra citati e per tale
ragione ne ha confermato la decisione.
Valerio
Pollastrini
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