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martedì 3 dicembre 2013

I lavoratori dei call center costretti a stipendi “albanesi”


Una delle conseguenze della persistente crisi economica è rappresentata dal ricorso sempre maggiore, da parte delle imprese italiane, alla delocalizzazione, intendendosi per tale il trasferimento di settori produttivi in Paesi stranieri caratterizzati dai minori costi di gestione, specie quello del personale.

Il fenomeno, negli ultimi anni, ha riguardato in modo particolare il settore simbolo del precariato nella nostra nazione: quello dei call center.

Numerose aziende, comprese importanti realtà del settore, hanno scelto l’Albania, la Romania o la Tunisia per la gestione delle proprie attività.

I lavoratori del settore, dopo aver richiesto per anni una corretta regolarizzazione del proprio lavoro, si trovano ora costretti a manifestare contro le delocalizzazioni.

Per contrastare la progressiva “fuga” verso l’estero sono state approntate soluzioni diverse nell’ambito legislativo e in quello sindacale.

Il legislatore ha posto dei limiti (anche se relativi solo ai Paesi extracomunitari) con apposite restrizioni, come l’obbligo di informare il cliente contattato della collocazione estera di chi raccoglie i suoi dati, ma, soprattutto, la sospensione dell’erogazione degli incentivi alle aziende che delocalizzano attività in Paesi stranieri. La via intrapresa dai sindacati sembra invece improntata alla drastica riduzione dei salari. Emblematico, in proposito, quanto disposto nel contratto siglato da Cgil, Cisl e Uil con  Assotelecomunicazioni e Assocontact, nel quale è previsto un salario di ingresso pari al 60% dei minimi retributivi.

L’accordo sindacale del 1° agosto prevede infatti contratti a progetto con salari ridotti al 60% dei minimi.

Il contratto si riferisce ai lavoratori a progetto in outbound cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing e televendita, ricerche di mercato, ecc.).

Per gli operatori del settore la riforma Fornero aveva disposto il ricorso alla contrattazione collettiva per la determinazione di alcune componenti retributive. I datori di lavoro e i sindacati di categoria, Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, hanno quindi siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60 per cento fino a gennaio 2015, con aumenti cadenzati su base annua, fino a raggiungere il 100 per cento del compenso nel 2018.

Per quanto riguarda le nuove assunzioni al termine del contratto, le aziende dovranno utilizzare i lavoratori già assunti sulla base di una graduatoria. Per potervi accedere i collaboratori dovranno però sottoscrivere, inspiegabilmente, un atto di conciliazione individuale conforme alla disciplina prevista dagli articoli 410 e seguenti del Codice di procedura civile, per mezzo del quale, di fatto, sarà loro negata la possibilità di agire nei confronti del datore di lavoro per il riconoscimento di eventuali diritti pregressi.

Per concludere, ad avviso di chi scrive, le vie intraprese - specie dalle organizzazioni sindacali - per tutelare i lavoratori del settore non fanno che aumentarne la precarietà, riducendo le loro condizioni contrattuali equiparandole a quelle dei Paesi stranieri con manodopera a basso costo. L’ennesimo segnale, se mai ce ne fosse stato bisogno, della via per il terzo mondo intrapresa dal nostro Stato.

Valerio Pollastrini

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