Una delle conseguenze della
persistente crisi economica è rappresentata dal ricorso sempre maggiore, da
parte delle imprese italiane, alla delocalizzazione, intendendosi per tale il
trasferimento di settori produttivi in Paesi stranieri caratterizzati dai
minori costi di gestione, specie quello del personale.
Il fenomeno, negli ultimi anni, ha
riguardato in modo particolare il settore simbolo del precariato nella nostra
nazione: quello dei call center.
Numerose aziende, comprese
importanti realtà del settore, hanno scelto l’Albania, la Romania o la Tunisia
per la gestione delle proprie attività.
I lavoratori del settore, dopo aver
richiesto per anni una corretta regolarizzazione del proprio lavoro, si trovano
ora costretti a manifestare contro le delocalizzazioni.
Per contrastare la progressiva “fuga” verso l’estero
sono state approntate soluzioni diverse nell’ambito legislativo e in quello
sindacale.
Il legislatore ha posto dei limiti (anche se relativi
solo ai Paesi extracomunitari) con apposite restrizioni, come l’obbligo di
informare il cliente contattato della collocazione estera di chi raccoglie i
suoi dati, ma, soprattutto, la sospensione dell’erogazione degli incentivi alle
aziende che delocalizzano attività in Paesi stranieri. La via intrapresa dai
sindacati sembra invece improntata alla drastica riduzione dei salari.
Emblematico, in proposito, quanto disposto nel contratto siglato da Cgil, Cisl
e Uil con Assotelecomunicazioni e
Assocontact, nel quale è previsto un salario di ingresso pari al 60% dei minimi
retributivi.
L’accordo sindacale del 1° agosto
prevede infatti contratti a progetto con salari ridotti al 60% dei minimi.
Il contratto si riferisce ai
lavoratori a progetto in outbound cioè coloro che
effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing e televendita, ricerche di
mercato, ecc.).
Per gli operatori del settore la riforma Fornero
aveva disposto il ricorso alla contrattazione collettiva per la determinazione di
alcune componenti retributive. I datori di lavoro e i sindacati di categoria,
Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, hanno quindi siglato un contratto che
prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese)
ma ridotto
al 60 per cento fino a gennaio 2015, con aumenti cadenzati su
base annua, fino a raggiungere il 100 per cento del compenso nel 2018.
Per quanto riguarda le nuove assunzioni al termine del
contratto, le aziende dovranno utilizzare i lavoratori già assunti sulla base
di una graduatoria. Per potervi accedere i collaboratori dovranno però
sottoscrivere, inspiegabilmente, un atto di conciliazione individuale conforme
alla disciplina prevista dagli articoli 410 e seguenti del Codice di procedura
civile, per mezzo del quale, di fatto, sarà loro negata la possibilità di agire
nei confronti del datore di lavoro per il riconoscimento di eventuali diritti
pregressi.
Per concludere, ad avviso di chi scrive, le vie
intraprese - specie dalle organizzazioni sindacali - per tutelare i lavoratori
del settore non fanno che aumentarne la precarietà, riducendo le loro
condizioni contrattuali equiparandole a quelle dei Paesi stranieri con
manodopera a basso costo. L’ennesimo segnale, se mai ce ne fosse stato bisogno,
della via per il terzo mondo intrapresa dal nostro Stato.
Valerio Pollastrini
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