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martedì 5 agosto 2014

Introduzione del salario minimo

Nel confermarne l’approvazione entro la fino del 2014, il Ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha annunciato che tutte le disposizioni contenute nella Legge Delega sul Jobs Act dovrebbero entrare a regime entro la metà del prossimo anno.

A detta del Ministro, per la stessa data, inoltre, avrà  via libera il salario minimo, del quale, attualmente, ancora non si conosce la quantificazione.

Per quanto riguarda quest’ultima misura, Poletti ha dichiarato che nella richiamata Legge Delega sono state messe a punto procedure e modalità in grado di inserire il salario minimo nel quadro della contrattazione collettiva, attraverso il coinvolgimento delle  parti sociali.

Valerio Pollastrini

Per interrompere il comporto con le ferie è necessaria una richiesta formale

Nella sentenza n.17538 del 1° agosto 2014, la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato al dipendente che, al termine della malattia, usufruisca di un periodo di ferie senza averne effettuato la preventiva richiesta al datore di lavoro.

In particolare, gli ermellini hanno precisato che al termine del periodo di comporto, la richiesta della ferie debba essere formalmente inoltrata all’azienda. In caso contrario, pertanto, risulta legittimo il recesso intimato al lavoratore.

Nel caso di specie, un dipendente, terminato il periodo di comporto contrattualmente previsto in caso di malattia, si era posto in ferie senza averne fatto una espressa richiesta scritta all’azienda.

Nel dirimere la controversia, la Cassazione ha preliminarmente richiamato il principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (1)  che consente al lavoratore di sostituire la malattia con le ferie maturate e non godute per evitare il decorso del periodo di comporto.

Tuttavia, la Suprema Corte ha ricordato come in altre pronunce (2) avesse già avuto modo di chiarire che in simili circostanze è indispensabile che il lavoratore richieda le ferie in forma scritta, affinché il datore di lavoro possa valutare il fondamentale interesse del richiedente al mantenimento del posto di lavoro.

A tale proposito, neanche l’eventuale stato di confusione mentale del lavoratore per effetto della malattia sarebbe idoneo ad impedire il licenziamento in caso di mancato assolvimento dell’obbligo della suddetta richiesta formale.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza n.11691/1998; Cass., Sentenza n.5078/2009;

(2)   - Cass., Sentenza n.3028/2003, Cass., Sentenza n.6043/2000;

Per ridurre l’orario è necessario il consenso del dipendente

Nella sentenza n.16089 del 14 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha affrontato la questione inerente all’applicabilità del contratto collettivo aziendale  nei confronti dei dipendenti non  iscritti alle organizzazioni sindacali sipulanti.

Pur ribadendo il principio in base al quale i contratti e gli accordi collettivi aziendali sono applicabili a tutti i lavoratori dell’impresa, la Suprema Corte ha affermato che nell’ipotesi della trasformazione del rapporto subordinato da tempo pieno a tempo parziale, è, in ogni caso, necessario il consenso scritto del lavoratore, in quanto detta riduzione non può essere predisposta unilateralmente dal datore di lavoro.

Tale consenso, pertanto, risulta ineluttabile anche qualora la trasformazione sia stata
prevista dal contratto collettivo aziendale al fine di evitare il collocamento in mobilità dei lavoratori.

Valerio Pollastrini

domenica 3 agosto 2014

Illegittimo il licenziamento intimato per ragioni diverse da quelle indicate

Nella sentenza n.17374 del 15 aprile-30 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in assenza del nesso oggettivo tra la ristrutturazione aziendale e la risoluzione del rapporto, il licenziamento del dipendente è illegittimo.

Il caso di specie è quello che ha riguardato il licenziamento subito da un funzionario del Siena Calcio.

La Corte di Appello di Firenze, accogliendo l'impugnazione promossa dal dipendente, aveva ordinato la sua reintegrazione nel posto di lavoro ed aveva condannato la società a corrispondere in suo favore le retribuzioni maturate dal licenziamento fino alla effettiva reintegra, detratto l’aliunde perceptum.

Nonostante, in seguito alla promozione della squadra nel massimo campionato di calcio italiano, la società avesse effettivamente posto in essere un processo di riorganizzazione aziendale, la Corte del merito aveva ugualmente ritenuto  illegittimo il licenziamento, poiché irrogato per motivi che non avevano nulla a che fare  con esigenze oggettive della soppressione del posto e delle funzioni del lavoratore.

Le reali motivazioni del recesso, infatti, erano state riscontrate  nella continuità del funzionario rispetto alla passata gestione della società che la stessa voleva invece evitare senza ragione.

I compiti di segretario generale del lavoratore licenziato, infatti, non erano stati eliminati, ma semplicemente suddivisi tra la gestione amministrativa, contabile e sportiva della società calcistica.

Contro questa sentenza, l’ A.C. Siena s.p.a aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che i giudici dell’appello non avrebbero potuto ritenere illegittimo il licenziamento attraverso una valutazione del comportamento datoriale, giustificato da scelte imprenditoriali discrezionali, riguardanti la necessità di realizzare un nuovo assetto organizzativo della compagine sportiva.

A detta della ricorrente, il predetto processo riorganizzativo aveva determinato l'attribuzione di tutte le funzioni dirigenziali al nuovo direttore generale, che aveva preso il posto della precedente figura del segretario generale ricoperta dal dipendente licenziato.

Nel ritenere infondata tale censura, la Suprema Corte ha confermato la validità della motivazione prodotta nella sentenza impugnata, che aveva  evidenziato come dall'istruttoria fosse emersa chiaramente l’assenza di una valida causa di licenziamento,  non risultando il recesso  ancorato a ragioni oggettive, quali la soppressione delle mansioni fino ad allora svolte dal lavoratore, bensì alla finalità di interrompere la continuità operativa della precedente dirigenza.

Dalle deposizioni dei testi, infatti, era  emerso che i compiti svolti in precedenza dal lavoratore non erano stati eliminati, ma semplicemente suddivisi all'interno della nuova squadra per la gestione amministrativa, contabile e sportiva.

A ciò si aggiunga che la società non aveva nemmeno fornito la  prova dell’incollocabilità del dipendente licenziato in altra mansione.

Per quanto su richiamato, la Cassazione ha rigettato il ricorso, con conseguente condanna della società al pagamento delle spese processuali, liquidate in 3.500,00 € per compensi professionali e  100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

La rateazione del debito non assolve l’omesso versamento delle ritenute

Nella sentenza n.32598 del 23 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che la rateizzazione concessa da Equitalia sui crediti Inps non assolve il datore di lavoro dal reato di omesso  versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali.

Il caso è giunto all’attenzione della Suprema Corte dopo che il Tribunale aveva assolto un datore di lavoro dal reato di cui agli artt. 81 c.p. e 2, comma 1 bis, della legge n.638/1983, in relazione all'omesso versamento di ritenute previdenziali ed assistenziali, sostenendo che l’accordo raggiunto con Equitalia per la rateizzazione del debito maturato nei riguardi dell’Istituto Previdenziali avrebbe prodotto la novazione del termine per l’adempimento dell’obbligazione,  rispetto a quello legale di tre mesi successivi alla data della notifica dell'accertamento della violazione.

Investita della questione, la Suprema Corte ha innanzitutto ricordato che l'art.2 del D.L. n.463/1983 (1) prevede  che le ritenute previdenziali ed assistenziali, operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei  dipendenti, debbono essere comunque versate, senza che le stesse possano essere portate a conguaglio con le somme anticipate  ai lavoratori per conto delle gestioni previdenziali ed assistenziali.

La norma dispone inoltre che  l'omesso versamento delle ritenute è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a 1.032,00 €, a meno   che il datore di lavoro non  provveda al versamento entro il termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'avvenuto accertamento delle violazioni.

Peraltro, seppure  l’Inps abbia previsto (2) che il datore di lavoro possa assolvere, anche in forma rateale, all'obbligo del versamento delle ritenute operate, ha però chiarito  che l’eventuale  rateazione non esclude l'obbligo dell'Istituto di effettuare la denuncia di reato.

Secondo tale disciplina, per potere fruire della causa dì non punibilità prevista per legge, il datore di lavoro deve comunque versare le ritenute complessivamente omesse ab origine nel termine di tre mesi dalla notifica dell'accertamento.

In base alla corretta lettura delle richiamate disposizioni legislative, pertanto, qualora le ritenute in oggetto non vengano versate  nel termine di tre mesi, la punibilità del datore di lavoro permane nonostante l’intervenuto accordo di rateizzazione.

Di conseguenza, a differenza di quanto affermato dal Tribunale, la suddetta novazione non esclude la rilevanza penale  delle omissioni poste in essere dall'imputato, in quanto l'elemento oggettivo del reato,  perfezionatosi alle scadenze originariamente previste e non rispettate, non può venire meno per effetto di un provvedimento che, pur avendo effetto novativo sul piano civilistico, non vanifica ex tunc il disvalore penale del fatto.

Valerio Pollastrini


(1)   - conv. in L. n.638/1983;

(2)   – Inps, Delibera del Consiglio di Amministrazione n.288 dell'11 aprile 1995; Inps, Circolari n.106 del 03 agosto 2010 e n.148 del 24 novembre 2010;

Formazione indispensabile nell’apprendistato

Nella sentenza n.14754 del 30 giugno 2014, la  Corte di Cassazione ha ribadito l’imprescindibilità dell’assolvimento degli oneri formativi  ai fini della legittimità del contratto di apprendistato.

L’elemento essenziale di tale fattispecie, infatti, è rappresentato dall’obbligo del datore di lavoro di garantire al tirocinante  un effettivo addestramento finalizzato all’acquisizione di una qualificazione professionale.

In particolare, la Suprema Corte ha ricordato come per l’apprendistato il ruolo preminente assunto  dalla fase formativa non derivi unicamente da  una serie di interventi del legislatore nazionale diretti a renderne effettiva la realizzazione (1), ma risponda ai precetti del  diritto comunitario (2) che, espressamente, esclude la possibilità di ricorrere a questa  speciale figura contrattuale per rapporti connaturati dallo   svolgimento di attività assolutamente elementari o routinarie, non integrate da un effettivo apporto didattico e formativo di natura teorica e pratica (3).

Valerio Pollastrini

 
(1)   - art.2, comma secondo, legge n.25/1955, introdotto dalla legge n.424/1968, art.16, comma primo, legge n.196/1997, art.2, lett. a e b, del D.L. n.214/1999, convertito nella legge n.263/1999, di modifica di alcune disposizioni della legge n.25/1955;

(2)   - come si desume dall’art.127 del trattato istitutivo della Comunità Europea dal Regolamento del Consiglio n.2081/93 del 20 luglio 1993;

(3)   - Cass., Sentenza  n.6787/2002;

Chiarimenti ministeriali su contratto a termine e apprendistato

Il 30 luglio 2014 il Ministero del lavoro ha diramato la Circolare n.18, con la quale ha fornito alcuni chiarimenti sulle modifiche introdotte dal D.L. n.34/2014 (1) alle discipline del contratto a termine e dell’apprendistato.

CONTRATTO A TERMINE
La causale – Per quanto riguarda l’istituto in commento, la novità principale è costituita dalla eliminazione dell’obbligo di indicare le ragioni di carattere “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”,  giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro.

A tale proposito, la Circolare ricorda che ora è possibile stipulare un contratto a termine di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione.

Ai fini della legittima instaurazione del rapporto, pertanto, è sufficiente l’indicazione di un termine che, nell’atto scritto, può risultare “direttamente o indirettamente”.

Il Ministero, tuttavia, consiglia ugualmente di  indicare  la “causale” del contratto a tempo determinato, quando il lavoratore è assunto a tempo determinato “per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità”.

Per queste ultime tipologie contrattuali, infatti, viene meno l’obbligo della maggiorazione contributiva  dell’1.4%  e, soprattutto, viene meno il limite quantitativo del 20% dei contratti a termine stipulati in azienda, introdotto dalla nuova normativa.

Limiti quantitativi – Ad eccezione dei rapporti instaurati per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità, il numero complessivo di contratti a tempo determinato stipulati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20 per cento del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1º gennaio dell’anno di assunzione.

Da questa regola risultano escluse le aziende che occupano fino a cinque dipendenti, le quali, entro tale limite, potranno  sempre  stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato.

Salvo diversa previsione dei Contratti Collettivi Nazionali di riferimento, i datori di lavoro sono tenuti a verificare quanti rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato siano vigenti alla data del 1 gennaio dell’anno di stipula del contratto o, per le attività iniziate durante l’anno, alla data di assunzione del primo lavoratore a termine.

In questo computo dovranno però essere esclusi i rapporti di lavoro autonomo, quelli accessori, i lavoratori parasubordinati e gli associati in partecipazione.

Dal totale dei contratti a tempo indeterminato, invece, devono essere esclusi i lavoratori a chiamata privi di indennità di disponibilità.

Diversamente, dovranno essere conteggiati i lavoratori part-time, i dirigenti a tempo indeterminato e gli apprendisti. In tale ultimo caso, la Circolare ricorda che  il contratto di apprendistato è esplicitamente definito come contratto a tempo indeterminato.

La sommatoria del numero dei lavoratori a tempo indeterminato dovrà essere effettuata avendo riguardo del totale dei dipendenti complessivamente in forza nell’azienda, a prescindere dall’unità produttiva in cui gli stessi risultino occupati.

In ogni caso, i seguenti contratti a termine sono esenti da qualsivoglia limitazioni quantitative:

- Contratti a termine stipulati nella fase di avvio di nuove attività per i periodi che saranno definiti dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro, anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche o a comparti merceologici;

- Contratti a termine stipulati per ragioni di carattere sostitutivo o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al DPR n.1525/1963 e successive modificazioni;

- Contratti a termine stipulati per specifici spettacoli, ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;

- Contratti a termine stipulati con lavoratori di età superiore a 55 anni.

Nel ricordare l’esenzione dalle limitazioni quantitative delle start-up innovative, la Circolare sottolinea, inoltre, che non concorrono al superamento dei limiti quantitativi le assunzioni di disabili con contratto a tempo determinato (2) e  le acquisizioni di personale a termine nelle ipotesi di trasferimenti d’azienda o di rami di azienda.

CONTRATTO DI APPRENDISTATO
A proposito di questa fattispecie contrattuale, la Circolare di sofferma in particolare sul piano formativo individuale, sulle clausole di stabilizzazione e sulla disciplina del contratto di apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale e di quello professionalizzante o di mestiere.

Il Ministero ricorda che la forma sintetica del Piano Formativo Individuale può contenere esclusivamente la formazione finalizzata all’acquisizione di competenze tecnico professionali e specialistiche.

Rispetto alla formazione trasversale, prevista per l’apprendistato professionalizzante e di competenza delle Regioni o delle Province Autonome, il personale ispettivo dovrà  astenersi dall'applicazione della sanzione per omessa formazione, nelle ipotesi in cui l’informativa regionale o provinciale non sia intervenuta entro i 45 giorni successivi alla comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda le clausole di stabilizzazione e le possibili deroghe introdotte dalla contrattazione collettiva, la nota chiarisce che le parti sociali possono introdurre dette clausole solo per modificare il regime legale, il quale prevede forme di stabilizzazione per i datori di lavoro che occupano almeno 50 dipendenti e la cui violazione comporta il "disconoscimento” dei rapporti di apprendistato avviati in violazione dei limiti.

Si ricorda, infine, che per le aziende con meno di 50 dipendenti, la violazione di clausole di stabilizzazione eventualmente previste dai Contratti Collettivi, anche vigenti, non potrà essere sanzionata con la conversione del rapporto.

Valerio Pollastrini

(1)   - convertito con modifiche con L. n.78/2014;
(2)   - ai sensi dell’art.11 della L. n. 68/1999;

venerdì 1 agosto 2014

Novità in arrivo per i voucher babysitting

Nel corso di un intervento in Commissione Affari Sociali della Camera, il sottosegretario al Ministero del lavoro, Teresa Bellanova, ha annunciato la necessità di apportare alcune modifiche all’istituto dei  voucher per l'acquisto dei servizi di babysitting o per far fronte ai costi dei servizi per l'infanzia della rete pubblica o dei servizi privati accreditati, finora  poco utilizzati.

Da un monitoraggio sulle prestazioni richieste nel 2013 è emerso, infatti, uno scarso utilizzo di questo strumento ed il Governo, pertanto, starebbe elaborando l’introduzione di ulteriori elementi in grado di rendere i voucher in commento  davvero funzionali ed efficaci.

Tra le misure al vaglio, l’innalzamento dell'importo mensile  dagli attuali 300 a 600 euro, attraverso il quale gli utenti potranno   usufruire di un vero e proprio sostegno economico per la retta degli asili o per il costo di una babysitter.

Prevista, inoltre, una rivisitazione dei tempi e dei criteri per presentare la domanda, allargando i  vincoli temporali ed estendendone la fruizione anche alle lavoratrici del pubblico impiego.

Valerio Pollastrini

Quando l’omesso delle ritenute previdenziali non costituisce reato

Nella sentenza del 27 giugno 2014, il Tribunale di Asti ha chiarito che l’omesso versamento delle ritenute previdenziali non costituisce reato quando risulti di modesta entità.

Nel caso di specie, il legale rappresentante di una società era stato imputato per il reato previsto per l’omesso versamento all’Inps delle somme trattenute sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti (1).

Investito della questione, il Tribunale ha rilevato che  il fatto contestato non costituisce più reato, richiamando, in proposito,  una recente pronuncia della Consulta sulla legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1-bis, del  D.L. n.463/1983,  sollevata in merito agli omessi versamenti di cifre risibili o, comunque, di entità modesta con riferimento ad ogni singolo periodo di imposta.

In tale occasione, pur ribadendo la piena legittimità della disposizione in esame, la Corte Costituzionale ha sottolineato l’utilità, anche nell’ambito di tale fattispecie criminosa, del generale canone interpretativo offerto dal principio di necessaria offensività della condotta concreta, in base al quale deve essere escluso il  rilievo penale delle condotte apparentemente tipiche quando, avuto riguardo alla ratio della norma incriminatrice, esse risultino in concreto prive di significato lesivo (3).

Il Tribunale ha inoltre ricordato come l’art.2 della Legge n.67/2014 abbia conferito al Governo la Delega per la riforma della disciplina sanzionatoria, al fine di trasformare in illecito amministrativo il reato di cui all’art.2, comma 1-bis, del Decreto-Legge n.463/1983 (4), purché l’omesso versamento non ecceda il limite complessivo di 10.000,00 € annui.

A questo riguardo, sia la dottrina che la stessa Corte Costituzionale (5) hanno chiarito che la suddetta  Legge Delega non si limita a disciplinare i rapporti “interni” tra Parlamento e Governo ma costituisce fonte direttamente produttiva di norme giuridiche.

Nonostante la predetta Delega, certamente, non abbia provveduto ad una formale depenalizzazione del reato in commento, a detta del Tribunale essa assolve tuttavia la funzione di orientare l’interpretazione della norma di riferimento, completando  il contenuto precettivo di quanto affermato dal Giudice delle Leggi.

In questi termini, se il Giudice di merito è legittimato ad effettuare una valutazione in termini di offensività delle condotte asseritamente costitutive del reato in parola, costituisce dato altrettanto oggettivo il fatto che il Parlamento, ossia l’organo costituzionale espressione della volontà popolare e titolare del potere legislativo,
ha stabilito, in termini espliciti, che gli omessi versamenti inferiori a  10.000,00 € per ogni periodo di imposta non devono e non possono considerarsi offensivi di interessi penalmente tutelati.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – di cui all'art.81 c.p. e all’art.2 del D. L. n.463/83, convertito nella L. n.638/1983, come modificato dal D.L. n.338/89 convertito nella L. 389/89;
(2)   – Corte Costituzionale, Sentenza n.139 del 19 maggio 2014;
(3)   - Corte Costituzionale, Sentenza n.333/1991;
(4)   - convertito, con modificazioni, dalla legge n.638/1983;
(5)   – Corte Costituzionale, Sentenza n.224/1990;

L’obbligo della visita medica preventiva è connesso alla specifica mansione del lavoratore

Nella sentenza n.30919 del 15 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha osservato che, ai fini della sussistenza del reato  inerente alla mancata sottoposizione dei dipendenti alla visita medica preventiva ed obbligatoria, è necessario accertare le concrete mansioni svolte dai lavoratori.

Il caso di specie è quello del titolare di un campeggio che, ritenuto colpevole  del reato (1) connesso all'omessa visita medica preventiva, era stato condannato dal Tribunale alla pena di  1.500,00 € di ammenda.

Nell’adire la Cassazione, l’imputato aveva lamentato che il Tribunale avesse ritenuto che tutti i lavoratori del campeggio dovessero essere sottoposti a visita medica, compresi gli impiegati di segreteria.

Il ricorrente aveva rilevato come l'art.41 del D.Lgs. n.81/2008 preveda l’obbligo della sorveglianza sanitaria, tra cui quello della visita preventiva,  nei confronti dei lavoratori esposti a singoli rischi esplicitamente previsti.

A detta del datore di lavoro, pertanto,  per i dipendenti non esposti a rischio, come gli amministrativi e gli addetti alla segreteria, non vi sarebbe alcun obbligo di visita preventiva.

Sempre a tale riguardo, l’imputato aveva  sottolineato che lo stesso verbale di accertamento  aveva precisato che l'omessa sottoposizione a visita medica dei tre dipendenti addetti alla segreteria sarebbe potuta essere sanzionata soltanto in relazione all'uso dei videoterminali (2).

Dal momento che, nella specie, tale utilizzo era stato escluso, il datore di lavoro riteneva  conseguentemente insussistente il reato ascrittogli.

Nell’accogliere il ricorso, la Suprema Corte  ha ricordato che l’art.41 del D.Lgs. n.81/2008  prevede che la sorveglianza sanitaria, effettuata dal medico competente, comprende la visita medica preventiva rivolta ad accertare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il dipendente è destinato, valutandone  l’idoneità alla mansione specifica, e  la visita medica periodica il cui scopo è quello di controllare lo stato di salute del lavoratore ed esprimere il giudizio di idoneità alla mansione attribuitagli.

In sostanza, la Cassazione ha sconfessato la pronuncia del merito poiché non aveva indicato quali fossero le mansioni svolte dai lavoratori, assumendo che, in ogni caso, trovasse   applicazione quanto disposto dall’art.18, comma 1, lett.g), del  D.Lgs. n.81/2008,  ai sensi del quale il datore di lavoro ha l’obbligo di sottoporre  i lavoratori alla visita medica entro le scadenze previste dal programma di sorveglianza sanitaria e di richiedere al medico competente l'osservanza degli obblighi previsti a suo carico nel richiamato decreto.

Il Tribunale, inoltre, non aveva tenuto conto che  la sorveglianza sanitaria, cui fa riferimento la predetta norma, fosse quella di cui all'art.41, comma 2, lett. b), relativa alla visita medica periodica.

Parimenti, il giudice del merito non aveva considerato  che la contestazione rivolta al datore di lavoro non riguardasse le visite mediche periodiche previste dal programma di sorveglianza sanitaria, bensì  la mancata sottoposizione a visita medica preventiva.

Per tali ragioni, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviando la decisione al medesimo Tribunale, chiamato ad accertare compiutamente  se  i lavoratori  indicati nel verbale di prescrizioni fossero stati  sottoposti a visita medica preventiva in funzioni delle mansioni svolte.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Fattispecie di reato prevista dagli artt.18, comma 1, lett. d) e z), 29, comma 1, 36, 37 e 41, comma 2,  del  D.Lgs. n.81/2008;
(2)   – Ai sensi dell’art.176 del D.Lgs. n.81/2008;

Conversione del soggiorno stagionale in permesso per lavoro subordinato

Nella sentenza n.3577 dell’11 luglio 2014, il Consiglio di Stato ha ribadito che la possibilità di convertire il permesso di soggiorno per lavoro stagionale nel diverso permesso per lavoro subordinato sussiste solo a partire dal secondo ingresso stagionale.

Tale richiesta, pertanto non può essere accolta durante il primo ingresso dello straniero.

La vicenda in commento è quella di un cittadino albanese che nel 2007 era entrato in Italia  con un visto d’ingresso per lavoro stagionale.

Alla scadenza del permesso di soggiorno lo straniero aveva chiesto la conversione del titolo di soggiorno in permesso per   lavoro subordinato.

Il Questore di competenza aveva   respinto l’istanza, sostenendo che la corretta applicazione della normativa vigente consenta al titolare di un permesso per lavoro stagionale di convertirlo in quello per lavoro subordinato, solo a partire dal secondo ingresso come stagionale.

Il richiedente, invece, aveva effettuato solo il primo ingresso come stagionale, alla cui scadenza,  non aveva fatto rientro nel Paese di provenienza.

Dopo il successivo accoglimento del ricorso del lavoratore dinnanzi al  TAR, il Ministero dell’Interno si era rivolto  al Consiglio di Stato.

In sostanza,  il Collegio giudicante è stato chiamato a chiarire  se il lavoratore con permesso stagionale possa convertirlo in permesso per lavoro subordinato  già nel corso, o alla fine, del suo primo soggiorno, o al contrario possa usufruire di tale possibilità solo a partire dal suo secondo soggiorno come stagionale.

A tale riguardo il Consiglio di Stato ha richiamato alcune precedenti pronunce (1), nelle quali lo stesso organo aveva sottolineato come la tesi giurisprudenziale, secondo cui la conversione del permesso stagionale in permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato è possibile solo a partire dal secondo soggiorno in Italia, si fonda non solo sull'art.24, comma 4, del D.lgs n.286 del 25 luglio 1998, che fa obbligo allo straniero, che intende avvalersi della possibilità di convertire il proprio titolo temporaneo, di rispettare le condizioni previste nel permesso stagionale, tra cui l'obbligo di rientro in patria al termine di questo, ma anche sulla lettura complessiva della legge sull'immigrazione, comprese le norme del regolamento di attuazione, da cui emerge che si è inteso agevolare l'immigrazione stagionale, mediante procedure di autorizzazione più semplici, al fine di incentivare i lavoratori stranieri a preferire questa formula rispetto a quella della immigrazione ordinaria.

Tuttavia, l'interesse dello straniero di trasformare il proprio status in quello di lavoratore con permesso di soggiorno ordinario trova considerazione da parte del legislatore, che ha individuato un punto di equilibrio con l'opposta esigenza di non eludere le procedure più rigorose e i criteri più restrittivi dettati per l'immigrazione non stagionale, consentendo la conversione del permesso stagionale a partire dal secondo ingresso del lavoratore stagionale, anziché dal primo.

Alla luce della richiamata giurisprudenza, il Consiglio ha concluso con l’accoglimento dell’appello proposto dal Ministero, con conseguente annullamento della sentenza del TAR.

Valerio Pollastrini


(1)   – Consiglio di Stato, Sentenza n.5002 del 15 ottobre 2013; Consiglio di Stato, Sentenza n.939 del  21 febbraio 2012;

Contributi Inps sulle somme corrisposte in seguito a transazione

Nella sentenza n.17180 del 29 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che l’intervenuta transazione tra datore di lavoro e dipendente non produce effetti sull’obbligazione contributiva nei confronti dell’Inps, in base alla quale le somme dovute all’Ente Previdenziale vanno commisurate alla retribuzione dovuta e non a quella corrisposta in seguito all’accordo raggiunto tra le parti.

Nel caso in commento, un istituto bancario si era opposto contro l'iscrizione a ruolo di somme corrispondenti a contributi previdenziali relativi ad un lavoratore reintegrato in seguito ad illegittimo licenziamento, calcolati, per tutto il periodo intercorrente tra il recesso e la data della intervenuta conciliazione, sulla base della retribuzione globale di fatto.

Sia il Tribunale che la Corte di Appello   avevano però  rigettato la domanda dell’azienda.

In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto  che l'obbligazione contributiva fosse insensibile all’accordo con il quale  al lavoratore era stata corrisposta, in via transattiva,  una somma  comprensiva di  un’integrazione del trattamento di fine rapporto.

Dal tenore letterale dell'accordo, infatti, appariva chiaramente che la somma suddetta fosse stata corrisposta al dipendente in relazione al ripristinato rapporto di lavoro  e quale corrispettivo della rinuncia ad esso.

Conseguentemente, per il giudice dell’appello l’obbligo contributivo nei confronti dell’Inps rimaneva inalterato.

Investita della questione, la Suprema Corte ha confermato quanto disposto nelle pronunce del merito, ricordando, in particolare, come l’art. 12 della Legge n.153/1969 includa nella retribuzione imponibile ai fini contributivi "tutto ciò che il lavoratore riceve dal datore di lavoro...".

In sostanza,  l'obbligo contributivo del datore di lavoro verso l’Istituto Previdenziale sussiste indipendentemente dal fatto che gli obblighi retributivi nei confronti del dipendente siano stati in tutto o in parte soddisfatti, ovvero che il lavoratore abbia rinunciato ai suoi diritti .

La Cassazione ha poi chiarito che, nel caso in cui il licenziamento sia stato dichiarato illegittimo ai sensi dell'art.18 della legge n.300/1970, il rapporto di lavoro prosegue, anche in assenza di effettive prestazioni, fino al momento della reintegra del dipendente licenziato, ovvero fino alla transazione che abbia posto fine al contratto, eventualmente intervenuta dopo la sentenza di reintegra.

Per quanto riguarda  quest’ultima ipotesi,  il datore di lavoro resta dunque  obbligato a pagare i contributi previdenziali sulla somma corrispondente alla misura della retribuzione dovuta in base al contratto di lavoro e non sul minore importo quantificato in sede transattiva.

Per tali ragioni, la Suprema Corte ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

Lavoro intermittente notturno

Ai sensi dell’art.1, comma 1, lett. D), del D.Lgs n.66/2003, si considera lavoro notturno il periodo di almeno sette ore consecutive comprendenti l ‘intervallo tra la mezzanotte e le cinque del mattino.

Nella Nota n.12209 del 17 luglio 2014, la Direzione Generale del Ministero del Lavoro ha fornito alcuni chiarimenti sollecitati dalla Direzione Territoriale del Lavoro di Cuneo a proposito dei controlli preventivi e periodici relativi al lavoro intermittente notturno.

In linea generale, il richiamato Decreto Legislativo dispone che i lavoratori notturni devono essere sottoposti almeno ogni due anni a controlli preventivi e periodici, volti a verificare l ‘assenza di controindicazioni a questo tipo di prestazioni.

Nella Nota in commento, il Ministero ha sottolineato che il suddetto obbligo sussiste anche nei confronti dei lavoratori intermittenti, nella misura in cui gli stessi possano considerarsi “lavoratori notturni”.

In proposito, si ricorda che, ai sensi dell’art. 1, comma 1,  lett e), del D.Lgs. n.66/2003, per lavoratore notturno si intende qualsiasi dipendente che durante il periodo notturno svolga almeno tre ore del suo tempo di lavoro giornaliero impiegato in modo normale, oppure qualsiasi lavoratore che svolga durante il periodo notturno almeno una parte del suo orario di lavoro secondo le norme definite dai contratti collettivi di lavoro.  In difetto di disciplina collettiva è considerato lavoratore notturno qualsiasi dipendente che svolga per almeno tre ore lavoro notturno per un minimo di ottanta giorni lavorativi all’anno.  Limite, quest’ultimo,  riproporzionato in caso di lavoro a tempo parziale.

Dal momento che la prima  definizione di lavoratore notturno implica l’esistenza di un rapporto di lavoro continuativo, predeterminato anche in relazione alla obbligatorietà della prestazione ed alla collocazione temporale della stessa, per ricondurre la prestazione del lavoratore intermittente a quella del lavoratore notturno bisogna far riferimento alla seconda definizione su esposta.

Considerando, inoltre, che gli obblighi di controllo scattano per un impegno notturno di almeno 80 giorni lavorativi all’anno, tale limite minimo risulta applicabile anche per i lavoratori intermittenti, rispetto ai quali giova ricordare che   non è possibile quantificare preventivamente il numero di giornate di prestazione.

Di conseguenza, gli obblighi di controllo periodico debbono essere assolti solamente nei casi in cui i lavoratori intermittenti siano impiegati per un minimo di 80 giorni all’anno.

Per quanto riguarda, invece, i controlli preventivi,  per i lavoratori in questione gli stessi dovranno essere effettuati prima della ottantesima giornata di prestazione notturna.

Valerio Pollastrini

Attività svolta pressi terzi durante la malattia

Nella sentenza n.33743/2014, la Corte di Cassazione, dopo aver ricordato il rischio di un’imputazione per truffa a carico del   dipendente sorpreso a svolgere durante l’assenza per malattia un altro lavoro, ha chiarito che, ai fini della condanna, è necessario accertare se le prestazioni rese in concomitanza con l’evento morboso possano averne ritardato la guarigione.

Dall’analisi degli indirizzi consolidati della giurisprudenza di legittimità, infatti, non emerge un divieto assoluto di lavorare  a favore di terzi durante l'assenza per malattia.

Tale situazione, però, si pone in antitesi con i principi di correttezza e buona fede, qualora il lavoro in favore di terzi sia svolto in concomitanza con la simulazione di uno stato di malattia.

Parimenti sanzionabile, inoltre, è il caso in cui il secondo lavoro, per le sue caratteristiche, possa pregiudicare o ritardare la guarigione del dipendente prolungandone così l'assenza dal lavoro.

Resta inteso, infine, che il secondo lavoro non deve integrare una violazione del divieto di concorrenza.

Valerio Pollastrini

Sgravi per l’assunzione di detenuti

Un Decreto del Ministero degli Interni ha recentemente disposto lo stanziamento di oltre 30 milioni di euro per favorire l’attività lavorativa dei detenuti finalizzata alla loro rieducazione e al reinserimento nella società.

La norma prevede sia  degli sgravi fiscali che contributivi in favore delle imprese che assumono, per un periodo non inferiore a 30 giorni, lavoratori detenuti.

Per l’anno 2013, le imprese riceveranno un credito d’imposta mensile di 700,00 € per ogni detenuto e internato assunto.

Dal 2014, fino all’adozione di un nuovo regolamento, il credito mensile sarà pari a 520,00 €.

Per i lavoratori semiliberi, invece,  gli sgravi previsti ammontano a 350,00 € per il 2013 ed a 300,00 € per il 2014.

Lo stesse credito d’imposta verrà corrisposto anche alle aziende impegnate in attività di formazione nei confronti di detenuti o internati, finalizzata alla loro immediata assunzione o all’impiego professionale in attività lavorative gestite dall’Amministrazione penitenziaria.

Fino all’adozione di un nuovo decreto ministeriale, le imprese che assumono i soggetti sopra richiamati, beneficeranno anche di una riduzione delle aliquote contributive nella misura del 95%.

Valerio Pollastrini