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mercoledì 20 novembre 2013

Obbligo contribuzione Enasarco per gli agenti che operano all’estero.


Il Ministero di lavoro, in risposta ad Interpello n.32/2013 avanzato dalla Cofimi Impresa, ha espresso il proprio parere a proposito dell’ obbligo di contribuzione Enasarco per gli agenti che operano all’estero.

L’Ente interpellato ha ricordato, innanzitutto, le fonti che regolamentano la contribuzione ENASARCO, rappresentate dalla L. n. 12/1973 e dal relativo Regolamento di esecuzione previsto dall’art. 40 della citata Legge.

La L. n. 12/1973 circoscrive  l’obbligo di iscrizione all’ ENASARCO a “tutti gli agenti ed i rappresentanti di commercio che operano sul territorio nazionale in nome e per conto di preponenti italiani o di preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia; Sono altresì obbligatoriamente iscritti all'ENASARCO gli agenti ed i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani”.

Il Regolamento, invece,  per quanto riguarda l’ambito applicativo dell’obbligo di iscrizione, stabilisce che “sono obbligatoriamente iscritti alla Fondazione tutti i soggetti  che operino sul territorio nazionale in nome e per conto di preponenti italiani o di preponenti stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia”.

A detta del Ministero la previsione del regolamento  “restringe” l’ambito di operatività dell’obbligo contributivo, escludendo dal novero dei soggetti tenuti all’iscrizione all’ENASARCO “gli agenti ed i rappresentanti di commercio italiani che operano all’estero nell’interesse di preponenti italiani”.

Per la definizione dell’obbligo contributivo di tali soggetti, l’Ente interpellato chiarisce che occorre fare riferimento all’art. 2, comma 2 del Regolamento citato che opera un esteso rimando alle norme comunitarie e alle convenzioni internazionali in materia di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.

Si tratta in tal caso delle disposizioni del Regolamento (CE) n. 883/2004, come modificato dal Regolamento (CE) n. 988/2009, che afferma il principio generale dell’unicità della legislazione applicabile in materia di sicurezza sociale e che, per i lavoratori autonomi, stabilisce il principio della lex loci laboris ovvero della soggezione alla legislazione dello Stato membro in cui l’attività è esercitata.

In tal senso, l’obbligo contributivo ENASARCO vale per l’agente italiano o straniero che opera in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri ma non per l’agente che opera all’estero nell’interesse di preponenti italiani – anche se ciò era previsto dall’art. 5, comma 1, L. n. 12/1973 – per i quali si applica l’art. 13, par. 2, del Regolamento (CE) n. 883/2004 che impone alla persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in due o più Stati membri la soggezione:

- alla legislazione dello Stato membro di residenza, se esercita una parte sostanziale della sua attività in tale Stato membro;

- alla legislazione dello Stato membro in cui si trova il centro di interessi delle sue attività, se non risiede in uno degli Stati membri nel quale esercita una parte sostanziale delle sue attività.

Al riguardo si fa presente che il Regolamento (CE) n. 987/2009, all’art. 14, par. 6, precisa che per “persona che esercita abitualmente un’attività lavorativa autonoma in due o più Stati membri” si intende “una persona che esercita, contemporaneamente o a fasi alterne, una o più attività lavorative autonome distinte, a prescindere dalla loro natura, in due o più Stati membri”.

Il medesimo Regolamento, inoltre, all’art. 14, par. 8, prevede che la “parte sostanziale di un’attività autonoma” esercitata in uno Stato membro consiste in una “parte quantitativamente sostanziale dell’insieme delle attività del lavoratore autonomo, senza che si tratti necessariamente della parte principale di tali attività” con riguardo ai criteri indicativi di fatturato, orario di lavoro, numero di servizi prestati e reddito. Se, in base a tali criteri, non si raggiunge il 25% del valore dell’attività, il Regolamento esclude che una parte sostanziale delle attività sia svolta nello Stato membro in questione.

Dispone, infine, il Reg. (CE) n. 987/2009, all’art. 14, par. 9, che per “centro di interessi” dell’attività di un lavoratore autonomo vanno considerati “tutti gli elementi che compongono le sue attività professionali, in particolare il luogo in cui si trova la sede fissa e permanente delle attività dell’interessato, il carattere abituale o la durata delle attività esercitate, il numero di servizi prestati e la volontà dell’interessato quale risulta da tutte le circostanze”.

Il Ministero precisa, inoltre, che per gli agenti che operano abitualmente in Italia e si recano a svolgere un’attività affine esclusiva all’estero per massimo 24 mesi, il Regolamento (CE) n. 833/2004, all’art. 12, par. 2, prevede la soggezione alla legislazione del primo Stato membro.

Al termine di questa analisi normativa, è possibile dunque riassumere che l’obbligo di iscrizione all’Enasarco risulta riferibile:

- agli agenti di commercio che operano sul territorio italiano in nome e per conto di preponenti italiani o stranieri che abbiano la sede o una qualsiasi dipendenza in Italia;

- agli agenti di commercio italiani o stranieri che operano in Italia in nome e/o per conto di preponenti italiani o stranieri, anche se privi di sede o dipendenza in Italia;

- agli agenti che risiedono in Italia e vi svolgono una parte sostanziale della loro attività;

- agli agenti che non risiedono in Italia, purché abbiano in Italia il proprio centro d’interessi;

- agli agenti che operano abitualmente in Italia ma si recano a svolgere attività esclusivamente all’estero, purché la durata di tale attività non superi i 24 mesi.

Il Ministero ha infine chiarito che, per quanto concerne la  categoria dei preponenti operanti in Paesi extra UE, gli stessi saranno tenuti all’iscrizione previdenziale in Italia solo laddove ciò sia previsto da trattati o accordi internazionali sottoscritti e vincolanti il singolo Paese di appartenenza.

Valerio Pollastrini

Criteri di computo dei rapporti di lavoro a tempo determinato


Con Interpello n.30/2013 Confindustria ha richiesto al Ministero del lavoro chiarimenti sul criterio utile per il computo dei rapporti di lavoro a tempo determinato, ai fini dell’applicazione di specifiche previsioni di legge, quali:

- art. 8, D.Lgs. n. 368/2001 per il riconoscimento dei diritti sindacali di cui all’art. 35, L. n. 300/1970;

- art. 12, D.Lgs. n. 25/2007, sulla disciplina dell’informazione e della consultazione dei lavoratori;

- art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 113/2012, concernente i CAE (Comitati Aziendali Europei).

L’Ente interpellato ha preliminarmente esaminato le normative di riferimento richiamate nell’istanza, ricordando come, ai fini del riconoscimento dei diritti sindacali, “i limiti prescritti dal primo e dal secondo comma dell'articolo 35 della legge 20 maggio 1970, n. 300, per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell'effettiva durata dei loro rapporti di lavoro”.

Analogamente, in ordine alla disciplina dell’informazione e della consultazione dei lavoratori,  l’art. 3, D.Lgs. n. 25/2007 prevede che “la soglia numerica occupazionale è definita nel rispetto delle norme di legge e si basa sul numero medio mensile dei lavoratori subordinati, a tempo determinato ed indeterminato, impiegati negli ultimi due anni, sulla base dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro.

Il Ministero ha quindi affermato che dalla lettura delle disposizioni sopra indicate si evince che, ai fini della corretta determinazione della base di computo, occorre effettuare la somma di tutti i periodi di rapporto di lavoro a tempo determinato, svolti a favore del datore di lavoro nell’ultimo biennio e successivamente dividere il totale per 24 mesi. Il risultato così ottenuto consente infatti di determinare, così come richiesto dal Legislatore, il numero medio mensile dei lavoratori subordinati impiegati nell’arco di 24 mesi.

A titolo esemplificativo, nell’ipotesi di due lavoratori a tempo determinato con rapporti di lavoro rispettivamente pari a 12 per ciascuno nel corso degli ultimi due anni, si procederà a sommare la durata di ciascun rapporto (12 mesi + 12 mesi = 24 mesi ) per poi dividere tale risultato per 24 mesi (24 : 24 = 1 unità lavorativa). Ne consegue che il numero medio mensile dei lavoratori subordinati impiegati nell’arco di 24 mesi è pari a 1 unità.

Con le medesime modalità, nel caso di due lavoratori a termine con rapporti di lavoro rispettivamente pari a 12 e 16 mesi, si dovrà effettuare la somma di 12 mesi + 16 mesi = 28 mesi e divedere il totale sempre per 24 mesi (28 : 24 = 1,16) arrotondando il risultato ad una unità lavorativa; la soluzione segue infatti il criterio dell’arrotondamento per difetto nelle ipotesi in cui il risultato sia compreso tra 0,01 e 0,50, mentre qualora sia compreso tra 0,51 e 0,99 si procede all’arrotondamento ad unità (es. 1,50 = 1 unità; 1, 51 = 2 unità).

Per quanto attiene invece ai Comitati Aziendali Europei, nell’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 113/2012 il riferimento alla “ponderazione” non sembra modificare nella sostanza il criterio di computo contemplato dalle due disposizioni innanzi menzionate. Ai sensi di tale disposizione, infatti, “le soglie minime prescritte per il computo dei dipendenti si basano sul numero medio ponderato mensile di lavoratori impiegati negli ultimi due anni”, riferendosi in tal modo sia ai rapporti di lavoro a tempo determinato che a quelli a tempo indeterminato in linea con quanto stabilito dalla precedente disposizione normativa del 2007.

In conclusione, il Ministero ha chiarito  che il criterio di computo dei contratti a tempo determinato sopra descritto possa trovare applicazione nelle fattispecie richiamate dall’art. 8, D.Lgs. n. 368/2001, dall’art. 12, D.Lgs. n. 25/2007 e dall’art. 2, comma 2, D.Lgs. n. 113/2012.

Valerio Pollastrini

Escluso il lavoro a chiamata per le mansioni di interprete e traduttore di scuola di lingua


In assenza dei requisiti soggettivi ovvero oggettivi individuati dall’art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003, le ipotesi in cui risulta ammissibile la stipulazione di contratti di lavoro intermittente sono declinate nell’elenco contenuto nella tabella allegata al Regio Decreto n. 2657/1923.

Il punto 38 della tabella citata, contempla le prestazioni svolte dagli “interpreti alle dipendenze di alberghi o di agenzie di viaggio e turismo, esclusi coloro che hanno anche incarichi o occupazioni di altra natura e coloro le cui prestazioni, a giudizio dell’Ispettorato corporativo, non presentino nella particolarità del caso i caratteri di lavoro discontinuo o di semplice attesa”.

Con l’Interpello n.31/2013 il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro ha chiesto al Ministero del lavoro se le figure dell’interprete e del traduttore che espletano la propria attività presso scuole o istituti di lingua possano essere assimilate a quella degli “interpreti alle dipendenze di alberghi o di agenzie di viaggio e turismo”, per la quale, come detto, il R.D. n. 2657/1923 dispone la legittimità del ricorso al lavoro a chiamata.

L’Ente interpellato ha preliminarmente ricordato che la terminologia utilizzata nel punto 38  evidenzia che le relative attività si riferiscono solo a prestazioni di interpretariato rese nell’ambito di strutture di tipo alberghiero ovvero presso agenzie di viaggio e del turismo, come confermato peraltro dall’esclusione espressa, contenuta nella medesima clausola, degli interpreti che svolgono anche incarichi o compiti di diversa natura a favore delle medesime strutture.

Sulla base di questa premessa, il Ministero ha, pertanto, escluso la possibile equiparazione della figura dell’interprete/traduttore impiegato presso scuole o istituti di lingua a quella degli interpreti alle dipendenze di alberghi o di agenzie di viaggio e turismo, ricordando, tuttavia, la possibilità di instaurare un rapporto di lavoro di natura intermittente anche in tali ambiti laddove il lavoratore sia in possesso dei requisiti anagrafici di cui all’art. 34 del D.Lgs. n. 276/2003 o qualora sia previsto dalla disciplina collettiva di settore.

Valerio Pollastrini

martedì 19 novembre 2013

Dal 15 dicembre in arrivo i rimborsi dal fisco per il 730


Attraverso un comunicato stampa, l'Agenzia delle Entrate ha reso note le date dei rimborsi 730 previsti per chi ha presentato il modello fiscale nel mese di settembre di quest’anno poiché privo di sostituto d’imposta nel 2013.

In base ai dati dell’Agenzia sono circa 96 mila i contribuenti che, non avendo più un datore di lavoro e vantando un credito fiscale, hanno usufruito dell’opportunità offerta dal Decreto del Fare (art. 51-bis del Dl n. 69/2013) di presentare il modello 730 Situazioni particolari (Sp), lo scorso settembre.

I contribuenti che hanno comunicato il proprio codice Iban, dal 15 dicembre riceveranno i rimborsi direttamente sul proprio conto corrente, mentre per tutti coloro che non hanno comunicato l’IBAN saranno disponibili dal 21 dicembre presso gli uffici postali i rimborsi in contanti.

L’Agenzia delle Entrate ha inoltre annunciato che dal 2014 i contribuenti che non hanno più un posto di lavoro, e quindi privi di un sostituto d’imposta a cui presentare il 730/4, potranno inoltrare la dichiarazione 730 non soltanto nel caso di somme a credito, ma anche nel caso di importi a debito.

Valerio Pollastrini

lunedì 18 novembre 2013

Estensione del diritto al congedo straordinario


In seguito alla Sentenza della Corte Costituzionale n. 203 del 3 luglio 2013 che ha sancito l’estensione del diritto al congedo di cui all’ art. 42, comma 5, del D.Lgs n.151/2001 anche ai parenti o affini entro il terzo grado conviventi con la persona in situazione di disabilità grave, l’Inps, con la News del 18 novembre 2013 ha riscritto la platea dei soggetti interessati al congedo straordinario per la cura delle  persone disabili in situazione di gravità.

Il congedo straordinario può dunque essere riconosciuto al familiare o affine entro il terzo grado convivente del disabile in situazione di gravità, in caso di mancanza, decesso o in presenza di patologie invalidanti degli altri soggetti individuati dalla norma, secondo un determinato ordine di “priorità” che vede al primo posto per il riconoscimento del beneficio il coniuge convivente della persona disabile e, in caso di mancanza di questi, il padre o la madre – anche adottivi o affidatari – del disabile;

L’Istituto ricorda, inoltre, che, a seguire, hanno diritto al beneficio, nell’ordine, figli, fratelli o sorelle e, infine, parenti o affini di terzo grado, purché conviventi e sempre nel caso in cui il coniuge convivente, entrambi i genitori, i figli conviventi e i fratelli o sorelle conviventi siano mancanti, deceduti o affetti da patologie invalidanti.

I requisiti soggettivi per il riconoscimento del congedo straordinario, unitamente alle modalità per la presentazione delle domande, sono descritti in dettaglio nella circolare n. 159 del 15 novembre 2013.

Valerio Pollastrini

Chiarimenti sui benefici contributivi per i disoccupati da oltre 24 mesi


In risposta all’Interpello n.9/2013 il Ministero del lavoro ha fornito alcuni chiarimenti in merito alla concessione dei benefici contributivi di cui all’art.8, c.9 della legge n.407/90.

Ad avanzare l’istanza era stato il Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro che aveva chiesto se la disposizione normativa citata potesse trovare applicazione nel caso in cui la nuova assunzione riguardi ex dipendenti della medesima impresa, in possesso del requisito dello stato di disoccupazione, licenziati per diminuzione di personale ovvero che abbiano esercitato il diritto di recesso da un rapporto di lavoro part-time.

Il Ministero ha ritenuto opportuno ricordare preliminarmente che l’art. 8, comma 9, della L. n. 407/1990 contempla la possibilità di fruizione di benefici contributivi per un periodo pari a 36 mesi, nel caso in cui l’azienda assuma lavoratori con contratto a tempo indeterminato, anche in part-time, nel rispetto di un duplice ordine di requisiti.

In primo luogo, si deve trattare di “assunzioni di lavoratori disoccupati da almeno ventiquattro mesi o sospesi dal lavoro e beneficiari di trattamento straordinario di integrazione salariale da un periodo uguale a quello suddetto”; inoltre la modifica recentemente introdotta dalla L. n.92/2012, richiede che le medesime assunzioni non siano effettuate “in sostituzione di lavoratori dipendenti dalle stesse imprese licenziati per giustificato motivo oggettivo o per riduzione del personale o sospesi”.

In riferimento a tale ultima condizione,  il periodo da prendere in considerazione per la verifica di una eventuale sostituzione di lavoratori licenziati o sospesi va individuato nei sei mesi immediatamente precedenti all’assunzione.

E’ necessario inoltre segnalare che la L. n. 92/2012 ha introdotto alcuni principi di immediata applicazione in ordine alla fruizione degli incentivi, ivi compresi quelli di cui alla L. n. 407/1990.

L’art. 4, comma 12, della riforma stabilisce anzitutto che “gli incentivi non spettano con riferimento a quei lavoratori che siano stati licenziati, nei sei mesi precedenti, da parte di un datore di lavoro che, al momento del licenziamento, presenti assetti proprietari sostanzialmente coincidenti con quelli del datore di lavoro che assume ovvero risulti con quest’ultimo in rapporto di collegamento o controllo; in caso di somministrazione tale condizione si applica anche all'utilizzatore”.

Il successivo comma 13 stabilisce invece che “ai fini della determinazione del diritto agli incentivi e della loro durata, si cumulano i periodi in cui il lavoratore ha prestato l’attività in favore dello stesso soggetto, a titolo di lavoro subordinato o somministrato; non si cumulano le prestazioni in somministrazione effettuate dallo stesso lavoratore nei confronti di diversi utilizzatori, anche se fornite dalla medesima agenzia di somministrazione di lavoro (…) salvo che tra gli utilizzatori ricorrano assetti proprietari sostanzialmente coincidenti ovvero intercorrano rapporti di collegamento o controllo”.

Ciò premesso, il Ministero ha chiarito che in relazione all’ipotesi di assunzione di ex dipendente licenziato per riduzione di personale si ritiene che, se in capo al medesimo lavoratore si siano nuovamente configurati i requisiti di legge, nessuna preclusione può applicarsi al riconoscimento per intero del beneficio.

Se quindi il lavoratore perde lo stato di disoccupazione e poi lo riacquista, iniziando a maturare da zero un nuovo periodo di 24 mesi di disoccupazione, nel rispetto di ogni altra condizione prevista dalla legge, non può ostare al riconoscimento del beneficio il solo fatto che il lavoratore assunto ai sensi dell’art. 8, comma 9, L. n. 407/1990 fosse già stato alle dipendenze dello stesso datore di lavoro in un precedente rapporto agevolato. In tal caso l’agevolazione contributiva deve essere quindi riconosciuta per intero e non va, invece, contratta cumulando i periodi agevolati precedenti.

In ordine alla possibilità per il datore di lavoro di usufruire delle agevolazioni in esame nel caso in cui assuma “nuovamente, dopo alcuni mesi, un lavoratore part-time a 20 ore settimanali, precedentemente dimessosi e per il quale aveva già beneficiato delle agevolazioni medesime, nelle  fattispecie realizzatesi anteriormente all’entrata in vigore della L. n. 92/2012, si ritiene che il beneficio debba essere riconosciuto solo per il periodo residuo rispetto al limite massimo di fruizione dei 36 mesi, ciò in quanto non vi è stata interruzione dello stato di disoccupazione.

Si evidenzia, tuttavia, che successivamente al 18 luglio 2012, la fattispecie da ultimo prospettata non risulta più configurabile alla luce dell’intervenuta abrogazione – ad opera dell’art. 4, comma 33, lett. c), L. n. 92 – dell’art. 4, comma 1, lett. a), D. Lgs. n. 181/2000 nella parte in cui prevedeva la “conservazione dello stato di disoccupazione a seguito di svolgimento di attività lavorativa tale da assicurare un reddito annuale non superiore al reddito minimo personale escluso da imposizione”.

Valerio Pollastrini

sabato 16 novembre 2013

Disabili e lavoro: importante Sentenza dall’Europa contro le discriminazioni


La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza dell’11 aprile 2013, (Cause Riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark) ha recentemente affrontato il tema della nozione di handicap e di “soluzioni ragionevoli”, nell’ambito delle discriminazioni per disabilità.

La pronuncia in commento è stata originata dalle questioni pregiudiziali poste dal Giudice del Rinvio danese nell’ambito di un’azione giudiziaria promossa dal Sindacato HK Danmark, in nome e per conto di due lavoratrici che, a causa di dolori cronici non trattabili, si erano assentate per periodi prolungati, subendo per tale motivo il licenziamento  da parte dei rispettivi datori di lavoro.

Nei casi in questione le assenze erano state determinate anche a causa del mancato accoglimento da parte datoriale della richiesta delle lavoratrici di poter svolgere la prestazione a tempo parziale, unica modalità di espletamento della prestazione compatibile con la propria condizione soggettiva.

La questione posta al Giudice europeo concerne la nozione di “soluzioni ragionevoli”, prevista dall’articolo 5 della Direttiva 2000/78 del Consiglio dell’Unione Europea, “che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, per verificare se questa fosse comprensiva anche di modifiche all’organizzazione del lavoro e, nello specifico, all’orario di lavoro.

Una simile tesi era stata contrastata dalle parti datoriali, per le quali, tale fattispecie, doveva essere interpretata in maniera restrittiva, limitata cioè  a profili di carattere logistico e di accessibilità degli ambienti e degli strumenti.

Altra questione affrontata nella sentenza  della Corte di Giustizia riguarda la non computabilità delle assenze per una malattia riconducibili ad handicap, ai fini del superamento del periodo di astensione dal lavoro che determina il licenziamento, pena la discriminatorietà dello stesso.

Anche quest’ultima interpretazione aveva trovato la resistenza dei datori di lavoro, secondo i quali lo stato di malattia non rientrerebbe nella nozione di handicap, ai sensi della citata Direttiva 2000/78.

Si tratta di due questioni che hanno offerto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea l’occasione per analizzare le tecniche di tutela previste dall’ordinamento comunitario  in materia di discriminazioni per disabilità.

Giova a questo punto ricordare che la Direttiva 2000/78 non definisce la nozione di handicap e per tale motivo il Giudice danese ha chiesto alla Corte Europea se essa comprenda anche lo stato di salute di una persona che – a causa di menomazioni fisiche, mentali o psichiche – non possa svolgere la propria attività lavorativa, o se possa farlo solo in modo limitato, per un periodo di tempo probabilmente lungo o in modo permanente.

Si è  chiesto, inoltre, se la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare sia determinante per ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile alla nozione di handicap.

In passato la Corte di Giustizia era già stata chiamata ad esprimersi sulla nozione di handicap e, in particolare, sullo stato di malattia che determina lunghi stati di assenza e sulla riconducibilità di essa alla nozione di handicap.

Nel caso Chacón Navas/Eurest Colectividades SA del 2006 (Causa C-13/05) la Corte aveva adottato un atteggiamento prudenziale, affermando che il legislatore europeo, nell’indicare il termine handicap e non malattia, avesse compiuto una scelta consapevole, tesa ad escludere  un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni.

In base a questo assunto la Corte aveva concluso  che la malattia non rientrasse nel quadro generale stabilito dalla Direttiva 2000/78 per la lotta contro la discriminazione fondata sull’handicap e, quindi, non potesse essere considerata un motivo da aggiungere a quelli elencati dalla direttiva stessa.

In tale circostanza la Corte aveva parimenti espresso un principio importante, affermando che la Direttiva avesse adottato il termine handicap, senza fornirne una definizione, e senza  rinviare la stessa al diritto degli Stati Membri.

In base quindi al principio dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e a quello di uguaglianza, la nozione di handicap deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme nell’intera Comunità, tenendo conto del contesto della disposizione e delle finalità della normativa di cui trattasi.

Nel 2006, perciò, la Corte aveva interpretato l’articolo 1 della Direttiva, qualificando l’handicap come «le limitazioni che risultano da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale», ponendo in rilievo, in un altro punto della decisione, «la lunga durata dello stato limitante da cui è affetta la persona con handicap».

Nella sentenza dell’11 aprile 2013 la Corte sembra spingersi verso un’interpretazione più orientata sulle conseguenze dello stato di salute, affermando che la nozione di handicap ai sensi della Direttiva 2000/78 «include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione di lunga durata, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che – interagendo con barriere di diversa natura – possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

La seconda questione affrontata nella pronuncia in commento  concerne, come detto, l’interpretazione delle cosiddette “soluzioni ragionevoli”, che trovano la loro definizione nell’articolo 5 della più volte citata Direttiva 2000/78, ove si dispone che «il datore di lavoro» prenda «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.

Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.

Sulla base di queste considerazioni, alla Corte è stato chiesto se la riduzione dell’orario di lavoro possa annoverarsi tra le “soluzioni ragionevoli”, qualora sia l’unica possibilità che consentirebbe alla persona di lavorare.

Su questo punto la Corte di Giustizia Europea ha interpretato la Direttiva 2000/78 in base ai principi contenuti nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata con la Decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009.


Ed è anche sulla base di tali principi che i Giudici di Lussemburgo hanno fornito un’interpretazione ampia del concetto di “soluzione ragionevole”, affermando che esso «deve essere inteso come riferito all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

Ebbene, i principi espressi nella Direttiva 2000/78 e nella Convenzione ONU fanno riferimento a soluzioni non soltanto materiali, ma anche organizzative, con la conseguenza che anche la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento. Spetta comunque al Giudice Nazionale di valutare se la misura in discorso rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.


Questa decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si segnala per le  ricadute che inevitabilmente coinvolgeranno l’ordinamento italiano, dal momento che i criteri interpretativi indicati dai Giudici Europei in materia di soluzioni ragionevoli, unitamente alle tecniche di tutela previste dal diritto antidiscriminatorio, imporranno un adeguamento nelle modalità di avviamento al lavoro delle persone con disabilità, anche quando ciò avvenga mediante le procedure del collocamento mirato.

Tali procedure, nel dare piena attuazione all’articolo 2 della Legge 68/99, che impone la ricerca del posto adatto per ogni singola persona con disabilità, dovranno consentire l’adozione di misure non solo materiali, ma anche organizzative, fermo restando il rispetto della loro “ragionevolezza”.

Valerio Pollastrini

Alcuni corsi sulla sicurezza sono utili al mantenimento della prestazione prevista per il sostegno del reddito dei lavoratori sospesi dall’attività lavorativa


Il comma n.40 della legge n.92/2012 dispone che  i lavoratori sospesi dall'attività lavorativa e  beneficiari di una prestazione di sostegno del reddito in costanza di rapporto di lavoro,   decadono  dal trattamento  qualora  rifiutino  di  essere  avviati  ad  un  corso  di formazione o di riqualificazione  o  non  lo  frequentino  regolarmente senza un giustificato motivo.

In risposta all’Interpello n.16/2013 il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti richiesti dalla Confindustria sugli obblighi di formazione in materia di sicurezza sul lavoro ai lavoratori sospesi, beneficiari di una prestazione a sostegno del reddito in costanza del rapporto di lavoro.

In particolare l’istante aveva chiesto se tali obblighi formativi, previsti dall’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008, rientrassero tra quelli indicati dall’art. 4, comma 40, L. n.92/2012, che condizionano la fruizione degli ammortizzatori sociali alla frequentazione di corsi di formazione o di riqualificazione.

Il Ministero ha innanzitutto ricordato il contenuto della normativa di riferimento. L’art. 37 del D.Lgs. n. 81/2008 disciplina l’obbligo di formazione e  addestramento dei lavoratori in materia di salute e sicurezza in relazione ai rischi insiti nello svolgimento di specifiche attività e alle relative procedure di prevenzione e protezione. In particolare il comma 4 prevede che l’obbligo formativo deve avvenire “in occasione:

a) della costituzione del rapporto di lavoro o dell’inizio dell’utilizzazione qualora si tratti di somministrazione di lavoro;

 b) del trasferimento o cambiamento di mansioni;

c) della introduzione di nuove attrezzature di lavoro o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi prima della costituzione del rapporto di lavoro e deve essere ripetuto in base all’evoluzione o all’insorgenza di nuovi rischi”.

Il comma 12 specifica, inoltre, che l’erogazione della formazione debba avvenire “durante l’orario di lavoro e non può comportare oneri economici a carico dei lavoratori”.

Con la dizione “durante l’orario di lavoro, il legislatore ha inteso precisare che la formazione in materia di salute e sicurezza, essendo finalizzata all’attività lavorativa, non può avvenire al di fuori dell’orario di lavoro per non andare ad intaccare quel “tempo libero” che deve rimanere a disposizione del lavoratore.

Come visto, la formazione sulla sicurezza prevista dal D.Lgs. n. 81/2008 può svolgersi in differenti occasioni, la prima di queste è “alla costituzione del rapporto di lavoro” dovendo intendersi  anteriormente o, se ciò non risulta possibile, contestualmente all’assunzione” e ciò affinché lo stesso sia consapevole dei rischi insiti nella propria attività e sia in grado di svolgere la propria prestazione “in sicurezza”.

Il Ministero, a proposito della formazione contemplata dalla L. n. 92/2012 , ne ricorda il diverso scopo, rispetto all’attività formativa in materia di sicurezza, e cioè quello relativo al mantenimento/incremento della capacità professionale del lavoratore in relazione o al lavoro dal quale risulta momentaneamente sospeso o alla nuova attività alla quale accederà in virtù della riqualificazione lavorativa.

Da questo punto di vista appare evidente come la formazione oggetto delle due discipline normative in questione sia differente e ciò giustifica anche il diverso momento nel quale risulta logico elargirla.

Il Ministero precisa, tuttavia, che alla formazione sulla sicurezza svolta una tantum prima “della costituzione del rapporto di lavoro”, si devono aggiungere la formazione in costanza di rapporto di lavoro  e l’aggiornamento quinquennale previsto  dall’art. 37, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008.

Questi ultimi sono  corsi di aggiornamento, della durata minima di sei ore, su “significative evoluzioni e innovazioni, applicazioni pratiche e/o approfondimenti che potranno riguardare: approfondimenti giuridico-normativi; aggiornamenti tecnici sui rischi ai quali sono esposti i lavoratori; aggiornamenti su organizzazione e gestione della sicurezza in azienda; fonti di rischio e relative misure di prevenzione”.

Ciò premesso è possibile concludere che nella formazione indicata dalla L. n.92/2012
possano farsi rientrare i soli corsi di aggiornamento e formazione erogati nel corso del rapporto di lavoro, funzionali al reinserimento lavorativo e alla salvaguardia dei livelli occupazionali.

In tal senso, i corsi di formazione finalizzati al trasferimento o cambiamento di mansioni o alla introduzione di nuove attrezzature o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, previsti dall’articolo 37 comma 4, lett. b) e c) del D.Lgs. 81/2008, o i corsi di aggiornamento quinquennali, previsti dal citato accordo del 21 dicembre 2011, a cui rinvia l’art. 37, comma 2, del D.Lgs. n. 81/2008, appaiono come una sorta di “completamento” della formazione e/o riqualificazione prevista dalla L.n. 92/2012.

In risposta allo specifico Interpello, il Ministero conferma che, sia i corsi di formazione finalizzati al trasferimento o cambiamento di mansioni o all’ introduzione di nuove attrezzature o di nuove tecnologie, di nuove sostanze e preparati pericolosi, previsti dall’articolo 37 comma 4, lett. b) e c) del D.Lgs. 81/2008, sia i corsi di aggiornamento quinquennali previsti dall’accordo del 21 dicembre 2011 ma non i corsi relativi alla formazione di cui all’articolo 37 comma 4, lett. a), possono essere effettuati nell’ambito della formazione di cui all’art. 4, comma 40, L. n. 92/2012.

Valerio Pollastrini

La bassa statura non può precludere la qualifica di capo-treno


Ogni normativa che, nei concorsi per l'assunzione, stabilisca una limitazione di natura fisica per l'accesso alla selezione deve rispondere ad un criterio di ragionevolezza, sia per i concorsi pubblici, stante i principi costituzionali di non discriminazione per diversità fisiche e di imparzialità della pubblica amministrazione, sia nel settore privato, in cui i criteri di selezione devono rispondere ai principi di correttezza e buona fede.

Questo, in sostanza, il principio applicato nella sentenza n.25734 del 15 novembre 2013 con la quale la Corte di Cassazione  ha sancito il diritto di una lavoratrice a svolgere le mansioni di capo-treno, nonostante fosse stata ritenuta inadeguata a causa della sua bassa statura.

Il caso in questione è quello che ha riguardato una donna che, dopo aver superato positivamente la selezione per essere assunta con le mansioni di capo-treno, era stata successivamente giudicata inidonea da Trenitalia perché di statura inferiore ad un metro e sessanta.

Ribaltando il verdetto del Tribunale, la Corte di Appello di Roma, oltre a riconoscere il diritto della donna ad essere  assunta nelle mansioni sopra indicate, aveva stabilito in suo favore un risarcimento economico per il danno subito.

La Corte territoriale aveva motivato la propria decisione in base all’assunto che la normativa applicata da Trenitalia, nel disporre un requisito di statura minima unico ed indifferenziato per uomini e donne, violasse  gli articoli 3 e 37 della Costituzione, realizzando una discriminazione indiretta ai danni dei candidati di sesso femminile.

La Corte di Cassazione, investita della questione, ha confermato quanto disposto nella sentenza di Appello, condividendo il percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito.

Valerio Pollastrini

giovedì 14 novembre 2013

La possibilità del lavoratore distaccato all’estero di rientrare in Italia dipende dalla verifica delle clausole contrattuali


A proposito dei “gruppi di imprese” la Cassazione, nella sentenza n.24770 del 5 novembre 2013, ha stabilito che le diverse società, pur se collegate, sul piano giuridico restano due soggetti distinti. Nessuna di esse, pertanto, può essere chiamata a rispondere delle obbligazioni assunte distintamente dall'una o dall'altra.

Il caso è quello del manager di una società collegata con sede in Italia che aveva pattuito con la stessa un "distacco" all'estero per poi contrarre con la società ospitante una distinta obbligazione di rientro in Italia presso altra sede.

Dopo qualche anno, tuttavia, il lavoratore aveva rassegnato le proprie dimissioni volontarie, con l’intenzione però a riprendere servizio in Italia.

La Suprema Corte è stata chiamata a stabilire se  il lavoratore  dimissionario dalla società estera potesse pretendere la riattivazione del rapporto lavorativo presso la società italiana d'origine.

Tale diritto, per la Cassazione, sarebbe stato sussistente nel caso in cui il rapporto di lavoro con la società estera non fosse cessato per cause imputabili al manager, come le dimissioni volontarie.

La Suprema Corte ha chiarito  che nel caso in cui le parti abbiano pattuito un distacco del lavoratore, in base al quale, fermo il perdurare del vincolo con il datore di lavoro originario,  sorga un distinto rapporto con altro imprenditore, anche all'estero, con sospensione del rapporto originario, i due rapporti restano separati, anche se le due società sono gestite da società collegate, con conseguente non imputabilità alla società distaccante, se non diversamente pattuito, delle obbligazioni relative al secondo rapporto.

In condizioni normali, il rientro sarebbe stato dunque possibile; ma l'inserimento di detta clausola contrattuale, accettata dal lavoratore, ha impedito che tale circostanza si verificasse.

Il ritorno del manager dall'estero sarebbe stato possibile previa intesa con la società ospitante, con ulteriore clausola di cui sopra (perdurare del rapporto di lavoro con la società straniera). Per questo motivo la Corte ha chiarito che il lavoratore dimissionario non ha alcun diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con la società d'origine, né ad un congruo risarcimento del danno.

Valerio Pollastrini

Condizioni che legittimano il licenziamento per ragioni organizzative dell’azienda


Nella sentenza n.24037 del 12 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha ricordato le condizioni che legittimano il licenziamento del lavoratore per ragioni organizzative aziendali, ribadendo che, in simili circostanze, il datore di lavoro, prima di intimare il recesso, ha il dovere di prospettare al dipendente la possibilità di un impiego con mansioni inferiori.

Il caso in commento è quello che ha riguardato un lavoratore licenziato con motivazioni riferite a ragioni organizzative dell’azienda e, in particolare, per l’esigenza del datore di lavoro di ottimizzare le risorse umane e ridurne i relativi costi.

Il Tribunale di L’Aquila aveva rigettato l’impugnazione del recesso avanzata dal dipendente per infondatezza della motivazione.

Questa decisione era stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di L'Aquila, che aveva disposto la reintegrazione del lavoratore, condannando  l'azienda al risarcimento del danno secondo i termini previsti dall'art. 18 dello Statuto dei  Lavoratori.

La Corte abruzzese aveva osservato che il licenziamento per ragioni organizzative, pur nella insindacabilità delle scelte effettuate dall'imprenditore, tutelate dall’art.41 della Costituzione, esige che in sede giudiziale avvenga un controllo sulla effettività dei motivi addotti dal datore di lavoro, che non devono essere pretestuosi o apparenti.

Nel caso in esame, i bilanci della società avevano evidenziato che negli anni interessati dal giudizio vi era stata una costante crescita del fatturato per cui era ragionevole ritenere che, al mancato rinnovo dei due contratti di appalto indicati nella memoria difensiva, l'azienda avesse fatto fronte acquisendo nuove commesse, così da mantenere costante e addirittura migliorare l'andamento complessivo dell'impresa.

La società aveva inoltre provveduto ad assumere altro personale senza dimostrare l'impossibilità di adibire alle medesime mansioni il dipendente licenziato ed anzi dal giudizio era emerso che gli addetti alla manutenzione possedevano sostanzialmente la stessa professionalità ed erano fungibili tra loro, anche se il lavoro risultava ripartito operativamente secondo logiche di specializzazione.

Solo in sede di appello la società aveva contestato la fungibilità delle mansioni, sostenendo che il ricorrente era l'unico specialista elettromeccanico, inquadrato nel 5° livello CCNL per i dipendenti dell'industria metalmeccanica, a fronte del 2° e 3° livello proprio dei manutentori ordinari, mentre in primo grado era emerso che gli operai-tecnici, a prescindere dal livello di inquadramento, si occupavano indifferentemente della manutenzione meccanica e/o elettrica.

L'azienda aveva quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte abruzzese per vizi di motivazione e violazione di legge.

 
La pronuncia della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando che, nonostante l'art. 41 Cost., comma 1, garantisce la libertà di iniziativa economica privata, ciò non significa che la libertà dell'imprenditore possa essere arbitraria e sottratta a qualsiasi controllo pubblico ed in particolare al controllo giurisdizionale.

La Corte ha quindi ribadito il consolidato orientamento in base al quale, ferma la insindacabile discrezionalità tecnica nell'organizzazione dell'azienda, il giudice può  controllare il rispetto del diritto del singolo al lavoro (art. 4 Cost., comma 1, art. 35 Cost., comma 1 e art. 36 Cost.), eventualmente bilanciando i contrapposti interessi costituzionalmente protetti, dell'imprenditore e del lavoratore dipendente (1).

Secondo la Suprema Corte il giudice di merito si era attenuto a questi principi rilevando nei dati di bilancio, indicativi di un incremento del fatturato, il carattere non decisivo della perdita delle due commesse, verosimilmente compensate dalla acquisizione di nuovi appalti o da altre attività di impresa, in modo tale da mantenere sostanzialmente costanti, se non addirittura di migliorare, i ricavi complessivi della società.

La prospettata necessità di ridurre i costi del personale non aveva dunque trovato giustificazione in una situazione di strutturale difficoltà aziendale e non poteva che essere interpretata come meramente strumentale ad un incremento di profitto, e non diretta a fronteggiare un andamento economico sfavorevole.

La Cassazione ha poi rilevato che l'impugnata sentenza era stata motivata anche con riferimento alla mancata prova, da parte dell'azienda, dell’impossibilità di una diversa collocazione del ricorrente nell'impresa.

Anche tale statuizione secondo la Corte di legittimità non può essere censurata, in quanto conforme alla giurisprudenza secondo cui il datore di lavoro ha l'onere di provare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva.

La Cassazione ha concluso rammentando la consolidata giurisprudenza che ritiene come, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma.

Parimenti, è stato più volte  ritenuto che non costituisce violazione dell'art. 2103 cod. civ. un accordo sindacale che, in alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l'attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro più lungo.

In base ai menzionati principi, in mancanza di posizioni equivalenti, ove risulti che  un'utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni inferiori, ma ricomprese nelle sue capacità professionali, sia compatibile con il nuovo assetto aziendale, il recesso del datore di lavoro per soppressione del posto di lavoro potrà ritenersi legittimo soltanto qualora la parte datoriale abbia provato di avere prospettato al lavoratore la possibilità del suo impiego in tali mansioni e che quest'ultimo non aveva espresso il proprio consenso al riguardo.

Dunque, a detta della Corte, non deve essere il lavoratore a dimostrare di avere preventivamente offerto al datore di lavoro la sua disponibilità a svolgere mansioni inferiori, ma spetta al datore di lavoro prospettare al proprio dipendente, potenzialmente destinatario del provvedimento di licenziamento, in assenza di posizioni di lavoro alternative e compatibili con la qualifica rivestita, la possibilità di un suo impiego in mansioni di livello inferiore, di talché è il mancato consenso a tale offerta che integra la fattispecie complessa che rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Valerio Pollastrini

 
(1) - cfr. Cass. n.21710 del 2009;

Il danno provocato all’azienda dal lavoratore è risarcibile solo se vi sia stata una condotta colposa


La sentenza n.22965 del 9 ottobre 2013 si segnala per aver affrontato la questione della risarcibilità dei presunti danni subiti dall’azienda a causa delle scelte compiute da un proprio dirigente.

Il datore di lavoro aveva proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di Appello che, confermando il giudizio di primo grado, aveva, a suo dire, male interpretato le allegazioni di parte convenuta circa la negligenza dimostrata dal dirigente, il quale aveva operato delle scelte rivelatesi particolarmente perniciose per l’economia aziendale.

L’azienda, operante nel settore della produzione, vendita e commercializzazione di parti di ricambio e/o apparecchiature elettromeccaniche ed elettroniche in genere e, più specificamente, di prodotti destinati a mezzi di trasporto terrestre, marittimi ed aerei, nonché commercio di articoli destinati alla promozione delle vendite e costruzione e compravendita di attrezzature per le suindicate lavorazioni, aveva lamentato di avere subito danni per alcune scelte tecniche che il lavoratore avrebbe adottato in violazione del dovere di diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ., con particolare riferimento a due vicende.

La prima aveva riguardato l’approvazione da parte del C.d.A. della proposta di acquistare un particolare modello di tornio, dietro suggerimento del  lavoratore che aveva evidenziato il vantaggio di effettuare l’investimento anche in considerazione dei benefici fiscali che la società avrebbe potuto trarne fruendo della legge n. 383/2001 (c.d. Tremonti bis); il dirigente mancò di informare il C.d.A. che il modello era stato prodotto in pochissimi esemplari e non era ancora stato testato su scala operativa mondiale; la macchina non fu più acquistata in quanto, consegnata in conto visione e messa in produzione, rivelò un malfunzionamento; l’acquisto di un modello alternativo comportò – secondo quanto dedotto dalla società – la perdita dei benefici fiscali.

La seconda vicenda aveva riguardato gli investimenti relativi alla “scatola di derivazione” e la scelta, da parte del dirigente, della soluzione della “piastra costampata”, per la quale vennero sviluppati il progetto e la sua industrializzazione; la placca venne successivamente distribuita a due ditte clienti, ma, a seguito di segnalazioni di malfunzionamento per infiltrazioni di acqua – problemi che rimasero irrisolti pure a seguito di interventi migliorativi -, con una ditta fu pattuita la restituzione del materiale acquistato con accredito di quanto ricevuto in pagamento e con l’altra ditta venne raggiunto un accordo parziale.

Le richieste del ricorrente erano state respinte dalla Corte di Appello che aveva osservato, quanto alla prima vicenda, come dalle stesse allegazioni della società non era risultata sufficientemente individuata quale fosse la colpa imputabile al dirigente; né era stato sufficientemente spiegato perché la perdita dei benefici fiscali  fosse riconducibile proprio ed esclusivamente a quel mancato acquisto.

Per quanto riguarda invece la produzione e commercializzazione della placca, la società aveva addebitato al dipendente di avere scelto una soluzione progettuale errata, ma anche in questo caso la colpa era stata fatta sostanzialmente coincidere con i problemi di malfunzionamento del prodotto.

Il datore di lavoro, nel ricorso dinnanzi alla Suprema Corte, aveva sostenuto  che l’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ. ha carattere oggettivo, di talché l’adeguatezza della prestazione deve essere valutata in relazione all’interesse del datore di lavoro e non già all’impegno o allo sforzo soggettivo del lavoratore. A sostegno del proprio assunto l’azienda aveva richiamato il precedente della Cassazione n. 7398 del 2010. In tale circostanza, la Corte di Appello aveva considerato provato il mancato raggiungimento del risultato atteso (mancato recapito della posta da parte di un portalettere della soc. Poste Italiane, con conseguente accumulo della corrispondenza non smaltita) ed aveva al contempo affermato che era mancata la dimostrazione che ciò fosse addebitabile ad una negligenza del lavoratore e non piuttosto all’eccessivo carico di lavoro. Allora la Cassazione contestò la sentenza di merito perché dalla stessa non era emerso  che  il lavoratore avesse fatto tutto il possibile per consegnare la corrispondenza giornaliera nell’arco del normale orario dì lavoro.

Il ricorrente aveva citato questo precedente proprio a riprova del fatto che il lavoratore era stato condannato per non aver svolto le mansioni affidategli usando l’ordinaria diligenza.

Il precedente di legittimità richiamato dal datore di lavoro aveva condiviso l’orientamento dottrinale secondo cui l’art. 2104 cod.civ., nell’indicare, quale criterio di valutazione della diligenza che il prestatore è tenuto ad usare, l’adeguatezza della prestazione in relazione all’interesse del datore di lavoro e non già rispetto all’impegno o allo sforzo soggettivo del lavoratore, dimostra il carattere oggettivo dell’obbligo di diligenza.

Affinché la prestazione possa dirsi adeguata, ossia conforme a corretta osservanza dell’obbligo dì diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ., occorre che il giudizio di conformità sia condotto alla stregua del criterio oggettivo dell’adeguamento della prestazione all’interesse dell’impresa, e non invece alla stregua del convincimento solo soggettivo del lavoratore che ritenga, secondo una propria valutazione, di avere posto in essere uno sforzo e/o un impegno sufficiente e dunque, a suo avviso, adeguato.

Può dunque affermarsi che il grado di diligenza richiesto per la prestazione lavorativa va valutato alla luce del contenuto oggettivo della prestazione e non della rappresentazione soggettiva che di essa possa avere il prestatore. Così può non essere indifferente il mancato raggiungimento del risultato atteso, laddove risulti che il lavoratore non ha fatto tutto il possibile per conformare l’esecuzione dei propri compiti al livello di diligenza richiesto dalla natura delle mansioni affidategli, da correlare all’interesse dell’impresa, ossia alle particolari esigenze dell’organizzazione in cui la prestazione si inserisce.

Venendo al caso in commento, la Cassazione ha ribadito che l’inosservanza dei doveri di diligenza comporta non solo l’applicazione di eventuali sanzioni disciplinari, ma anche l’obbligo del risarcimento del danno cagionato all’azienda per responsabilità contrattuale. Tuttavia, poiché non è possibile addossare al lavoratore subordinato una responsabilità che costituisca assunzione del rischio proprio dell’attività svolta dallo imprenditore, l’indagine relativa deve essere diretta ad accertare se l’evento dannoso subito dall’azienda sia correlato ad una condotta colposa del prestatore d’opera, se cioè si sia in presenza di un casus culpa determinatus ricollegabile, sulla base di un rapporto di causalità, ad una condotta colposa del dipendente sotto i profili della negligenza, dell’imprudenza o della violazione di specifici obblighi contrattuali o istruzioni legittimamente impartitegli dal datore di lavoro.

Come criterio direttivo di tale indagine non può assumersi il parametro generale e costante della diligenza dell’uomo medio, ma occorre, invece, valutare la diligenza del dipendente in riferimento sia alla sua qualifica professionale sia alla natura delle incombenze affidategli, ed alle particolari difficoltà presentate dall’espletamento di queste.

Per la Cassazione, i giudici di appello avevano correttamente osservato che non vi erano state adeguate allegazioni da parte della società  circa la condotta colposa ascrivibile al dirigente.

Quanto alla vicenda relativa al mancato acquisto del nuovo modello di tornio, non era stato precisato quali fossero gli obblighi di comunicazione la cui inosservanza aveva determinato l’addebito di mancata informazione al Consiglio di amministrazione. Ugualmente nella seconda vicenda, non poteva ascriversi automaticamente al dirigente una colpa per avere scelto un prodotto rivelatosi difettoso, in mancanza di più specifiche allegazioni circa il contenuto specifico dell’obbligo di diligenza asseritamente violato, in nesso con i danni lamentati.

Per tali motivi la Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda, escludendo un onere risarcitorio ai danni del dirigente.

Valerio Pollastrini

martedì 12 novembre 2013

Cure termali 2013 – Aggiornato l’elenco delle strutture convenzionate con l’Inps


Tutti i pazienti, iscritti al Servizio Sanitario Nazionale, hanno diritto ogni anno ad usufruire di un ciclo di cure termali  interamente a carico del SSN limitatamente alle patologie in grado di trarre beneficio da questi trattamenti.

Con il Messaggio n.18321 del 12 novembre 2013, l’Inps ha comunicato di aver aggiornato gli elenchi delle strutture convenzionate per le cure termali in favore dei lavoratori subordinati.

Per ottenere il diritto d’accesso alle cure è necessaria la prescrizione del medico curante. Nella ricetta è indispensabile che venga specificata la diagnosi per la patologia che il paziente intende curare attraverso i trattamenti termali.

L’elenco delle patologie curabili con le acque termali è il seguente:

- Malattie otorinolaringoiatriche e delle vie respiratorie;
- Rinopatia vasomotoria;
- Bronchite cronica semplice accompagnata a componente ostruttiva;
- Malattie cardiovascolari;
- Postumi di flebopatie di tipo cronico;
- Malattie ginecologiche;
- Sclerosi dolorosa del connettivo pelvico di natura cicatriziale e involutiva;
- Leucorrea persistente da vaginiti croniche aspecifiche e distrofiche;
- Malattie dell'apparato urinario;
- Calcolosi delle vie urinarie e sue recidive;
- Malattie dell'apparato gastroenterico;
- Dispepsia di origine gastroenterica e biliare; sindrome dell'intestino irritabile nella varietà con stipsi;
- Malattie reumatiche;
- Osteoartrosi ed altre forme degenerative;
- Reumatismi extra-articolari;
- Malattie dermatologiche;
- Psoriasi;
- Dermatite seborroica ricorrente;


Tutte le tipologie di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, possono accedere alle cure termali a patto che si trovino nella condizione di essere al di fuori del periodo di ferie o di congedo ordinario. Una situazione a parte è quella che riguarda gli appartenenti alle categorie dei cosiddetti “mutilati” e “invalidi di guerra o per servizio” che hanno diritto alle cure prescritte in base al proprio stato di invalidità, secondo i limiti previsti dalla vigente normativa e dai rispettivi Contratti Collettivi Nazionali di riferimento.


in questo caso sarà possibile avvalersi del congedo per cure che rientra nella disciplina delle assenze per malattia.

Le prestazioni INAIL, INPS e altri enti previdenziali
L’Inail garantisce il rimborso delle prestazioni  per tutti i lavoratori infortunati, che potranno usufruire di cure idrofangotermali a carico dell’Ente, dopo una visita di verifica  effettuata da un medico incaricato. In tal caso, sarà lo stesso medico a stabilire cura, tipologia  e  durata per quelle patologie.


Hanno quindi diritto alle prestazioni: i lavoratori infortunati o affetti da malattia professionale durante il periodo di inabilità temporanea assoluta, i titolari di rendita per i quali non sia scaduto l’ultimo termine di revisione, i malati di silicosi o di asbestosi senza limiti. L’Inail provvederà al rimborso delle spese di viaggio e di soggiorno in alberghi convenzionati, per la persona invalida e per un eventuale accompagnatore. La prestazione è a carico del Servizio Sanitario Nazionale e il lavoratore dovrà pagare il ticket nella misura prevista dalla legge.

L’Inps può invece concedere le prestazioni finalizzate a ritardare o curare uno stato di invalidità, limitatamente alle sole cure per le patologie bronco-asmatiche e reumo-artropatiche.

Tutti i lavoratori dipendenti e autonomi, iscritti all’Inps ne hanno diritto a patto che abbiano maturato i requisiti contributivi richiesti (dopo tale accertamento si provvederà all’avvio delle cure). Il soggiorno è a carico dell’Ente e del costo delle cure si occuperà il Servizio Sanitario Nazionale, mentre le spese di viaggio sono a carico dell’assistito.

L’assicurato pagherà il ticket nella misura prevista dalla legge. Infine, per quanto riguarda gli iscritti ad altri Enti o casse e fondi preposti alla sostituzione di altre assicurazioni obbligatorie, viene applicato lo stesso regime speciale in vigore per gli assicurati Inps, purché in possesso degli stessi requisiti.

Per consultare l’elenco delle strutture convenzionate con l’Inps è necessario scaricare gli allegati 1 e 2 del Messaggio, pubblicato sul sito dell’Istituto, nella sezione “Circolari e Messaggi” e riportati al termine del presente commento.

Valerio Pollastrini