La
sentenza n.22965 del 9 ottobre 2013 si segnala per aver affrontato la questione
della risarcibilità dei presunti danni subiti dall’azienda a causa delle scelte
compiute da un proprio dirigente.
Il
datore di lavoro aveva proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di
Appello che, confermando il giudizio di primo grado, aveva, a suo dire, male interpretato
le allegazioni di parte convenuta circa la negligenza dimostrata dal dirigente,
il quale aveva operato delle scelte rivelatesi particolarmente perniciose per
l’economia aziendale.
L’azienda,
operante nel settore della produzione, vendita e commercializzazione di parti
di ricambio e/o apparecchiature elettromeccaniche ed elettroniche in genere e,
più specificamente, di prodotti destinati a mezzi di trasporto terrestre,
marittimi ed aerei, nonché commercio di articoli destinati alla promozione
delle vendite e costruzione e compravendita di attrezzature per le suindicate
lavorazioni, aveva lamentato di avere subito danni per alcune scelte tecniche
che il lavoratore avrebbe adottato in violazione del dovere di diligenza di cui
all’art. 2104 cod. civ., con particolare riferimento a due vicende.
La
prima aveva riguardato l’approvazione da parte del C.d.A. della proposta di
acquistare un particolare modello di tornio, dietro suggerimento del lavoratore che aveva evidenziato il vantaggio
di effettuare l’investimento anche in considerazione dei benefici fiscali che
la società avrebbe potuto trarne fruendo della legge n. 383/2001 (c.d. Tremonti
bis); il dirigente mancò di informare il C.d.A. che il modello era stato
prodotto in pochissimi esemplari e non era ancora stato testato su scala
operativa mondiale; la macchina non fu più acquistata in quanto, consegnata in
conto visione e messa in produzione, rivelò un malfunzionamento; l’acquisto di
un modello alternativo comportò – secondo quanto dedotto dalla società – la
perdita dei benefici fiscali.
La
seconda vicenda aveva riguardato gli investimenti relativi alla “scatola di
derivazione” e la scelta, da parte del dirigente, della soluzione della
“piastra costampata”, per la quale vennero sviluppati il progetto e la sua
industrializzazione; la placca venne successivamente distribuita a due ditte
clienti, ma, a seguito di segnalazioni di malfunzionamento per infiltrazioni di
acqua – problemi che rimasero irrisolti pure a seguito di interventi
migliorativi -, con una ditta fu pattuita la restituzione del materiale
acquistato con accredito di quanto ricevuto in pagamento e con l’altra ditta
venne raggiunto un accordo parziale.
Le
richieste del ricorrente erano state respinte dalla Corte di Appello che aveva
osservato, quanto alla prima vicenda, come dalle stesse allegazioni della
società non era risultata sufficientemente individuata quale fosse la colpa
imputabile al dirigente; né era stato sufficientemente spiegato perché la
perdita dei benefici fiscali fosse
riconducibile proprio ed esclusivamente a quel mancato acquisto.
Per
quanto riguarda invece la produzione e commercializzazione della placca, la
società aveva addebitato al dipendente di avere scelto una soluzione
progettuale errata, ma anche in questo caso la colpa era stata fatta
sostanzialmente coincidere con i problemi di malfunzionamento del prodotto.
Il
datore di lavoro, nel ricorso dinnanzi alla Suprema Corte, aveva sostenuto che l’obbligo di diligenza di cui all’art.
2104 cod. civ. ha carattere oggettivo, di talché l’adeguatezza della
prestazione deve essere valutata in relazione all’interesse del datore di
lavoro e non già all’impegno o allo sforzo soggettivo del lavoratore. A
sostegno del proprio assunto l’azienda aveva richiamato il precedente della Cassazione
n. 7398 del 2010. In tale circostanza, la Corte di Appello aveva considerato
provato il mancato raggiungimento del risultato atteso (mancato recapito della
posta da parte di un portalettere della soc. Poste Italiane, con conseguente
accumulo della corrispondenza non smaltita) ed aveva al contempo affermato che
era mancata la dimostrazione che ciò fosse addebitabile ad una negligenza del
lavoratore e non piuttosto all’eccessivo carico di lavoro. Allora la Cassazione
contestò la sentenza di merito perché dalla stessa non era emerso che il
lavoratore avesse fatto tutto il possibile per consegnare la corrispondenza
giornaliera nell’arco del normale orario dì lavoro.
Il
ricorrente aveva citato questo precedente proprio a riprova del fatto che il
lavoratore era stato condannato per non aver svolto le mansioni affidategli
usando l’ordinaria diligenza.
Il
precedente di legittimità richiamato dal datore di lavoro aveva condiviso
l’orientamento dottrinale secondo cui l’art. 2104 cod.civ., nell’indicare,
quale criterio di valutazione della diligenza che il prestatore è tenuto ad
usare, l’adeguatezza della prestazione in relazione all’interesse del datore di
lavoro e non già rispetto all’impegno o allo sforzo soggettivo del lavoratore,
dimostra il carattere oggettivo dell’obbligo di diligenza.
Affinché
la prestazione possa dirsi adeguata, ossia conforme a corretta osservanza
dell’obbligo dì diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ., occorre che il
giudizio di conformità sia condotto alla stregua del criterio oggettivo
dell’adeguamento della prestazione all’interesse dell’impresa, e non invece
alla stregua del convincimento solo soggettivo del lavoratore che ritenga, secondo
una propria valutazione, di avere posto in essere uno sforzo e/o un impegno
sufficiente e dunque, a suo avviso, adeguato.
Può
dunque affermarsi che il grado di diligenza richiesto per la prestazione
lavorativa va valutato alla luce del contenuto oggettivo della prestazione e
non della rappresentazione soggettiva che di essa possa avere il prestatore.
Così può non essere indifferente il mancato raggiungimento del risultato
atteso, laddove risulti che il lavoratore non ha fatto tutto il possibile per
conformare l’esecuzione dei propri compiti al livello di diligenza richiesto
dalla natura delle mansioni affidategli, da correlare all’interesse
dell’impresa, ossia alle particolari esigenze dell’organizzazione in cui la
prestazione si inserisce.
Venendo
al caso in commento, la Cassazione ha ribadito che l’inosservanza dei doveri di
diligenza comporta non solo l’applicazione di eventuali sanzioni disciplinari,
ma anche l’obbligo del risarcimento del danno cagionato all’azienda per
responsabilità contrattuale. Tuttavia, poiché non è possibile addossare al lavoratore
subordinato una responsabilità che costituisca assunzione del rischio proprio
dell’attività svolta dallo imprenditore, l’indagine relativa deve essere
diretta ad accertare se l’evento dannoso subito dall’azienda sia correlato ad
una condotta colposa del prestatore d’opera, se cioè si sia in presenza di un
casus culpa determinatus ricollegabile, sulla base di un rapporto di causalità,
ad una condotta colposa del dipendente sotto i profili della negligenza,
dell’imprudenza o della violazione di specifici obblighi contrattuali o
istruzioni legittimamente impartitegli dal datore di lavoro.
Come
criterio direttivo di tale indagine non può assumersi il parametro generale e
costante della diligenza dell’uomo medio, ma occorre, invece, valutare la
diligenza del dipendente in riferimento sia alla sua qualifica professionale
sia alla natura delle incombenze affidategli, ed alle particolari difficoltà
presentate dall’espletamento di queste.
Per
la Cassazione, i giudici di appello avevano correttamente osservato che non vi
erano state adeguate allegazioni da parte della società circa la condotta colposa ascrivibile al
dirigente.
Quanto
alla vicenda relativa al mancato acquisto del nuovo modello di tornio, non era
stato precisato quali fossero gli obblighi di comunicazione la cui inosservanza
aveva determinato l’addebito di mancata informazione al Consiglio di
amministrazione. Ugualmente nella seconda vicenda, non poteva ascriversi
automaticamente al dirigente una colpa per avere scelto un prodotto rivelatosi
difettoso, in mancanza di più specifiche allegazioni circa il contenuto
specifico dell’obbligo di diligenza asseritamente violato, in nesso con i danni
lamentati.
Per
tali motivi la Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda, escludendo un
onere risarcitorio ai danni del dirigente.
Valerio
Pollastrini
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