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giovedì 14 novembre 2013

Il danno provocato all’azienda dal lavoratore è risarcibile solo se vi sia stata una condotta colposa


La sentenza n.22965 del 9 ottobre 2013 si segnala per aver affrontato la questione della risarcibilità dei presunti danni subiti dall’azienda a causa delle scelte compiute da un proprio dirigente.

Il datore di lavoro aveva proposto ricorso per cassazione contro la sentenza di Appello che, confermando il giudizio di primo grado, aveva, a suo dire, male interpretato le allegazioni di parte convenuta circa la negligenza dimostrata dal dirigente, il quale aveva operato delle scelte rivelatesi particolarmente perniciose per l’economia aziendale.

L’azienda, operante nel settore della produzione, vendita e commercializzazione di parti di ricambio e/o apparecchiature elettromeccaniche ed elettroniche in genere e, più specificamente, di prodotti destinati a mezzi di trasporto terrestre, marittimi ed aerei, nonché commercio di articoli destinati alla promozione delle vendite e costruzione e compravendita di attrezzature per le suindicate lavorazioni, aveva lamentato di avere subito danni per alcune scelte tecniche che il lavoratore avrebbe adottato in violazione del dovere di diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ., con particolare riferimento a due vicende.

La prima aveva riguardato l’approvazione da parte del C.d.A. della proposta di acquistare un particolare modello di tornio, dietro suggerimento del  lavoratore che aveva evidenziato il vantaggio di effettuare l’investimento anche in considerazione dei benefici fiscali che la società avrebbe potuto trarne fruendo della legge n. 383/2001 (c.d. Tremonti bis); il dirigente mancò di informare il C.d.A. che il modello era stato prodotto in pochissimi esemplari e non era ancora stato testato su scala operativa mondiale; la macchina non fu più acquistata in quanto, consegnata in conto visione e messa in produzione, rivelò un malfunzionamento; l’acquisto di un modello alternativo comportò – secondo quanto dedotto dalla società – la perdita dei benefici fiscali.

La seconda vicenda aveva riguardato gli investimenti relativi alla “scatola di derivazione” e la scelta, da parte del dirigente, della soluzione della “piastra costampata”, per la quale vennero sviluppati il progetto e la sua industrializzazione; la placca venne successivamente distribuita a due ditte clienti, ma, a seguito di segnalazioni di malfunzionamento per infiltrazioni di acqua – problemi che rimasero irrisolti pure a seguito di interventi migliorativi -, con una ditta fu pattuita la restituzione del materiale acquistato con accredito di quanto ricevuto in pagamento e con l’altra ditta venne raggiunto un accordo parziale.

Le richieste del ricorrente erano state respinte dalla Corte di Appello che aveva osservato, quanto alla prima vicenda, come dalle stesse allegazioni della società non era risultata sufficientemente individuata quale fosse la colpa imputabile al dirigente; né era stato sufficientemente spiegato perché la perdita dei benefici fiscali  fosse riconducibile proprio ed esclusivamente a quel mancato acquisto.

Per quanto riguarda invece la produzione e commercializzazione della placca, la società aveva addebitato al dipendente di avere scelto una soluzione progettuale errata, ma anche in questo caso la colpa era stata fatta sostanzialmente coincidere con i problemi di malfunzionamento del prodotto.

Il datore di lavoro, nel ricorso dinnanzi alla Suprema Corte, aveva sostenuto  che l’obbligo di diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ. ha carattere oggettivo, di talché l’adeguatezza della prestazione deve essere valutata in relazione all’interesse del datore di lavoro e non già all’impegno o allo sforzo soggettivo del lavoratore. A sostegno del proprio assunto l’azienda aveva richiamato il precedente della Cassazione n. 7398 del 2010. In tale circostanza, la Corte di Appello aveva considerato provato il mancato raggiungimento del risultato atteso (mancato recapito della posta da parte di un portalettere della soc. Poste Italiane, con conseguente accumulo della corrispondenza non smaltita) ed aveva al contempo affermato che era mancata la dimostrazione che ciò fosse addebitabile ad una negligenza del lavoratore e non piuttosto all’eccessivo carico di lavoro. Allora la Cassazione contestò la sentenza di merito perché dalla stessa non era emerso  che  il lavoratore avesse fatto tutto il possibile per consegnare la corrispondenza giornaliera nell’arco del normale orario dì lavoro.

Il ricorrente aveva citato questo precedente proprio a riprova del fatto che il lavoratore era stato condannato per non aver svolto le mansioni affidategli usando l’ordinaria diligenza.

Il precedente di legittimità richiamato dal datore di lavoro aveva condiviso l’orientamento dottrinale secondo cui l’art. 2104 cod.civ., nell’indicare, quale criterio di valutazione della diligenza che il prestatore è tenuto ad usare, l’adeguatezza della prestazione in relazione all’interesse del datore di lavoro e non già rispetto all’impegno o allo sforzo soggettivo del lavoratore, dimostra il carattere oggettivo dell’obbligo di diligenza.

Affinché la prestazione possa dirsi adeguata, ossia conforme a corretta osservanza dell’obbligo dì diligenza di cui all’art. 2104 cod. civ., occorre che il giudizio di conformità sia condotto alla stregua del criterio oggettivo dell’adeguamento della prestazione all’interesse dell’impresa, e non invece alla stregua del convincimento solo soggettivo del lavoratore che ritenga, secondo una propria valutazione, di avere posto in essere uno sforzo e/o un impegno sufficiente e dunque, a suo avviso, adeguato.

Può dunque affermarsi che il grado di diligenza richiesto per la prestazione lavorativa va valutato alla luce del contenuto oggettivo della prestazione e non della rappresentazione soggettiva che di essa possa avere il prestatore. Così può non essere indifferente il mancato raggiungimento del risultato atteso, laddove risulti che il lavoratore non ha fatto tutto il possibile per conformare l’esecuzione dei propri compiti al livello di diligenza richiesto dalla natura delle mansioni affidategli, da correlare all’interesse dell’impresa, ossia alle particolari esigenze dell’organizzazione in cui la prestazione si inserisce.

Venendo al caso in commento, la Cassazione ha ribadito che l’inosservanza dei doveri di diligenza comporta non solo l’applicazione di eventuali sanzioni disciplinari, ma anche l’obbligo del risarcimento del danno cagionato all’azienda per responsabilità contrattuale. Tuttavia, poiché non è possibile addossare al lavoratore subordinato una responsabilità che costituisca assunzione del rischio proprio dell’attività svolta dallo imprenditore, l’indagine relativa deve essere diretta ad accertare se l’evento dannoso subito dall’azienda sia correlato ad una condotta colposa del prestatore d’opera, se cioè si sia in presenza di un casus culpa determinatus ricollegabile, sulla base di un rapporto di causalità, ad una condotta colposa del dipendente sotto i profili della negligenza, dell’imprudenza o della violazione di specifici obblighi contrattuali o istruzioni legittimamente impartitegli dal datore di lavoro.

Come criterio direttivo di tale indagine non può assumersi il parametro generale e costante della diligenza dell’uomo medio, ma occorre, invece, valutare la diligenza del dipendente in riferimento sia alla sua qualifica professionale sia alla natura delle incombenze affidategli, ed alle particolari difficoltà presentate dall’espletamento di queste.

Per la Cassazione, i giudici di appello avevano correttamente osservato che non vi erano state adeguate allegazioni da parte della società  circa la condotta colposa ascrivibile al dirigente.

Quanto alla vicenda relativa al mancato acquisto del nuovo modello di tornio, non era stato precisato quali fossero gli obblighi di comunicazione la cui inosservanza aveva determinato l’addebito di mancata informazione al Consiglio di amministrazione. Ugualmente nella seconda vicenda, non poteva ascriversi automaticamente al dirigente una colpa per avere scelto un prodotto rivelatosi difettoso, in mancanza di più specifiche allegazioni circa il contenuto specifico dell’obbligo di diligenza asseritamente violato, in nesso con i danni lamentati.

Per tali motivi la Cassazione ha respinto il ricorso dell’azienda, escludendo un onere risarcitorio ai danni del dirigente.

Valerio Pollastrini

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