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sabato 16 novembre 2013

Disabili e lavoro: importante Sentenza dall’Europa contro le discriminazioni


La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la sentenza dell’11 aprile 2013, (Cause Riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark) ha recentemente affrontato il tema della nozione di handicap e di “soluzioni ragionevoli”, nell’ambito delle discriminazioni per disabilità.

La pronuncia in commento è stata originata dalle questioni pregiudiziali poste dal Giudice del Rinvio danese nell’ambito di un’azione giudiziaria promossa dal Sindacato HK Danmark, in nome e per conto di due lavoratrici che, a causa di dolori cronici non trattabili, si erano assentate per periodi prolungati, subendo per tale motivo il licenziamento  da parte dei rispettivi datori di lavoro.

Nei casi in questione le assenze erano state determinate anche a causa del mancato accoglimento da parte datoriale della richiesta delle lavoratrici di poter svolgere la prestazione a tempo parziale, unica modalità di espletamento della prestazione compatibile con la propria condizione soggettiva.

La questione posta al Giudice europeo concerne la nozione di “soluzioni ragionevoli”, prevista dall’articolo 5 della Direttiva 2000/78 del Consiglio dell’Unione Europea, “che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”, per verificare se questa fosse comprensiva anche di modifiche all’organizzazione del lavoro e, nello specifico, all’orario di lavoro.

Una simile tesi era stata contrastata dalle parti datoriali, per le quali, tale fattispecie, doveva essere interpretata in maniera restrittiva, limitata cioè  a profili di carattere logistico e di accessibilità degli ambienti e degli strumenti.

Altra questione affrontata nella sentenza  della Corte di Giustizia riguarda la non computabilità delle assenze per una malattia riconducibili ad handicap, ai fini del superamento del periodo di astensione dal lavoro che determina il licenziamento, pena la discriminatorietà dello stesso.

Anche quest’ultima interpretazione aveva trovato la resistenza dei datori di lavoro, secondo i quali lo stato di malattia non rientrerebbe nella nozione di handicap, ai sensi della citata Direttiva 2000/78.

Si tratta di due questioni che hanno offerto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea l’occasione per analizzare le tecniche di tutela previste dall’ordinamento comunitario  in materia di discriminazioni per disabilità.

Giova a questo punto ricordare che la Direttiva 2000/78 non definisce la nozione di handicap e per tale motivo il Giudice danese ha chiesto alla Corte Europea se essa comprenda anche lo stato di salute di una persona che – a causa di menomazioni fisiche, mentali o psichiche – non possa svolgere la propria attività lavorativa, o se possa farlo solo in modo limitato, per un periodo di tempo probabilmente lungo o in modo permanente.

Si è  chiesto, inoltre, se la natura delle misure che il datore di lavoro deve adottare sia determinante per ritenere che lo stato di salute di una persona sia riconducibile alla nozione di handicap.

In passato la Corte di Giustizia era già stata chiamata ad esprimersi sulla nozione di handicap e, in particolare, sullo stato di malattia che determina lunghi stati di assenza e sulla riconducibilità di essa alla nozione di handicap.

Nel caso Chacón Navas/Eurest Colectividades SA del 2006 (Causa C-13/05) la Corte aveva adottato un atteggiamento prudenziale, affermando che il legislatore europeo, nell’indicare il termine handicap e non malattia, avesse compiuto una scelta consapevole, tesa ad escludere  un’assimilazione pura e semplice delle due nozioni.

In base a questo assunto la Corte aveva concluso  che la malattia non rientrasse nel quadro generale stabilito dalla Direttiva 2000/78 per la lotta contro la discriminazione fondata sull’handicap e, quindi, non potesse essere considerata un motivo da aggiungere a quelli elencati dalla direttiva stessa.

In tale circostanza la Corte aveva parimenti espresso un principio importante, affermando che la Direttiva avesse adottato il termine handicap, senza fornirne una definizione, e senza  rinviare la stessa al diritto degli Stati Membri.

In base quindi al principio dell’applicazione uniforme del diritto comunitario e a quello di uguaglianza, la nozione di handicap deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme nell’intera Comunità, tenendo conto del contesto della disposizione e delle finalità della normativa di cui trattasi.

Nel 2006, perciò, la Corte aveva interpretato l’articolo 1 della Direttiva, qualificando l’handicap come «le limitazioni che risultano da lesioni fisiche, mentali o psichiche e che ostacolano la partecipazione della persona alla vita professionale», ponendo in rilievo, in un altro punto della decisione, «la lunga durata dello stato limitante da cui è affetta la persona con handicap».

Nella sentenza dell’11 aprile 2013 la Corte sembra spingersi verso un’interpretazione più orientata sulle conseguenze dello stato di salute, affermando che la nozione di handicap ai sensi della Direttiva 2000/78 «include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione di lunga durata, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che – interagendo con barriere di diversa natura – possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

La seconda questione affrontata nella pronuncia in commento  concerne, come detto, l’interpretazione delle cosiddette “soluzioni ragionevoli”, che trovano la loro definizione nell’articolo 5 della più volte citata Direttiva 2000/78, ove si dispone che «il datore di lavoro» prenda «i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.

Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.

Sulla base di queste considerazioni, alla Corte è stato chiesto se la riduzione dell’orario di lavoro possa annoverarsi tra le “soluzioni ragionevoli”, qualora sia l’unica possibilità che consentirebbe alla persona di lavorare.

Su questo punto la Corte di Giustizia Europea ha interpretato la Direttiva 2000/78 in base ai principi contenuti nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata con la Decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009.


Ed è anche sulla base di tali principi che i Giudici di Lussemburgo hanno fornito un’interpretazione ampia del concetto di “soluzione ragionevole”, affermando che esso «deve essere inteso come riferito all’eliminazione delle barriere di diversa natura che ostacolano la piena ed effettiva partecipazione delle persone disabili alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori».

Ebbene, i principi espressi nella Direttiva 2000/78 e nella Convenzione ONU fanno riferimento a soluzioni non soltanto materiali, ma anche organizzative, con la conseguenza che anche la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento. Spetta comunque al Giudice Nazionale di valutare se la misura in discorso rappresenti un onere sproporzionato per il datore di lavoro.


Questa decisione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea si segnala per le  ricadute che inevitabilmente coinvolgeranno l’ordinamento italiano, dal momento che i criteri interpretativi indicati dai Giudici Europei in materia di soluzioni ragionevoli, unitamente alle tecniche di tutela previste dal diritto antidiscriminatorio, imporranno un adeguamento nelle modalità di avviamento al lavoro delle persone con disabilità, anche quando ciò avvenga mediante le procedure del collocamento mirato.

Tali procedure, nel dare piena attuazione all’articolo 2 della Legge 68/99, che impone la ricerca del posto adatto per ogni singola persona con disabilità, dovranno consentire l’adozione di misure non solo materiali, ma anche organizzative, fermo restando il rispetto della loro “ragionevolezza”.

Valerio Pollastrini

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