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giovedì 14 novembre 2013

Condizioni che legittimano il licenziamento per ragioni organizzative dell’azienda


Nella sentenza n.24037 del 12 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha ricordato le condizioni che legittimano il licenziamento del lavoratore per ragioni organizzative aziendali, ribadendo che, in simili circostanze, il datore di lavoro, prima di intimare il recesso, ha il dovere di prospettare al dipendente la possibilità di un impiego con mansioni inferiori.

Il caso in commento è quello che ha riguardato un lavoratore licenziato con motivazioni riferite a ragioni organizzative dell’azienda e, in particolare, per l’esigenza del datore di lavoro di ottimizzare le risorse umane e ridurne i relativi costi.

Il Tribunale di L’Aquila aveva rigettato l’impugnazione del recesso avanzata dal dipendente per infondatezza della motivazione.

Questa decisione era stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di L'Aquila, che aveva disposto la reintegrazione del lavoratore, condannando  l'azienda al risarcimento del danno secondo i termini previsti dall'art. 18 dello Statuto dei  Lavoratori.

La Corte abruzzese aveva osservato che il licenziamento per ragioni organizzative, pur nella insindacabilità delle scelte effettuate dall'imprenditore, tutelate dall’art.41 della Costituzione, esige che in sede giudiziale avvenga un controllo sulla effettività dei motivi addotti dal datore di lavoro, che non devono essere pretestuosi o apparenti.

Nel caso in esame, i bilanci della società avevano evidenziato che negli anni interessati dal giudizio vi era stata una costante crescita del fatturato per cui era ragionevole ritenere che, al mancato rinnovo dei due contratti di appalto indicati nella memoria difensiva, l'azienda avesse fatto fronte acquisendo nuove commesse, così da mantenere costante e addirittura migliorare l'andamento complessivo dell'impresa.

La società aveva inoltre provveduto ad assumere altro personale senza dimostrare l'impossibilità di adibire alle medesime mansioni il dipendente licenziato ed anzi dal giudizio era emerso che gli addetti alla manutenzione possedevano sostanzialmente la stessa professionalità ed erano fungibili tra loro, anche se il lavoro risultava ripartito operativamente secondo logiche di specializzazione.

Solo in sede di appello la società aveva contestato la fungibilità delle mansioni, sostenendo che il ricorrente era l'unico specialista elettromeccanico, inquadrato nel 5° livello CCNL per i dipendenti dell'industria metalmeccanica, a fronte del 2° e 3° livello proprio dei manutentori ordinari, mentre in primo grado era emerso che gli operai-tecnici, a prescindere dal livello di inquadramento, si occupavano indifferentemente della manutenzione meccanica e/o elettrica.

L'azienda aveva quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della Corte abruzzese per vizi di motivazione e violazione di legge.

 
La pronuncia della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando che, nonostante l'art. 41 Cost., comma 1, garantisce la libertà di iniziativa economica privata, ciò non significa che la libertà dell'imprenditore possa essere arbitraria e sottratta a qualsiasi controllo pubblico ed in particolare al controllo giurisdizionale.

La Corte ha quindi ribadito il consolidato orientamento in base al quale, ferma la insindacabile discrezionalità tecnica nell'organizzazione dell'azienda, il giudice può  controllare il rispetto del diritto del singolo al lavoro (art. 4 Cost., comma 1, art. 35 Cost., comma 1 e art. 36 Cost.), eventualmente bilanciando i contrapposti interessi costituzionalmente protetti, dell'imprenditore e del lavoratore dipendente (1).

Secondo la Suprema Corte il giudice di merito si era attenuto a questi principi rilevando nei dati di bilancio, indicativi di un incremento del fatturato, il carattere non decisivo della perdita delle due commesse, verosimilmente compensate dalla acquisizione di nuovi appalti o da altre attività di impresa, in modo tale da mantenere sostanzialmente costanti, se non addirittura di migliorare, i ricavi complessivi della società.

La prospettata necessità di ridurre i costi del personale non aveva dunque trovato giustificazione in una situazione di strutturale difficoltà aziendale e non poteva che essere interpretata come meramente strumentale ad un incremento di profitto, e non diretta a fronteggiare un andamento economico sfavorevole.

La Cassazione ha poi rilevato che l'impugnata sentenza era stata motivata anche con riferimento alla mancata prova, da parte dell'azienda, dell’impossibilità di una diversa collocazione del ricorrente nell'impresa.

Anche tale statuizione secondo la Corte di legittimità non può essere censurata, in quanto conforme alla giurisprudenza secondo cui il datore di lavoro ha l'onere di provare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri lavoratori o il fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima svolgeva.

La Cassazione ha concluso rammentando la consolidata giurisprudenza che ritiene come, ai sensi dell'art. 2103 cod. civ., la modifica in peius delle mansioni del lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma.

Parimenti, è stato più volte  ritenuto che non costituisce violazione dell'art. 2103 cod. civ. un accordo sindacale che, in alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda l'attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente orario di lavoro più lungo.

In base ai menzionati principi, in mancanza di posizioni equivalenti, ove risulti che  un'utilizzazione del lavoratore licenziato in mansioni inferiori, ma ricomprese nelle sue capacità professionali, sia compatibile con il nuovo assetto aziendale, il recesso del datore di lavoro per soppressione del posto di lavoro potrà ritenersi legittimo soltanto qualora la parte datoriale abbia provato di avere prospettato al lavoratore la possibilità del suo impiego in tali mansioni e che quest'ultimo non aveva espresso il proprio consenso al riguardo.

Dunque, a detta della Corte, non deve essere il lavoratore a dimostrare di avere preventivamente offerto al datore di lavoro la sua disponibilità a svolgere mansioni inferiori, ma spetta al datore di lavoro prospettare al proprio dipendente, potenzialmente destinatario del provvedimento di licenziamento, in assenza di posizioni di lavoro alternative e compatibili con la qualifica rivestita, la possibilità di un suo impiego in mansioni di livello inferiore, di talché è il mancato consenso a tale offerta che integra la fattispecie complessa che rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Valerio Pollastrini

 
(1) - cfr. Cass. n.21710 del 2009;

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