Nella sentenza
n.24037 del 12 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha ricordato le condizioni
che legittimano il licenziamento del lavoratore per ragioni organizzative aziendali,
ribadendo che, in simili circostanze, il datore di lavoro, prima di intimare il
recesso, ha il dovere di prospettare al dipendente la possibilità di un impiego
con mansioni inferiori.
Il caso in commento è
quello che ha riguardato un lavoratore licenziato con motivazioni riferite a
ragioni organizzative dell’azienda e, in particolare, per l’esigenza del datore
di lavoro di ottimizzare le risorse umane e ridurne
i relativi costi.
Il
Tribunale di L’Aquila aveva rigettato l’impugnazione del recesso avanzata dal
dipendente per infondatezza della motivazione.
Questa
decisione era stata integralmente riformata dalla Corte d'Appello di L'Aquila,
che aveva disposto la reintegrazione del lavoratore, condannando l'azienda al risarcimento del danno secondo i
termini previsti dall'art. 18 dello Statuto dei
Lavoratori.
La
Corte abruzzese aveva osservato che il licenziamento per ragioni organizzative,
pur nella insindacabilità delle scelte effettuate dall'imprenditore, tutelate
dall’art.41 della Costituzione, esige che in sede giudiziale avvenga un
controllo sulla effettività dei motivi addotti dal datore di lavoro, che non
devono essere pretestuosi o apparenti.
Nel
caso in esame, i bilanci della società avevano evidenziato che negli anni interessati
dal giudizio vi era stata una costante crescita del fatturato per cui era
ragionevole ritenere che, al mancato rinnovo dei due contratti di appalto
indicati nella memoria difensiva, l'azienda avesse fatto fronte acquisendo
nuove commesse, così da mantenere costante e addirittura migliorare l'andamento
complessivo dell'impresa.
La
società aveva inoltre provveduto ad assumere altro personale senza dimostrare
l'impossibilità di adibire alle medesime mansioni il dipendente licenziato ed
anzi dal giudizio era emerso che gli addetti alla manutenzione possedevano
sostanzialmente la stessa professionalità ed erano fungibili tra loro, anche se
il lavoro risultava ripartito operativamente secondo logiche di
specializzazione.
Solo in
sede di appello la società aveva contestato la fungibilità delle mansioni,
sostenendo che il ricorrente era l'unico specialista elettromeccanico,
inquadrato nel 5° livello CCNL per i dipendenti dell'industria metalmeccanica,
a fronte del 2° e 3° livello proprio dei manutentori ordinari, mentre in primo
grado era emerso che gli operai-tecnici, a prescindere dal livello di
inquadramento, si occupavano indifferentemente della manutenzione meccanica e/o
elettrica.
L'azienda
aveva quindi proposto ricorso per cassazione, censurando la sentenza della
Corte abruzzese per vizi di motivazione e violazione di legge.
La pronuncia della Cassazione
La
Suprema Corte ha rigettato il ricorso ricordando che, nonostante l'art. 41
Cost., comma 1, garantisce la libertà di iniziativa economica privata, ciò non significa
che la libertà dell'imprenditore possa essere arbitraria e sottratta a
qualsiasi controllo pubblico ed in particolare al controllo giurisdizionale.
La
Corte ha quindi ribadito il consolidato orientamento in base al quale, ferma la
insindacabile discrezionalità tecnica nell'organizzazione dell'azienda, il
giudice può controllare il rispetto del
diritto del singolo al lavoro (art. 4 Cost., comma 1, art. 35 Cost., comma 1 e
art. 36 Cost.), eventualmente bilanciando i contrapposti interessi
costituzionalmente protetti, dell'imprenditore e del lavoratore dipendente (1).
Secondo
la Suprema Corte il giudice di merito si era attenuto a questi principi
rilevando nei dati di bilancio, indicativi di un incremento del fatturato, il
carattere non decisivo della perdita delle due commesse, verosimilmente
compensate dalla acquisizione di nuovi appalti o da altre attività di impresa,
in modo tale da mantenere sostanzialmente costanti, se non addirittura di
migliorare, i ricavi complessivi della società.
La
prospettata necessità di ridurre i costi del personale non aveva dunque trovato
giustificazione in una situazione di strutturale difficoltà aziendale e non
poteva che essere interpretata come meramente strumentale ad un incremento di
profitto, e non diretta a fronteggiare un andamento economico sfavorevole.
La
Cassazione ha poi rilevato che l'impugnata sentenza era stata motivata anche
con riferimento alla mancata prova, da parte dell'azienda, dell’impossibilità
di una diversa collocazione del ricorrente nell'impresa.
Anche
tale statuizione secondo la Corte di legittimità non può essere censurata, in
quanto conforme alla giurisprudenza secondo cui il datore di lavoro ha l'onere
di provare, con riferimento all'organizzazione aziendale esistente all'epoca
del licenziamento e anche attraverso fatti positivi, tali da determinare
presunzioni semplici (come il fatto che i residui posti di lavoro riguardanti
mansioni equivalenti fossero stabilmente occupati da altri lavoratori o il
fatto che dopo il licenziamento e per un congruo periodo non vi siano state
nuove assunzioni nella stessa qualifica del lavoratore licenziato), l’impossibilità
di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle che prima
svolgeva.
La Cassazione
ha concluso rammentando la consolidata giurisprudenza che ritiene come, ai
sensi dell'art. 2103 cod. civ., la modifica in peius delle mansioni del
lavoratore è illegittima, salvo che sia stata disposta con il consenso del
dipendente e per evitare il licenziamento o la messa in cassa integrazione del
lavoratore stesso, la cui diversa utilizzazione non contrasta, in tal caso, con
l'esigenza di dignità e libertà della persona, configurando una soluzione più
favorevole di quella ispirata al mero rispetto formale della norma.
Parimenti,
è stato più volte ritenuto che non
costituisce violazione dell'art. 2103 cod. civ. un accordo sindacale che, in
alternativa al licenziamento per ristrutturazione aziendale, preveda
l'attribuzione di mansioni diverse e di una diversa categoria con conseguente
orario di lavoro più lungo.
In base
ai menzionati principi, in mancanza di posizioni equivalenti, ove risulti che un'utilizzazione del lavoratore licenziato in
mansioni inferiori, ma ricomprese nelle sue capacità professionali, sia
compatibile con il nuovo assetto aziendale, il recesso del datore di lavoro per
soppressione del posto di lavoro potrà ritenersi legittimo soltanto qualora la
parte datoriale abbia provato di avere prospettato al lavoratore la possibilità
del suo impiego in tali mansioni e che quest'ultimo non aveva espresso il
proprio consenso al riguardo.
Dunque,
a detta della Corte, non deve essere il lavoratore a dimostrare di avere
preventivamente offerto al datore di lavoro la sua disponibilità a svolgere
mansioni inferiori, ma spetta al datore di lavoro prospettare al proprio
dipendente, potenzialmente destinatario del provvedimento di licenziamento, in
assenza di posizioni di lavoro alternative e compatibili con la qualifica
rivestita, la possibilità di un suo impiego in mansioni di livello inferiore,
di talché è il mancato consenso a tale offerta che integra la fattispecie
complessa che rende legittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Valerio
Pollastrini
(1) - cfr.
Cass. n.21710 del 2009;
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