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martedì 12 novembre 2013

Legittimo il licenziamento dell’insegnante per le critiche mosse alla conduzione e gestione dell’Istituto scolastico


Nella sentenza n.24989 del 6 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un’insegnante per aver criticato pesantemente l’Istituto scolastico di appartenenza, ledendo così la reputazione del datore di lavoro.

Il fatto
Il fatto oggetto della pronuncia in commento è quello che ha riguardato un’insegnante di scuola materna occupata presso un’ Istituto educativo  di San Severo (Fg) che, in presenza di terzi, aveva mosso una serie di critiche  alla gestione dell’Istituto e al grado di preparazione degli altri insegnanti, consigliando ad  alcuni genitori di iscrivere altrove i figli.

Al termine dell’iter procedurale previsto per le contestazioni disciplinari, la lavoratrice era stata licenziata.

Il Tribunale di Foggia, nel primo grado di giudizio, aveva ritenuto illegittimo il recesso per mancata affissione del codice disciplinare, con le conseguenze risarcitorie e ripristinatorie previste dalla legge.

La Corte di Appello di Bari aveva successivamente accolto il ricorso dell’Istituto educativo e, in riforma della sentenza di primo grado, aveva ritenuto legittimo il recesso.

La Corte territoriale aveva deciso per la validità il licenziamento in quanto irrogato per la violazione di doveri elementari del lavoratore. Circostanze che rendevano, pertanto, irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare.

La contestazione  che aveva preceduto l’atto di recesso, a detta del giudice di Appello, doveva ritenersi specifica perché i fatti erano stati chiaramente indicati, consentendo alla lavoratrice di esercitare adeguatamente le proprie difese, nonostante nella lettera non fossero state indicate  la data e le singole conversazioni nelle quali sarebbero state mosse le critiche alla gestione dell’Istituto e alla preparazione professionale dei suoi insegnanti.

L’esame dei testi , infine, aveva confermato la veridicità dei fatti imputati alla dipendente nel pieno della loro gravità, risultando idonei a provocare gravi danni al datore di lavoro.

La pronuncia della Cassazione
In seguito alla pronuncia di Appello, la lavoratrice aveva  ricorso per la cassazione della sentenza di secondo grado,  sostenendo che   le frasi ad essa attribuite non erano dirette a ledere la reputazione del datore di lavoro e non violavano l’obbligo di fedeltà verso l’Istituto scolastico, rappresentando, in realtà, solamente lo sfogo di una lavoratrice con un genitore circa l’inadeguatezza dell’Istituto ed una legittima critica sulla gestione datoriale.

In base alla tesi della ricorrente, le mancanze contestatele non erano connaturate da una gravità così elevata da rendere superflua, per la validità del recesso,  l’affissione del codice disciplinare.

Le motivazioni addotte dalla lavoratrice sono state ritenute infondate dalla Cassazione, che ha ricordato come dalla contestazione disciplinare, risultata corretta dalle prove espletate, emergeva che l’insegnante, parlando con alcuni genitori, aveva affermato che l’Istituto presso il quale lavorava era notevolmente inadeguato e che le insegnanti erano didatticamente impreparate sotto ogni profilo, suggerendo anche di iscrivere gli alunni altrove. Al cospetto di terzi, la lavoratrice aveva inoltre sostenuto che il Commissario straordinario dell’Istituto non era in grado di gestire alcunché e che, con una telefonata a persone chi di dovere, lo si sarebbe potuto mettere a tacere.

Per la Suprema Corte  si tratta di comportamenti gravemente lesivi del decoro nonché della reputazione dell’Istituto scolastico e del suo Commissario straordinario che ne aveva la gestione, e la Corte territoriale li aveva  correttamente qualificati come integranti una violazione dei doveri fondamentali di fedeltà e correttezza, che,  per la loro offensività e per i termini utilizzati, in alcun modo potevano essere ricondotti ad una legittima critica all’operato del datore di lavoro, tanto da culminare nel suggerimento ad alcuni genitori di iscrivere altrove i loro figli, con potenziale gravissimo pregiudizio per l’Istituto scolastico.
La Cassazione ha concluso affermando che  inadempienze così plateali, gravi e  radicalmente lesive del rapporto fiduciario tra le parti non necessitavano di alcuna pubblicità del codice disciplinare, essendo intuitivo per il lavoratore il dovere, derivante direttamente dalla legge, di evitare simili comportamenti.

Per i motivi sopra indicati la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice e, nel  confermare la legittimità del licenziamento, ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 2.550 € per compensi oltre accessori.  

Valerio Pollastrini

domenica 10 novembre 2013

Legittimo il licenziamento irrogato al dipendente che gioca al lavoro con il Pc


Nella sentenza n.25069 del 7 novembre 2013 la Corte di Cassazione si è pronunciata sul caso dell’impiegato di un’azienda farmaceutica licenziato per aver giocato con il pc sul luogo di lavoro per un periodo di tempo quantificato tra le 260 e le 300 ore in un anno.

Nel corso del giudizio di appello, la Corte di Roma aveva dichiarato nullo il licenziamento, sostenendo che la contestazione disciplinare fosse generica, in quanto riferita esclusivamente ad un singolo episodio, circostanza che avrebbe impedito al lavoratore di esercitare una puntuale difesa.

La Suprema Corte, ribaltando il giudizio della Corte territoriale, ha invece confermato la legittimità del recesso, sottolineando che, di fronte ad una simile condotta, l’azienda non avesse nemmeno l’obbligo di contestare al lavoratore le singole partite giocate.

Per la Suprema Corte, in questo caso,  l’addebito mosso dal datore di lavoro non può essere ritenuto generico per la semplice mancata indicazione delle singole partite giocate abusivamente dal lavoratore.

La Cassazione, in particolare, ha censurato la motivazione della sentenza di appello, ritenuta illogica, dal momento che il lavoratore avrebbe potuto approntare adeguatamente la propria difesa anche con la generica contestazione di utilizzare in continuazione, e non in episodi specifici isolati, il computer aziendale.

Gli ermellini hanno quindi concluso rinviando la causa  alla Corte d’Appello di Roma che, in diversa composizione, dovrà decidere anche in merito al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Valerio Pollastrini

Conseguenze penali per la mancata esibizione della documentazione richiesta dagli ispettori del lavoro


Con la sentenza n.42334 del 15 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha affermato che, in  seguito ad ispezione, la mancata esibizione della documentazione richiesta dagli ispettori del lavoro costituisce un illecito penale perpetrato dal datore di lavoro, rispondente alla fattispecie di reato prevista dall’art.4 della legge n.628/1961.

Il caso ad oggetto della pronuncia in commento è quello del presidente di una cooperativa che, nonostante uno specifico sollecito, aveva omesso di fornire agli ispettori  la documentazione relativa ai rapporti di lavoro dei dipendenti.

Per tali fatti, sia in primo grado che nel giudizio presso la Corte di Appello di Napoli, il responsabile dell’azienda era stato condannato penalmente, con la sostituzione della pena dell’arresto con quella dell’ammenda.

La Corte di Cassazione, investita della vicenda, ha ricordato che l’ultimo comma dell’art.4 della legge n.628/1961 punisce «coloro che, legalmente richiesti dall’Ispettorato di fornire notizie a norma del presente articolo, non le forniscano o le diano scientemente errate od incomplete». Si tratta, in sostanza, delle richieste di notizie concernenti violazioni delle leggi sui rapporti di lavoro, sulle assicurazioni sociali, sulla prevenzione e l’igiene del lavoro, strumentali  alla funzione di controllo istituzionalmente esercitata dall’Ispettorato del lavoro.

La Suprema Corte ha ricordato il consolidato orientamento  giurisprudenziale in base al quale  il reato in questione si configura anche nell’ipotesi di omessa esibizione della documentazione che consenta all’Ispettorato del lavoro la vigilanza sull’osservanza delle disposizioni in materia di lavoro, previdenza sociale e contratti collettivi di categoria, ivi compresa quella sulle assunzioni, necessaria per verificare l’adempimento dei conseguenti obblighi contributivi (1).

In merito all’analisi del ricorso del datore di lavoro, la Cassazione ne ha declarato l’inammissibilità, dal momento che la Corte di merito  aveva correttamente recepito il citato principio giurisprudenziale, deducendo, al termine dell’istruttoria, che la documentazione richiesta espressamente all’imputato fosse quella necessaria per l’espletamento dei compiti istituzionali dell’Ispettorato, definiti dall’art. 4 della legge n. 628/1961 ed, in particolare, per la verifica della sussistenza di irregolarità nelle assunzioni dei dipendenti.

Valerio Pollastrini

(1)   Cass., 11 dicembre 2007 n. 2272/2008;  Cass., 2 dicembre 2011, n. 6644;

La sigaretta elettronica nei luoghi di lavoro


In data 24 ottobre 2013 il Ministero del lavoro ha espresso il proprio parere in risposta all’interpello n.15/2013, formulato dall’Abi a proposito dell’utilizzo della sigaretta elettronica nei luoghi di lavoro.

Sulla base delle informazioni scientifiche disponibili, attestanti l’impossibilità di escludere  rischi per la salute nelle sigarette elettroniche con nicotina, l’Associazione Bancaria Italiana aveva chiesto se,  il divieto di fumo, di cui alla legge n. 3/2003, dovesse essere esteso anche a tali dispositivi, considerato che attraverso le sigarette elettroniche possono essere assunte dosi variabili di nicotina.

Il Ministero ha preliminarmente ricordato che le recenti classificazioni qualificano la sigaretta elettronica come  “un articolo” con cartucce sostituibili contenenti miscele di sostanze diverse tra cui, in particolare, la nicotina.

Allo stato attuale non sono riportati effetti univoci certi sull’impatto sulla salute negli ambienti chiusi del particolato inalato con l’uso della sigaretta elettronica, che può contenere oltre alla nicotina, anche in dimensioni nanometriche, altre sostanze, quali: cromo, nichel, stagno, alluminio, ferro e si richiedono quindi dei necessari ulteriori approfondimenti scientifici.

Dopo queste premesse e nel rispetto dell’orientamento europeo  richiamato dal parere n. 34955/CSC6 del 26/09/2012 dell’Istituto Superiore di Sanità, il Ministero ha specificato che le sigarette elettroniche sono escluse dal campo di applicazione della direttiva 2001/37/CE in materia di tabacco – in quanto non contenenti tabacco e ritiene che, in mancanza di una specifica previsione normativa, non sia applicabile per tali dispositivi il divieto di fumo previsto dall’articolo 51 della legge n 3/2003 a tutela della salute dei non fumatori.

Sul piano delle singole organizzazioni aziendali, sussiste però la facoltà per il datore di lavoro di vietare l’uso della sigaretta elettronica all’interno delle proprie strutture.

Il Ministero ha concluso ribadendo che, in assenza di specifico divieto imposto dall’azienda, l’utilizzo della sigaretta elettronica sul luogo di lavoro potrà essere consentito solamente previa valutazione dei rischi, ai sensi delle disposizioni vigenti di cui al Testo Unico sulla Sicurezza sul lavoro n.81/2008.  

Tale valutazione, in particolare, dovrà tener conto del rischio a cui l’utilizzo della sigaretta elettronica può esporre i lavoratori, in ragione delle sostanze che possono essere inalate, in seguito al processo di vaporizzazione.

Valerio Pollastrini

venerdì 8 novembre 2013

Rientra nella fattispecie di mobbing la condotta con la quale l’azienda costringe il dipendente ad una forzata inoperosità


Nella sentenza n.16413 del 28 giugno 2013 la Corte di Cassazione ha affrontato la questione del mobbing perpetrato ai danni di un lavoratore, svilito di ogni funzione e reso, di fatto, inoperativo dal datore di lavoro.

Il caso in commento è quello di un lavoratore trasferito dall’azienda presso altra sede, nella quale era stato privato di ogni compito lavorativo e posto in una condizione di isolamento e svilimento della sua dignità di uomo e di lavoratore che ne aveva causato un profondo stato depressivo.

Il Tribunale di Taranto aveva parzialmente accolto il ricorso del lavoratore, riconoscendone il diritto al risarcimento dei danni biologico permanente, morale ed esistenziale, ma aveva, altresì, escluso che la patologia tumorale da cui il dipendente era risultato affetto potesse essere ricollegata allo stato di disagio vissuto in azienda.

La Corte di Appello di Lecce aveva successivamente confermato quanto stabilito nel primo grado di giudizio ed aveva riconosciuto in favore del lavoratore un danno biologico permanente del 35%, stimato, in base alle tabelle in uso presso il distretto, in   87.686,00 €, oltre al danno morale pari a 21.921,00 € e al danno esistenziale quantificato in  15.493,00 €.

L’azienda aveva quindi agito per la cassazione della sentenza di appello ed il lavoratore si era costituito con controricorso nel quale contestava la mancata inclusione della patologia tumorale tra le conseguenza del mobbing patito sul luogo di lavoro.

L’azienda lamentava che la Corte territoriale non avrebbe attribuito rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività del lavoratore non fosse addebitabile ad una scelta volontaria del datore di lavoro, quanto, piuttosto, l'effetto di obiettive e dimostrate ragioni tecnico-produttive nell'ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili professionali ed il risultato di una consensuale valutazione per mantenere la posizione lavorativa del dipendente.

Per la Corte di Cassazione, una simile doglianza presenta profili di inammissibilità, dal momento che nel ricorso tali ragioni appaiono meramente descrittive delle cause che, a dire della società, avrebbero determinato il trasferimento del lavoratore.

Non ravvisandosi una specifica censura sul punto, la Corte Lecce, lungi dall'aver ignorato le circostanze fattuali addotte dall'appellante, aveva escluso che l'inoperosità del dipendente potesse essere la conseguenza di una oggettiva carenza di lavoro, ovvero di problemi organizzativi.

La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione della Corte di merito che aveva accertato come, al momento del trasferimento presso altra sede, il lavoratore, di fatto, era stato privato di ogni compito lavorativo, restando così pregiudicato nella sua identità culturale e professionale.

Inoltre, la Corte territoriale aveva chiaramente escluso che l'inoperosità del dipendente potesse essere la conseguenza di una oggettiva carenza di lavoro o di problemi di carattere organizzativo per contenere l'espulsione di manodopera, con ciò fornendo un completo esame di tutte le risultanze di causa e dei rilievi della parte appellante.

Il datore di lavoro aveva poi contestato che il giudice di Appello avesse ritenuto, quale sintomo rilevatore del proposito della società di svilire la condizione del dipendente, la  mancata attribuzione allo stesso di lavoro straordinario, costantemente assegnato, invece, ad altri dipendenti, senza però tener conto della diversità delle mansioni svolte da coloro che tali prestazioni ulteriori erano stati chiamati ad effettuare.

Anche questo motivo del ricorso è stato respinto dalla Cassazione, in quanto il riferimento operato dalla Corte di merito alle modalità di ricorso al lavoro straordinario è stato utilizzato quale argomentazione ad abundantiam, pertanto non essenziale a sorreggere la decisione rispetto alle ragioni in precedenza esaminate.

In merito alla presunta ed immotivata esclusione lamentata dal lavoratore del rapporto causale tra la riconosciuta patologia da stress e la nefasta patologia tumorale, la Cassazione ha ricordato il proprio consolidato orientamento, in base al quale, nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-legale, qualora il giudice del merito si basi sulle conclusioni dell'ausiliare giudiziario, affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico-formali si concretizzino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni che si traducono in una inammissibile critica del convincimento del giudice di merito fondato, per l'appunto, sulla consulenza tecnica (1).

Nella specie la Corte territoriale si era avvalsa  degli accertamenti e delle valutazioni del consulente tecnico nominato nel corso del giudizio di primo grado, il quale aveva ritenuto, allo stato delle conoscenze, che non vi fosse alcuna evidenza scientifica ed empirica che uno stato depressivo, anche se protratto nel tempo, potesse determinare l'insorgenza di un processo tumorale.

Ad avviso della Corte di Appello non vi erano dunque elementi per sostenere che un evento stressante potesse essere all'origine di quelle complesse trasformazioni, a livello cellulare, che portano alla comparsa della malattia tumorale.

Alla luce delle ragioni evidenziate, la Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito nel giudizio di appello, disponendo la compensazione tra le parti delle spese processuali.

Valerio Pollastrini

Visita medica preventiva in caso di riassunzione del lavoratore - Condizioni


Il D.Lgs. n.81/2008 disciplina nel nostro ordinamento le prescrizioni previste per la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. A proposito della sorveglianza sanitaria, il secondo comma dell’articolo 41 impone alle aziende l’obbligo di sottoporre i dipendenti ad una visita medica preventiva, intesa a constatare l'assenza di controindicazioni alle mansioni cui i lavoratori saranno destinati, al fine di valutarne l’ idoneità specifica.

Proprio tale adempimento  costituisce l’oggetto della risposta fornita dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali all'Interpello n. 8 del 24 ottobre 2013, presentato dal Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Consulenti del Lavoro.
In particolare, l’istante aveva chiesto se il datore di lavoro, in caso di nuova assunzione di un ex-dipendente, per mansioni uguali o sostanzialmente collegate allo stesso rischio del precedente rapporto, per il quale sia trascorso un termine breve, e comunque entro la periodicità prevista dal medico competente per la visita  di controllo, possa omettere la visita preventiva.

Il Dicastero ha ricordato preliminarmente che la funzione delle visita medica preventiva è quella di verificare l'assenza di controindicazioni al lavoro cui il lavoratore è destinato, al fine di valutare la sua idoneità alla mansione specifica. Inoltre, la norma di riferimento dispone, generalmente ogni anno, delle visite  periodiche di controllo sullo stato di salute dei lavoratori ed il perdurare della loro idoneità.
Nel caso di assunzioni successive – questo in sostanza il parere del Ministero -  qualora il lavoratore sia impiegato in mansioni che lo espongono allo stesso rischio nel corso del periodo di validità della precedente visita preventiva o di quella periodica e comunque per un periodo non superiore ad un anno, il datore di lavoro non è tenuto ad effettuare una nuova visita preventiva, in quanto la situazione sanitaria del lavoratore risulta già conosciuta dal medico competente.    

Valerio Pollastrini

Lavoratori stranieri: fin dal primo ingresso è possibile convertire il permesso di soggiorno stagionale


Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, a proposito della presenza in Italia di lavoratori stranieri,  ha annunciato la Circolare del 5 novembre 2013  con la quale l’Interno ha fornito alcuni chiarimenti sulla conversione del permesso di soggiorno stagionale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato.

La circolare chiarisce in particolare che, nei casi di domanda di conversione del permesso di soggiorno, non deve essere accertato l'avvenuto rientro del lavoratore stagionale nel Paese di origine e l'ottenimento del secondo visto di ingresso in Italia per lavoro stagionale. In sostanza, ai fini della conversione del permesso di soggiorno è sufficiente che le Direzioni Territoriali del Lavoro e gli Sportelli Unici verifichino la presenza dei requisiti per l'assunzione nell'ambito delle quote di ingresso specificatamente previste per tali conversioni, nonché l'effettiva assunzione in occasione del primo ingresso per lavoro stagionale (tramite il riscontro dell'esistenza di un'idonea comunicazione obbligatoria).

mercoledì 6 novembre 2013

Esodo dei lavoratori prossimi alla pensione


La persistenza della crisi occupazionale ha indotto il legislatore ad approntare alcune misure finalizzate a fronteggiare i frequenti esuberi aziendali. Per tale motivo nei casi di eccedenza di personale, la legge n.92 del 2012 ha introdotto una nuova prestazione che consente ai  datori di lavoro che impiegano mediamente più di 15 dipendenti,  la possibilità di stipulare specifici accordi con le organizzazioni sindacali, per  incentivare l’esodo dei lavoratori più prossimi alla pensione.

I  datori di lavoro interessati dovranno impegnarsi a corrispondere all’Inps la provvista finanziaria necessaria per l’erogazione ai lavoratori di una prestazione di importo pari al trattamento di pensione che spetterebbe loro al momento della risoluzione del rapporto di lavoro in base alle regole vigenti e per l’accredito della contribuzione fino al raggiungimento dei requisiti minimi per il pensionamento.

L’Inps, con il messaggio n.17768 del 5 novembre 2013, oltre a fornire il nuovo modello di domanda preliminare ed il modello di domanda di prestazione, ha illustrato le modalità di finanziamento della prestazione di esodo e gli adempimenti da parte dei datori di lavoro.

1) FINANZIAMENTO


1.1) Versamento anticipato della provvista mensile a copertura della prestazione di esodo
Il giorno 10 di ciascun mese la procedura informatica individuerà le prestazioni in essere, per le quali dovrà essere predisposto il flusso di pagamento relativo al mese successivo.

Le prestazioni verranno, in tal modo, ricondotte al codice di censimento attribuito al datore di lavoro esodante al fine di quantificare la somma complessiva lorda che lo stesso dovrà versare all’Inps per il finanziamento delle prestazioni in favore dei propri dipendenti.

L’importo verrà reso disponibile:

·  in ambiente IMSPN, procedura AGENDA1, funzione PAES, per la Sede INPS indicata dal datore di lavoro per il versamento mensile della provvista anticipata;

·  sul sito internet www.inps.it “Servizi online”, nella sezione “Enti pagatori: assegno straordinario di sostegno al reddito”, per i datori di lavoro. Questo servizio consente la consultazione dei dati sintetici ed analitici relativi al finanziamento mensile delle prestazioni in oggetto. Per accedere alle informazioni è necessario richiedere preventivamente l’attribuzione del codice PIN da parte della sede Inps presso la quale è previsto il versamento mensile, attraverso le modalità fornite nella pagina iniziale dell’applicazione (opzione “modalità di accesso”).

La Sede INPS competente, a partire dal giorno 10 del mese, comunicherà all’azienda l’importo della provvista.

L’accreditamento della provvista dovrà avvenire entro il giorno 15 del mese precedente a quello cui si riferisce la corresponsione delle prestazioni, e dovrà riportare la  causale "CONTRIBUTO DI FINANZIAMENTO ASSEGNI – ART. 4, COMMI 1- 7ter, della legge n. 92/2012”.

La Sede INPS, attraverso la funzione PAES, dovrà confermare l’avvenuto versamento della somma richiesta entro il giorno 16 di ciascun mese.

1.2) Pagamento della prestazione di esodo
Il Messaggio in commento chiarisce che il pagamento della prestazione verrà corrisposto ai lavoratori esodati per 13 mensilità, attraverso rate mensili anticipate, la cui esigibilità è fissata al primo giorno bancabile di ciascun mese.

1.3) Comunicazione di liquidazione e scadenza della prestazione di esodo
In seguito alla liquidazione della prestazione di esodo, ai soggetti interessati, unitamente al relativo certificato, verrà inviata una comunicazione con le informazioni relative al pagamento e alla data di scadenza della prestazione stessa.

L’Inps ha ricordato che la trasformazione in pensione della prestazione in commento non è automatica e, pertanto, entro il mese di scadenza della stessa, il lavoratore dovrà presentare in tempo utile la domanda di pensione alla competente Sede INPS.

 
2) PRESTAZIONE DI ESODO E TRATTENUTE SULLA STESSA


L’Istituto ha precisato che sull’importo della prestazione non possono essere effettuate trattenute per il pagamento di oneri (ad esempio per cessione del quinto dello stipendio; per mutui ecc.).

In particolare, per i riscatti e le ricongiunzioni, il pagamento dovrà essere interamente effettuato prima dell’accesso alla prestazione.  

 
3) ESITO VERIFICA DEI REQUISITI DEL DATORE DI LAVORO

Dopo aver verificato la sussistenza dei requisiti prescritti in capo al datore di lavoro, per l’attribuzione del codice di censimento dell’azienda, la Sede Inps presso la quale siano stati assolti gli obblighi contributivi, dovrà comunicare l’esito delle verifiche di competenza effettuate sull’accordo aziendale e sulla richiesta di accesso alle procedure automatizzate di gestione della prestazione di cui alla legge n. 92/2012 art. 4, commi da 1 a 7-ter, utilizzando la funzionalità telematica “contatti” del fascicolo elettronico aziendale,  inserendo nel campo “esito” della sezione “Dati Richiesta” con oggetto “Esodi lavoratori prossimi a pensione (art. 4, comma 1-7-ter, legge n, 92/2012)”, la dicitura “accolta” se l’esito della verifica è positivo o “respinta” se l’esito della verifica è negativo.  

 
4) PRECISAZIONI SULLA DETERMINAZIONE DELLA CONTRIBUZIONE CORRELATA


La misura della contribuzione correlata mensile dovrà essere quantificata con gli stessi criteri di calcolo dei contributi figurativi ai fini Aspi. L’azienda dovrà comunicare tale dato all’Inps che procederà a verificarne la correttezza.

Nella determinazione della retribuzione imponibile ai fini previdenziali dovranno essere considerate tutte le settimane, indipendentemente dal fatto che esse siano interamente o parzialmente retribuite (in uni-emens settimane di tipo “X” o “2”). La retribuzione delle settimane di tipo 2 sarà integrata  al valore pieno con l’utilizzo dell’ informazione “Sett./Diff. Accredito” presente in Uniemens. L’azienda dovrà assumere la retribuzione imponibile esposta in UNIEMENS ed a questa sommare l’imponibile perso per eventi tutelati che danno luogo ad accredito figurativo.

Valerio Pollastrini

Il dipendente può essere obbligato al pagamento delle ritenute fiscali non versate dal datore di lavoro


Nella sentenza n.23121 dell’11 ottobre 2013 la Cassazione ha stabilito che  il dipendente può essere direttamente chiamato al versamento delle ritenute fiscali omesse dal datore di lavoro.

Il caso è quello di un lavoratore che aveva impugnato dinnanzi alla Commissione Tributaria di Imperia un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate, relativo, tra l’altro, alle ritenute Irpef non versate dal suo datore di lavoro.  

La Commissione Tributaria Provinciale aveva accolto il ricorso del lavoratore, ritenendo che l'Amministrazione avrebbe dovuto preventivamente escutere il patrimonio del datore di lavoro e solo in caso di esito negativo emettere l'accertamento nel confronti del lavoratore.

La Commissione Regionale aveva successivamente  rigettato l’appello dell’Agenzia, ricordando che l'art. 35 dpr 602/73 subordina  il sorgere del vincolo di coobbligazione in solido del "sostituito" al momento dell'iscrizione a ruolo del "sostituto", in ordine alle imposte per le quali quest'ultimo non aveva effettuato, né le ritenute, né i relativi versamenti (circostanza non verificatasi nel caso di specie).

La Commissione aveva accertato che il reddito di lavoro del contribuente rappresentasse la sua unica fonte di reddito,   non concorrendo a formare la base imponibile insieme ad altri redditi e, pertanto, la ritenuta di imposta non aveva più il carattere dì ritenuta d'acconto ma quello di ritenuta definitiva di imposta, rispetto alla quale, la posizione del "sostituito" era residuale e diveniva operante solo nel caso fosse stata accertata l'omissione del "sostituto" in ordine, sia alla ritenuta, sia al versamento.

L’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per Cassazione, contestando alla Commissione Tributaria Regionale di aver erroneamente ritenuto che, in presenza di un'unica fonte di reddito costituita da lavoro dipendente, operasse il sistema della ritenuta d'imposta (con conseguente posizione residuale del sostituito e non applicabilità del menzionato art. 35).

A detta del ricorrente, tale norma si limita all'espressa previsione della solidarietà tra sostituto e sostituito nella fase di riscossione, ma che non vi sia alcuna ragione per escludere i redditi di lavoro dipendente - che si pongono quale unica fonte di reddito- dall'applicabilità della ritenuta alla fonte a titolo di acconto.

La pronuncia della Cassazione 
Nell’accogliere il ricorso dell’Agenzia, la Corte ha richiamato una precedente pronuncia (1) nella quale aveva affermato che costituisce ritenuta a titolo di acconto quella operata su di un reddito concorrente a formare la base imponibile, mentre costituisce ritenuta a titolo di imposta quella operata su di un reddito non assoggettabile ad imposizione. Ciò comporta che se il reddito in questione non è esente da imposta e concorre a formare la base imponibile, la ritenuta è appunto un acconto che potrà evidenziare la sussistenza di un ulteriore debito o del diritto al rimborso.

Nel caso in cui detto reddito non concorre a formare la base imponibile, la ritenuta costituisce un'imposta "secca", avendo evidentemente il legislatore ritenuto trattarsi comunque di una manifestazione di ricchezza, come tale assoggettabile a prelievo in via definitiva, in misura non ancorata all'ammontare complessivo dei redditi del contribuente.

A detta della Suprema Corte, siffatta classificazione non appare, tuttavia, rilevante nel caso di specie, in quanto, a prescindere se la ritenuta sia prevista a titolo di imposta o a titolo di acconto, il fatto che il D.P.R. n. 600 del 1973, articolo 64, comma 1, definisca il sostituto d'imposta come colui che "in forza di disposizioni dì legge è obbligato al pagamento di imposte in luogo di altri... ed anche a titolo di acconto" non toglie che, in ogni caso, anche il sostituito debba ritenersi già originariamente (e non solo in fase di riscossione, come espressamente ribadito dai citato art. 35) obbligato solidale al pagamento dell'imposta;

Il lavoratore, in questo caso, mantiene naturalmente  il diritto di regresso verso il sostituto che, dopo avere eseguito la ritenuta, non l'abbia versata all'erario, esponendolo così all'azione del fisco (2).  

Per le richiamate motivazioni la Corte ha cassato la gravata sentenza che aveva omesso il corretto utilizzo del predetto principio ed ha rinviato la decisione alla Commissione Tributaria della Regione Liguria che, in diversa composizione, dovrà provvedere anche a regolare le spese del giudizio di legittimità.

Valerio Pollastrini


(1)   - v. Cass. 4509/2012;

(2)    - Cass. 14033/2006; 24962/2010;

L’Impresa che vanti crediti certi nei confronti della Pubblica Amministrazione ha diritto al rilascio del Durc


L’art.31 del D.L. n.692013, convertito nella legge n.98/2013, ha stabilito che il Documento unico di regolarità contributiva deve essere comunque rilasciato, in presenza di una certificazione che attesti la sussistenza dei crediti vantati nei confronti delle pubbliche amministrazioni di importo pari almeno agli oneri contributivi accertati e non ancora versati da parte del medesimo soggetto, in tutti i casi di rilascio del Durc e non più solo per l’applicazione dei benefici normativi e contributivi.

Con la circolare n.40 del 21 ottobre 2013 il Ministero del lavoro ha fornito a tal proposito i primi chiarimenti operativi.

Gli enti tenuti al rilascio del Durc (Inps, Inail e Casse edili), su richiesta del soggetto titolare del credito certificato dall’ente pubblico debitore, dovranno emettere il relativo documento precisando che, nonostante il mancato versamento di quote contributive, lo stesso è rilasciato a norma della disposizione in commento, precisando l’ammontare del debito contributivo e gli estremi della certificazione esibita.

Il Ministero del lavoro chiarisce che il soggetto interessato, nella fase di avvio del procedimento per  l’acquisizione d’ufficio del Durc dovrà dichiarare di vantare dei crediti  nei confronti della Pa per i quali ha ottenuto la certificazione.

La certificazione esibita per il rilascio del Durc può essere altresì utilizzata per compensare somme iscritte a ruolo ovvero per la cessione o anticipazione del credito presso banche o intermediari finanziari.

Il Ministero del lavoro ha inoltre precisato che il persistere della situazione debitoria nei confronti degli enti interessati (Inps, Inail e Casse edili), questi ultimi conservano tutte le facoltà inerenti sia al potere sanzionatorio sia alle procedure di riscossione coattiva.

Valerio Pollastrini

lunedì 4 novembre 2013

In mancanza del riposo settimanale il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno


Nella sentenza n.24180 del 25 ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha confermato l’obbligo, a carico del datore di lavoro, di risarcire il danno subito dal lavoratore per la mancata fruizione dei riposi settimanali.

Un dipendente del comune di Torino, in servizio nel Corpo di Polizia municipale, che una settimana ogni cinque, era stato costretto a lavorare per sette giorni consecutivi, aveva chiesto al giudice del lavoro il riconoscimento, nei limiti della prescrizione decennale, del risarcimento del danno da usura psico-fisica per il lavoro prestato il settimo giorno.

Il Tribunale aveva  accolto il ricorso del lavoratore ed aveva condannato l’Ente comunale a pagare  la somma di 9.363,90 euro, oltre rivalutazione ed interessi.

In seguito, anche la Corte di Appello aveva sostenuto le ragioni del lavoratore, rigettando il ricorso del datore di lavoro.

Il Comune aveva quindi agito  per la cassazione della sentenza di appello, denunciando la violazione degli artt. 15 e 17 della Direttiva 93/104/CE che espressamente prevede “la deroga al principio del riposo settimanale, in via legislativa, regolamentare, amministrativa o contrattuale” tra l’altro “per l’attività di guardia, sorveglianza e permanenza caratterizzate dalla necessità di assicurare la protezione di beni e delle persone”.

Il ricorrente aveva sottolineato che la turnazione adottata rispettava quanto disposto  nell’accordo sindacale del luglio 1986, nel quale erano state predeterminate le tabelle di turnazione. A detta del Comune di Torino  la Corte d’appello non avrebbe accertato la sussistenza nell’ordinamento interno di disposizioni derogatorie alla disciplina ordinaria.

Per la Cassazione tale motivazione, oltre che  generica, è distonica rispetto alla motivazione specifica enunciata sul punto della Corte d’appello. Il giudice di merito aveva infatti motivato il suo rigetto proprio in relazione alle caratteristiche della direttiva 93/104/CE ed in particolare sulla sua inidoneità a regolare direttamente i rapporti tra privati e ad essere direttamente applicabile nell’ordinamento interno, dato che lascia ampi spazi di discrezionalità agli Stati membri specificamente con riferimento alla possibilità di introdurre deroghe. Si tratta di una motivazione che non può essere censurata dalla Cassazione.

La Suprema Corte ha chiarito che la censura centrale di questo motivo del ricorso ritiene che la Corte avrebbe omesso di verificare la presenza nell’ordinamento interno di disposizioni che legittimano le deroghe di specificità. L’unico richiamo è stato quello relativo all’accordo sindacale del luglio 1986, ma tale accordo non prevede una deroga al principio legislativo, bensì contiene una regolazione dei turni che prescinde da tale principio.

Il ricorrente aveva denunziato la violazione di una serie di norme che prevedono una compensazione per il disagio: in particolare l’art. 22 del ccnl comparto regioni enti locali del 14 settembre 2000, che ricalca la previsione dell’art. 13 del dpr 268 del 1987.

La Corte ha però chiarito che la normativa richiamata retribuisce la maggiore penosità del lavoro prestato in una giornata festiva, in qualunque giorno del turno essa venga a cadere e non compensa affatto l’usura psico-fisica per l’attività lavorativa prestata nel settimo giorno, così come gli altri benefici contrattuali riconosciuti ai Vigili urbani sono destinati a compensare altri disagi connessi alla particolare prestazione lavorativa e non già il danno derivante dalla mancata concessione del riposo settimanale.

La Cassazione ha inoltre precisato come la Corte di Appello si fosse correttamente attenuta alla consolidata giurisprudenza di legittimità (1) che, in relazione al lavoro prestato oltre il sesto giorno consecutivo, ritiene debba essere tenuto distinto il danno da “usura psico-fisica”, conseguente alla mancata fruizione del riposo dopo sei giorni di lavoro, dall’ulteriore danno alla salute o danno biologico, che si concretizza, invece, in una “infermità” del lavoratore determinata dall’attività lavorativa usurante svolta in conseguenza di una continua attività lavorativa non seguita dai riposi settimanali.

Nella prima ipotesi, il danno “sull’an” deve ritenersi presunto; nella seconda ipotesi, invece, il danno alla salute o biologico, concretizzandosi in una infermità del lavoratore, non può essere ritenuto presuntivamente sussistente ma deve essere dimostrato sia nella sua sussistenza e sia nel suo nesso eziologico, a prescindere dalla presunzione di colpa insita nella responsabilità nascente dall’illecito contrattuale.

La Corte ha quindi richiamato altre sentenze di legittimità (2) che hanno affrontato situazioni inerenti al lavoro oltre il settimo giorno in presenza di specifiche previsioni contrattuali giudicate legittime, nelle quali si è  proceduto ad un mera maggiorazione del compenso commisurata alla maggiore pesantezza della prestazione. In tali casi il trattamento economico non ha natura risarcitoria, ma retributiva con le relative ulteriori conseguenze.

Alla luce delle richiamate argomentazioni la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso del Comune di Torino, disponendo a carico di quest’ultimo il pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 euro per compensi professionali, 50,00 euro per spese processuali, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 

(1)    - cfr. Sez. L, n. 16398 del 20/08/2004;

(2)    - cfr. Cass. n. 861 del 2005;

Infortunio sul lavoro e mancato utilizzo dei dispositivi di protezione forniti dall’azienda


Nella sentenza n.8861 dell’11 aprile 2013 la Corte di Cassazione ha affrontato la questione della supposta responsabilità del datore di lavoro per l’infortunio accaduto al lavoratore che abbia omesso di utilizzare i dispositivi di protezione forniti dall’azienda.

Il fatto
Il caso è quello di un dipendente che in seguito ad infortunio sul lavoro aveva riportato postumi invalidanti nella misura del 20%.

Il sinistro si era verificato mentre il lavoratore stava effettuando una trapanazione all'interno di un container. La punta del trapano utilizzato si era rotta ed una scheggia di metallo aveva colpito l'occhio del dipendente.

La sentenza di primo grado aveva respinto la richiesta di risarcimento danni che il lavoratore aveva presentato nei confronti del datore di lavoro.

La Corte di Appello di Perugia, successivamente adita, confermava  quanto disposto dal tribunale di merito, rilevando che  l'INAIL avesse risarcito il danno patrimoniale.

Per la Corte di Appello la responsabilità dell’infortunio doveva essere ricondotta al comportamento del lavoratore che non aveva rispettato la prescrizione di sicurezza relativa all'uso degli occhiali, non indossati nel corso dell'espletamento dell'intera attività lavorativa, nonostante gli fosse stato fornito un kit che li conteneva.

In modo particolare era stato evidenziato che all’inizio della lavorazione il lavoratore avesse inforcato gli occhiali e ciò escludeva ogni responsabilità datoriale,  reputandosi non ragionevole pretendere che la vigilanza datoriale dovesse estendersi all'accertamento costante sul rispetto delle  disposizioni in tema di sicurezza sul lavoro.

Il lavoratore aveva quindi ricorso per la cassazione del giudizio merito, denunciando la violazione  dell’art.4 del D.Lgs n.547/1955 che prevede, tra gli ulteriori obblighi del datore, quello di disporre ed esigere che i singoli lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi a loro disposizione. Inoltre, nella controversia in commento, era emerso che il dipendente, assunto con contratto di formazione e lavoro e quindi privo di esperienza, non fosse addetto normalmente alla mansione svolta al momento dell'infortunio e non era stato adeguatamente formato alla stessa.

Il ricorrente sottolineava, altresì, la natura di norma di chiusura del sistema dell'art. 2087 c.c. operante anche in presenza di comportamento imprudente del lavoratore, chiedendo alla Suprema Corte  se il datore sia tenuto a vigilare sul rispetto da parte del lavoratore di tutte le norme antinfortunistiche e sull'utilizzo di tutti i dispositivi di sicurezza per la tutela dell'incolumità fisica, rispondendo dei danni subiti in ipotesi di mancata osservanza delle prescrizioni.

Il lavoratore sosteneva, infine, che spettasse al datore di lavoro l’obbligo di informazione, nonché  quello di formazione, e che, nella specie, non era stata fornita la prova dell'avvenuta partecipazione del dipendente ai corsi a tal fine organizzati, essendo, anzi, risultato che la firma di presenza apposta nell'attestato di partecipazione al corso di formazione non apparteneva al lavoratore.

La pronuncia della Cassazione
Nel respingere il ricorso  la Cassazione ha precisato che la Corte territoriale aveva accertato  che il lavoratore era stato adeguatamente istruito sull’attività svolta al momento dell’infortunio e che allo stesso era stato consegnato un kit che conteneva, tra l'altro, guanti ed occhiali, indispensabili  anche durante le operazioni di verniciatura.

Le prove testimoniali avevano poi attestato che il giorno dell’infortunio  il lavoratore aveva indossato gli occhiali protettivi all’inizio della lavorazione.

Per la Cassazione la pronuncia di appello risulta immune da vizi logici nella parte in cui ha ritenuto che il datore di lavoro non è responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore per aver omesso di controllare e vigilare che tali misure fossero state effettivamente usate dal dipendente, in quanto, pur non assumendo valore esimente per l'imprenditore l'eventuale concorso di colpa del lavoratore, può configurarsi un esonero da responsabilità dell’azienda quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'abnormità e dell'assoluta inopinabilità.

La Suprema Corte ha ricordato che l'eventuale colpa del lavoratore, dovuta ad imprudenza, negligenza o imperizia, non elimina quella del datore di lavoro, sul quale incombe l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, non essendo sufficiente un semplice concorso di colpa del lavoratore per interrompere il nesso di causalità.

Tuttavia, nel caso di specie, la Corte di Appello aveva correttamente valutato che la condotta del lavoratore era configurabile come imprevedibile e assolutamente anomala. Il ricorrente, infatti, stava eseguendo le ordinarie mansioni assegnategli, munito delle protezioni prescritte, allorché, inopinatamente, appena sfuggito alla sorveglianza del capo officina, si era tolto gli occhiali.

La pronuncia appellata risulta corretta anche nel rispetto dei principi costantemente enunciati dalla Corte di legittimità (1) volti ad escludere la responsabilità del datore nel sinistro, dal momento che lo stesso aveva provveduto a fornire, a mezzo dei suoi preposti, i necessari mezzi di protezione, ad impartire istruzioni sull'uso degli stessi e a vigilare sul rispetto delle istruzioni impartite nonché sull'uso degli occhiali di protezione durante la lavorazione e che, rispetto al puntuale assolvimento di tutti questi obblighi, la condotta del lavoratore aveva assunto il carattere dell'assoluta imprevedibilità.

Gli ermellini hanno osservato che, se pure è principio pacifico  che il dovere di sicurezza a carico del datore di lavoro a norma dell'art. 2087 cod. civ. si atteggia in maniera particolarmente intensa nei confronti dei lavoratori di giovane età e professionalmente inesperti, esaltandosi in presenza di apprendisti nei cui confronti la legge pone precisi obblighi di formazione e addestramento (2), le considerazioni che precedono si rivelano assorbenti, attesa la connotazione di imprevedibilità del contegno tenuto nel caso in commento dal lavoratore.

Infine, e con riguardo specificamente ai rilievi formulati sulla mancata formazione del dipendente, la  Corte ha giudicato assolto l'obbligo formativo e informativo, indipendentemente ed al di là della partecipazione del lavoratore al corso di formazione in relazione al cui attestato erano emerse perplessità in ordine all'autenticità della firma apposta dal lavoratore.

Alla stregua delle richiamate considerazioni, la Corte, nel rigettare il ricorso, ha disposto per la compensazione tra le parti delle spese di lite del giudizio di legittimità in relazione alla difficoltà di ricostruzione della fattispecie ed alla peculiarità della stessa.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - v. Cass. 8 marzo 2006 n. 4980; Cass. 23aprile 2009 n. 9689, Cass. 10.9.2009 n. 19494; Cass. 25.2.2011 n. 4656 e, da ultimo, Cass. 10 gennaio 2013 n. 536;

(2)    - cfr. Cass. 18 maggio 2007 n. 11622; Cass. 24 gennaio 2012 n. 944 e, in precedenza, Cass. 12 gennaio 2002 n. 326; Cass. 2 ottobre 1998 n. 9805;

sabato 2 novembre 2013

Nuovo Pin e sospensione temporanea dei servizi on-line dell’Inps


L’Inps, con la News del 31 ottobre 2013, ha reso nota la sospensione dei servizi on-line dell’Istituto fino al 5 novembre.

Dopo aver completato i processi di telematizzazione, l’evoluzione dei servizi erogati in rete ha richiesto, spiga l’Ente, una diversa  procedura di gestione dei Pin attraverso  un nuovo modello di autorizzazione di tipo ‘multiprofilo’.

Presentando la documentazione richiesta, l’utente potrà ora ricevere un PIN valido per l’accesso ai servizi riservati a più profili utente. Ad esempio: cittadino e consulente oppure cittadino e operatore di patronato.

Per tutta la giornata del 3 novembre non sarà possibile accedere ai servizi online e verrà inibito l’accesso all’applicazione di gestione dei PIN.

Dal momento che il nuovo rilascio PIN sarà disponibile dal 5 novembre, il giorno 4 non sarà possibile procedere all’assegnazione di nuovi codici.

Gli utenti potranno comunque richiedere il Pin il giorno 4, recandosi presso una sede dell’Istituto e presentando la domanda con l’eventuale documentazione.


Il PIN in tal modo assegnato sarà però attivo dal giorno 5.

Valerio Pollastrini

Legittimo il trasferimento del dipendente se dovuto ad incompatibilità con i colleghi


Nella sentenza n.19425 del 22 agosto 2013 la Corte di Cassazione ha chiarito che il trasferimento del dipendente per incompatibilità ambientale non rientra tra le  ragioni punitive e disciplinari.

Là dove trovi la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell'unità produttiva, il trasferimento va  altresì ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive, di cui all'art. 2103 cod. civ.

La legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento, in tal caso, prescinde  dalla colpa  dei lavoratori trasferiti, come dall'osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari.

La Suprema Corte chiarisce che, in simili circostanze, il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato  deve essere finalizzato all’accertamento di una corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell'impresa.

Si tratta di un  controllo che non può essere esteso al merito della scelta imprenditoriale, essendo sufficiente che il trasferimento concretizzi una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.

La riscontrata incompatibilità fra il lavoratore trasferito ed i suoi colleghi e collaboratori diretti rientra dunque tra le suddette comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive se una simile situazione determini conseguenze, quali tensione nei rapporti personali o contrasti nell'ambiente di lavoro, che  costituiscono una causa di disorganizzazione e disfunzione nell'unità produttiva, conclamando l'obiettiva esigenza aziendale di modifica del luogo di lavoro.

Valerio Pollastrini