Nella sentenza n.16413 del 28 giugno 2013 la Corte di Cassazione ha
affrontato la questione del mobbing perpetrato ai danni di un lavoratore,
svilito di ogni funzione e reso, di fatto, inoperativo dal datore di lavoro.
Il caso in commento è quello di un lavoratore trasferito dall’azienda presso
altra sede, nella quale era stato
privato di ogni compito lavorativo e posto in una condizione di isolamento e
svilimento della sua dignità di uomo e di lavoratore che ne aveva causato un
profondo stato depressivo.
Il Tribunale di Taranto aveva parzialmente accolto il ricorso del lavoratore,
riconoscendone il diritto al risarcimento dei danni biologico permanente,
morale ed esistenziale, ma aveva, altresì, escluso che la patologia tumorale da
cui il dipendente era risultato affetto potesse essere ricollegata allo stato
di disagio vissuto in azienda.
La Corte di Appello di Lecce aveva successivamente confermato quanto
stabilito nel primo grado di giudizio ed aveva riconosciuto in favore del
lavoratore un danno biologico permanente del 35%, stimato, in base alle tabelle
in uso presso il distretto, in 87.686,00 €, oltre al danno morale pari a
21.921,00 € e al danno esistenziale quantificato in 15.493,00 €.
L’azienda aveva quindi agito per la cassazione della sentenza di appello ed
il lavoratore si era costituito con controricorso nel quale contestava la
mancata inclusione della patologia tumorale tra le conseguenza del mobbing
patito sul luogo di lavoro.
L’azienda lamentava che la Corte territoriale non avrebbe attribuito
rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività del lavoratore
non fosse addebitabile ad una scelta volontaria del datore di lavoro, quanto,
piuttosto, l'effetto di obiettive e dimostrate ragioni tecnico-produttive
nell'ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili
professionali ed il risultato di una consensuale valutazione per mantenere la
posizione lavorativa del dipendente.
Per la Corte di Cassazione, una simile doglianza presenta profili di
inammissibilità, dal momento che nel ricorso tali ragioni appaiono meramente
descrittive delle cause che, a dire della società, avrebbero determinato il
trasferimento del lavoratore.
Non ravvisandosi una specifica censura sul punto, la Corte Lecce, lungi
dall'aver ignorato le circostanze fattuali addotte dall'appellante, aveva
escluso che l'inoperosità del dipendente potesse essere la conseguenza di una
oggettiva carenza di lavoro, ovvero di problemi organizzativi.
La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione della Corte di merito che
aveva accertato come, al momento del trasferimento presso altra sede, il
lavoratore, di fatto, era stato privato di ogni compito lavorativo, restando così
pregiudicato nella sua identità culturale e professionale.
Inoltre, la Corte territoriale aveva chiaramente escluso che l'inoperosità
del dipendente potesse essere la conseguenza di una oggettiva carenza di lavoro
o di problemi di carattere organizzativo per contenere l'espulsione di manodopera,
con ciò fornendo un completo esame di tutte le risultanze di causa e dei
rilievi della parte appellante.
Il datore di lavoro aveva poi contestato che il giudice di Appello avesse
ritenuto, quale sintomo rilevatore del proposito della società di svilire la
condizione del dipendente, la mancata attribuzione
allo stesso di lavoro straordinario, costantemente assegnato, invece, ad altri
dipendenti, senza però tener conto della diversità delle mansioni svolte da
coloro che tali prestazioni ulteriori erano stati chiamati ad effettuare.
Anche questo motivo del ricorso è stato respinto dalla Cassazione, in
quanto il riferimento operato dalla Corte di merito alle modalità di ricorso al
lavoro straordinario è stato utilizzato quale argomentazione ad abundantiam,
pertanto non essenziale a sorreggere la decisione rispetto alle ragioni in
precedenza esaminate.
In merito alla presunta ed immotivata esclusione lamentata dal lavoratore del
rapporto causale tra la riconosciuta patologia da stress e la nefasta patologia
tumorale, la Cassazione ha ricordato il proprio consolidato orientamento, in
base al quale, nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-legale,
qualora il giudice del merito si basi sulle conclusioni dell'ausiliare
giudiziario, affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica
determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è
necessario che i relativi vizi logico-formali si concretizzino in una palese
devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni
illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della
parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa
limitare a mere considerazioni che si traducono in una inammissibile critica
del convincimento del giudice di merito fondato, per l'appunto, sulla
consulenza tecnica (1).
Nella specie la Corte territoriale si era avvalsa degli accertamenti e delle valutazioni del
consulente tecnico nominato nel corso del giudizio di primo grado, il quale
aveva ritenuto, allo stato delle conoscenze, che non vi fosse alcuna evidenza
scientifica ed empirica che uno stato depressivo, anche se protratto nel tempo,
potesse determinare l'insorgenza di un processo tumorale.
Ad avviso della Corte di Appello non vi erano dunque elementi per sostenere
che un evento stressante potesse essere all'origine di quelle complesse
trasformazioni, a livello cellulare, che portano alla comparsa della malattia
tumorale.
Alla luce delle ragioni evidenziate, la Corte di Cassazione ha confermato
quanto stabilito nel giudizio di appello, disponendo la compensazione tra le
parti delle spese processuali.
Valerio Pollastrini
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