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venerdì 8 novembre 2013

Rientra nella fattispecie di mobbing la condotta con la quale l’azienda costringe il dipendente ad una forzata inoperosità


Nella sentenza n.16413 del 28 giugno 2013 la Corte di Cassazione ha affrontato la questione del mobbing perpetrato ai danni di un lavoratore, svilito di ogni funzione e reso, di fatto, inoperativo dal datore di lavoro.

Il caso in commento è quello di un lavoratore trasferito dall’azienda presso altra sede, nella quale era stato privato di ogni compito lavorativo e posto in una condizione di isolamento e svilimento della sua dignità di uomo e di lavoratore che ne aveva causato un profondo stato depressivo.

Il Tribunale di Taranto aveva parzialmente accolto il ricorso del lavoratore, riconoscendone il diritto al risarcimento dei danni biologico permanente, morale ed esistenziale, ma aveva, altresì, escluso che la patologia tumorale da cui il dipendente era risultato affetto potesse essere ricollegata allo stato di disagio vissuto in azienda.

La Corte di Appello di Lecce aveva successivamente confermato quanto stabilito nel primo grado di giudizio ed aveva riconosciuto in favore del lavoratore un danno biologico permanente del 35%, stimato, in base alle tabelle in uso presso il distretto, in   87.686,00 €, oltre al danno morale pari a 21.921,00 € e al danno esistenziale quantificato in  15.493,00 €.

L’azienda aveva quindi agito per la cassazione della sentenza di appello ed il lavoratore si era costituito con controricorso nel quale contestava la mancata inclusione della patologia tumorale tra le conseguenza del mobbing patito sul luogo di lavoro.

L’azienda lamentava che la Corte territoriale non avrebbe attribuito rilevanza alla circostanza che lo stato di parziale inattività del lavoratore non fosse addebitabile ad una scelta volontaria del datore di lavoro, quanto, piuttosto, l'effetto di obiettive e dimostrate ragioni tecnico-produttive nell'ambito di una manovra tesa a consentire la salvaguardia di alcuni profili professionali ed il risultato di una consensuale valutazione per mantenere la posizione lavorativa del dipendente.

Per la Corte di Cassazione, una simile doglianza presenta profili di inammissibilità, dal momento che nel ricorso tali ragioni appaiono meramente descrittive delle cause che, a dire della società, avrebbero determinato il trasferimento del lavoratore.

Non ravvisandosi una specifica censura sul punto, la Corte Lecce, lungi dall'aver ignorato le circostanze fattuali addotte dall'appellante, aveva escluso che l'inoperosità del dipendente potesse essere la conseguenza di una oggettiva carenza di lavoro, ovvero di problemi organizzativi.

La Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione della Corte di merito che aveva accertato come, al momento del trasferimento presso altra sede, il lavoratore, di fatto, era stato privato di ogni compito lavorativo, restando così pregiudicato nella sua identità culturale e professionale.

Inoltre, la Corte territoriale aveva chiaramente escluso che l'inoperosità del dipendente potesse essere la conseguenza di una oggettiva carenza di lavoro o di problemi di carattere organizzativo per contenere l'espulsione di manodopera, con ciò fornendo un completo esame di tutte le risultanze di causa e dei rilievi della parte appellante.

Il datore di lavoro aveva poi contestato che il giudice di Appello avesse ritenuto, quale sintomo rilevatore del proposito della società di svilire la condizione del dipendente, la  mancata attribuzione allo stesso di lavoro straordinario, costantemente assegnato, invece, ad altri dipendenti, senza però tener conto della diversità delle mansioni svolte da coloro che tali prestazioni ulteriori erano stati chiamati ad effettuare.

Anche questo motivo del ricorso è stato respinto dalla Cassazione, in quanto il riferimento operato dalla Corte di merito alle modalità di ricorso al lavoro straordinario è stato utilizzato quale argomentazione ad abundantiam, pertanto non essenziale a sorreggere la decisione rispetto alle ragioni in precedenza esaminate.

In merito alla presunta ed immotivata esclusione lamentata dal lavoratore del rapporto causale tra la riconosciuta patologia da stress e la nefasta patologia tumorale, la Cassazione ha ricordato il proprio consolidato orientamento, in base al quale, nei giudizi in cui sia stata esperita c.t.u. medico-legale, qualora il giudice del merito si basi sulle conclusioni dell'ausiliare giudiziario, affinché i lamentati errori e lacune della consulenza tecnica determinino un vizio di motivazione della sentenza denunciabile in cassazione, è necessario che i relativi vizi logico-formali si concretizzino in una palese devianza dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni illogiche o scientificamente errate, con il relativo onere, a carico della parte interessata, di indicare le relative fonti, senza potersi la stessa limitare a mere considerazioni che si traducono in una inammissibile critica del convincimento del giudice di merito fondato, per l'appunto, sulla consulenza tecnica (1).

Nella specie la Corte territoriale si era avvalsa  degli accertamenti e delle valutazioni del consulente tecnico nominato nel corso del giudizio di primo grado, il quale aveva ritenuto, allo stato delle conoscenze, che non vi fosse alcuna evidenza scientifica ed empirica che uno stato depressivo, anche se protratto nel tempo, potesse determinare l'insorgenza di un processo tumorale.

Ad avviso della Corte di Appello non vi erano dunque elementi per sostenere che un evento stressante potesse essere all'origine di quelle complesse trasformazioni, a livello cellulare, che portano alla comparsa della malattia tumorale.

Alla luce delle ragioni evidenziate, la Corte di Cassazione ha confermato quanto stabilito nel giudizio di appello, disponendo la compensazione tra le parti delle spese processuali.

Valerio Pollastrini

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