Nella sentenza n.24989 del 6 novembre 2013 la Corte di
Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un’insegnante
per aver criticato pesantemente l’Istituto scolastico di appartenenza, ledendo così
la reputazione del datore di lavoro.
Il fatto
Il fatto
oggetto della pronuncia in commento è quello che ha riguardato un’insegnante di
scuola materna occupata presso un’ Istituto educativo di San Severo (Fg) che, in presenza di terzi,
aveva mosso una serie di critiche alla
gestione dell’Istituto e al grado di preparazione degli altri insegnanti,
consigliando ad alcuni genitori di
iscrivere altrove i figli.
Al termine dell’iter procedurale previsto per le
contestazioni disciplinari, la lavoratrice era stata licenziata.
Il Tribunale di Foggia, nel primo grado di giudizio,
aveva ritenuto illegittimo il recesso per
mancata affissione del codice disciplinare, con le conseguenze risarcitorie e
ripristinatorie previste dalla legge.
La Corte di Appello di Bari aveva successivamente
accolto il ricorso dell’Istituto educativo e, in riforma della sentenza di
primo grado, aveva ritenuto legittimo il recesso.
La Corte territoriale aveva deciso per la validità il
licenziamento in quanto irrogato per la violazione di doveri elementari del
lavoratore. Circostanze che rendevano, pertanto, irrilevante la mancata
affissione del codice disciplinare.
La contestazione che aveva preceduto l’atto di recesso, a detta
del giudice di Appello, doveva ritenersi specifica perché i fatti erano stati
chiaramente indicati, consentendo alla lavoratrice di esercitare adeguatamente
le proprie difese, nonostante nella lettera non fossero state indicate la data e le singole conversazioni nelle quali
sarebbero state mosse le critiche alla gestione dell’Istituto e alla
preparazione professionale dei suoi insegnanti.
L’esame dei testi , infine, aveva confermato la veridicità
dei fatti imputati alla dipendente nel pieno della loro gravità, risultando idonei
a provocare gravi danni al datore di lavoro.
La pronuncia della Cassazione
In seguito
alla pronuncia di Appello, la lavoratrice aveva ricorso per la cassazione della sentenza di
secondo grado, sostenendo che le frasi
ad essa attribuite non erano dirette a ledere la reputazione del datore di
lavoro e non violavano l’obbligo di fedeltà verso l’Istituto scolastico,
rappresentando, in realtà, solamente lo sfogo di una lavoratrice con un
genitore circa l’inadeguatezza dell’Istituto ed una legittima critica sulla
gestione datoriale.
In base alla tesi della ricorrente, le mancanze
contestatele non erano connaturate da una gravità così elevata da rendere superflua,
per la validità del recesso, l’affissione del codice disciplinare.
Le motivazioni addotte dalla lavoratrice sono state
ritenute infondate dalla Cassazione, che ha ricordato come dalla contestazione disciplinare,
risultata corretta dalle prove espletate, emergeva che l’insegnante, parlando
con alcuni genitori, aveva affermato che l’Istituto presso il quale lavorava
era notevolmente inadeguato e che le insegnanti erano didatticamente
impreparate sotto ogni profilo, suggerendo anche di iscrivere gli alunni
altrove. Al cospetto di terzi, la lavoratrice aveva inoltre sostenuto che il
Commissario straordinario dell’Istituto non era in grado di gestire alcunché e
che, con una telefonata a persone chi di dovere, lo si sarebbe potuto mettere a
tacere.
Per la Suprema Corte si tratta di comportamenti gravemente lesivi
del decoro nonché della reputazione dell’Istituto scolastico e del suo
Commissario straordinario che ne aveva la gestione, e la Corte territoriale li
aveva correttamente qualificati come
integranti una violazione dei doveri fondamentali di fedeltà e correttezza, che,
per la loro offensività e per i termini
utilizzati, in alcun modo potevano essere ricondotti ad una legittima critica all’operato
del datore di lavoro, tanto da culminare nel suggerimento ad alcuni genitori di
iscrivere altrove i loro figli, con potenziale gravissimo pregiudizio per
l’Istituto scolastico.
La Cassazione ha concluso affermando che inadempienze così plateali, gravi e radicalmente lesive del rapporto fiduciario
tra le parti non necessitavano di alcuna pubblicità del codice disciplinare,
essendo intuitivo per il lavoratore il dovere, derivante direttamente dalla
legge, di evitare simili comportamenti.Per i motivi sopra indicati la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della lavoratrice e, nel confermare la legittimità del licenziamento, ha condannato la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 2.550 € per compensi oltre accessori.
Valerio Pollastrini
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