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venerdì 19 dicembre 2014

Amianto – Decesso del lavoratore - Criteri per l’accertamento della responsabilità datoriale

Nella sentenza n.26590 del 17 dicembre 2014, la Corte di Cassazione ha ricordato che la responsabilità dell’imprenditore per il decesso del dipendente, provocato dall’inalazione delle polveri di amianto, discende dall’art.2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro l’obbligo di adottare  tutte le misure possibili per tutelare l’integrità fisica dei lavoratori.

Il caso di specie è quello di un lavoratore, alle dipendenze della stessa società  dal 7 maggio 1963 al 26 giugno 1987, che, riconosciuto affetto da mesotelioma pleurico in data 1998,  era deceduto il 16 marzo 1999.

La Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale del primo grado, aveva accolto la domanda proposta dagli eredi  nei confronti di detta società, tendente ad ottenere la condanna di quest'ultima al risarcimento, ex art.2087 c.c., dei danni da liquidarsi iure proprio ed iure hereditatis conseguenti all'evento che aveva colpito il proprio dante causa.

In particolare, la Corte del merito aveva condiviso la consulenza espletata nel corso del giudizio di secondo grado, secondo la quale il decesso del lavoratore era avvenuto a causa di mesotelioma pleurico maligno e non, a differenza di quanto affermato dal CTU di primo grado e condiviso dal Tribunale, in ragione di mesotelioma pericardico, ciò, sia per le manifestazioni clinico somatiche in vita, che non avevano mai evidenziato una patologia di pertinenza del cavo pericardio, sia per i rilievi autoptici che dimostravano una cavità pericardica completamente libera.

Relativamente al nesso di causalità tra l'attività lavorativa e la patologia lamentata, la Corte territoriale aveva osservato che:

-         le misure di protezione adottate dalla società non potevano considerasi sufficienti alla luce delle conoscenze tecniche del tempo;

-         i verbali che richiamavano l'accordo aziendale del 1977 rilevavano la conoscenza della pericolosità dell'amianto;

-         l’'esposizione derivava dalla natura delle mansioni svolte dal lavoratore.

Avverso questa sentenza,  la società aveva proposto ricorso per  Cassazione, deducendo, tra l’altro,  che la Corte del merito non avrebbe tenuto conto delle prestazioni precedentemente  svolte dal dipendente presso altri datori di lavoro.

Investita della questione, la Cassazione ha escluso che potesse attribuirsi rilievo decisivo al richiamo operato dalla società ricorrente alle attività lavorative prestate in precedenza dal de cuius presso altre aziende, atteso che in ordine a tali attività la relativa incidenza sulla patologia risultava meramente assertiva.

Relativamente al nesso di causalità tra la morte del lavoratore e l'esposizione alle polveri di amianto, la società aveva sostenuto che la Corte territoriale avrebbe, erroneamente,  fatto riferimento alla nozione di responsabilità oggettiva, ritenendo automaticamente sussistente la responsabilità risarcitoria  in assenza di un indagine istruttoria correlata alla vicenda lavorativa del dipendente.

Con altra censura, la società aveva poi lamentato che la Corte milanese avrebbe omesso di individuare la condotta positiva, che se posta in essere, avrebbe evitato il prodursi dell'evento.

Anche queste doglianze, sono state ritenute infondate dalla Cassazione.

Come ribadito anche di recente dalla Suprema Corte (1), la responsabilità dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art.2087 cc, la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell'esercizio dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori (2).

Inoltre, gli ermellini hanno rimarcato che la pericolosità della lavorazione dell'amianto risultava già nota in epoca ben anteriore all'inizio del rapporto di lavoro de quo.

Già il R.D. n.442 del 14 giugno 1909, nell’approvare il regolamento per il T.U. della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all'art.29, tabella B, n.12, aveva incluso la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri o pericolosi nei quali l'applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo.

D'altro canto l'asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta fin dai primi del '900 e fu inserita tra le malattie professionali con la Legge n.455 del 12 aprile 1943.

In epoca più recente, si deve ricordare il Regolamento n.1169 del 21 luglio 1960,  ove all'art.1  prevede, specificamente, che la presenza dell'amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di amianto tale da determinare il rischio alla salute.

D'altro canto l’imperizia, nella quale rientra la ignoranza delle necessarie conoscenze tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di lavoro.

Da quanto esposto, dunque, discende che, all'epoca di svolgimento del rapporto di lavoro del dante causa dei ricorrenti, fosse ben nota l'intrinseca pericolosità delle fibre dell'amianto.

Di conseguenza, l’azienda avrebbe dovuto adottare tutte le misure idonee a ridurre il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto, in relazione alla norma di chiusura di cui all'art.2087 cc ed all'art.21 del DPR n.303 del 19 marzo 1956, ove si stabilisce che nei lavori che diano normalmente luogo alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione".

Valerio Pollastrini

 
1)      - Cass., Sentenza n.13956/2012; Cass., Sentenza n.17092/2012;  Cass., Sentenza n.18626/2013;
2)      - v. fra le altre Cass., Sentenza n.6377/2003; Cass., Sentenza n.16645/2003;

Il lavoratore tenta di copiare o rubare modelli aziendali – Legittimo il licenziamento

Nella sentenza n.26744 del 18 dicembre 2014, la Corte di Cassazione, nel confermare la legittimità del licenziamento irrogato ad un lavoratore che aveva tentato di copiare o rubare dei modelli aziendali, si è soffermata sui criteri di analisi relativi alla specificità della contestazione disciplinare.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Bari aveva confermato la pronuncia con la quale il Tribunale del primo grado aveva rigettato la domanda proposta da un dipendente nei confronti della società ex datrice di lavoro, diretta alla declaratoria di illegittimità del licenziamento intimatogli in data 27 gennaio 2005, con ogni conseguenza sul piano reintegratorio e risarcitorio.

Nella premessa, la Corte del merito aveva ricordato che l’appellante, dipendente della predetta società dal 10 marzo 2001, con le mansioni di modellista, riconducibili al 6° livello del CCNL di settore, era stato prima sospeso per motivi disciplinari in data 30 dicembre 2004 e poi, in data 27 gennaio 2005, licenziato per aver tentato di sottrarre o ricopiare forma, modelli e disegni.

Ritenuto pienamente provato l’addebito, il giudice dell’appello aveva concluso per la  legittimità del licenziamento per giusta causa.

Avverso questa sentenza, il dipendente aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando, tra l’altro, l’illegittimità del recesso, in quanto non preceduto dalla specifica, preventiva contestazione dell’addebito, in violazione dell’art.7 della Legge n.300/1970 e dell’art.69 del C.C.N.L. applicabile ai dipendenti dell’industria calzaturiera.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondata la predetta censura, avendo la Corte territoriale, sulla base della acquisita documentazione ed in virtù di un’adeguata  motivazione, ritenuto "correttamente osservata la procedura ex art.7 della Legge n.300/70, con riferimento, in primis, al tasso di specificità di quanto contestato al lavoratore”.

Nello specifico, la preventiva e specifica contestazione dell’addebito, richiesta dallo Statuto dei Lavoratori, risultava contenuta nel telegramma inviato al lavoratore alle ore 11,25 della mattinata del 30 dicembre 2004, con il quale gli veniva contestata la "grave infrazione ... commessa ossia il tentativo di trafugamento di modelli di scarpe in fase di progettazione", tentativo posto in essere qualche ora prima della medesima mattinata.

Il licenziamento veniva quindi intimato con la nota del 27 gennaio 2005, spedita mediante la raccomandata del 28 gennaio 2005, certamente oltre i cinque giorni di legge, e, comunque, dopo che il lavoratore ricorrente aveva inoltrato le proprie controdeduzioni, con cui aveva negato le accuse addebitategli.

La Corte del merito, inoltre, aveva puntualizzato che, a causa dello stato di malattia, in cui versava il lavoratore nel periodo compreso tra il 25 gennaio 2005 ed il 26 febbraio 2005, come da certificazione medica recapitata il 29 gennaio 2005 alla società, quest’ultima aveva provveduto a comunicare al primo la sospensione dell’efficacia del licenziamento, che, cessato lo stato di malattia, era stato confermato mediante il telegramma del 28 febbraio 2005.

Quelle fin qui esposte, sono circostanze che, a detta degli ermellini, palesano l’inconsistenza delle doglianze mosse dal ricorrente in ordine alla genericità della contestazione, risultando i fatti oggetto di imputazione sufficientemente descritti nella documentazione inviatagli.

In proposito, la Cassazione ha rammentato che, per giurisprudenza consolidata, la previa contestazione dell'addebito, necessaria in funzione di tutte le sanzioni disciplinari, assolve allo scopo di consentire al lavoratore l'immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che risulta integrato quando siano fomite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt.2104 e 2105 cod. civ..

Ciò detto, la Suprema Corte ha ribadito che l'accertamento relativo al requisito della specificità della contestazione costituisce oggetto di un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità, salva la verifica di logicità e congruità delle ragioni esposte dal giudice di merito (1).

Rilevata la correttezza, sia nei termini che nelle modalità, della motivazione resa dalla Corte di Appello, la Cassazione ha conseguentemente concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini


1)      - ex plurimis, Cass., Sentenza n.7546/2006;

Reperibilità del lavoratore nei giorni festivi – Non sussiste il diritto al riposo compensativo

Nella sentenza n.26723 del 18 dicembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che la sola reperibilità, garantita dal dipendente nel giorno destinato al riposo settimanale, comporta unicamente il diritto ad un trattamento economico aggiuntivo, mentre, salvo specifiche previsioni contrattuali,  non comporta il diritto ad un giorno di riposo compensativo.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di Roma, confermando la sentenza del Tribunale di Cassino, aveva rigettato l’opposizione della ASL  avverso i decreti ingiuntivi emessi, su istanza di alcuni medici ed operatori sanitari, a titolo di differenze retributive relative ai giorni di riposo non goduto, avendo gli stessi prestato servizio di pronta reperibilità in giorni festivi.

Nel motivare la propria decisione, la Corte del merito aveva ricordato che  l'art.18 del DPR n.270/1987, richiamato dall'art.44, n.1, del CCNL del comparto sanità, così come l'art.20, n.6, del CCNL area dirigenza medica, prevedevano che, nel caso di coincidenza della pronta disponibilità con una giornata festiva, al dipendente spettasse un riposo compensativo senza riduzione dell'orario di servizio settimanale.

In virtù, della suddetta disciplina, pertanto, la Corte del merito aveva precisato che non si potesse  dubitare del diritto dei lavoratori ad ottenere la compensazione monetaria afferente la mancata fruizione del riposo compensativo nelle giornate di pronta reperibilità per cui era causa.

D'altro canto,  una diversa interpretazione  non avrebbe consentito ai dipendenti di beneficiare del previsto riposo compensativo, da ritenersi comunque irrinunciabile a noma dagli artt.36 Cost. e 2109 cc.

Avverso questa sentenza, la  ASL aveva proposto ricorso per Cassazione, e, deducendo violazione della disciplina contenuta nel Contratto Collettivo di riferimento, aveva chiesto alla Suprema Corte se la mancata fruizione del giorno di riposo compensativo potesse essere monetizzata.

Secondo quanto sostenuto dalla ricorrente,  i dipendenti non avrebbero mai chiesto di volere usufruire di un giorno di riposo compensativo.

Quale ultima censura, la Asl aveva lamentato, infine, che, secondo le richiamate norme contrattuali, la reperibilità prestata in giorno festivo non implicherebbe una prestazione lavorativa tale da confliggere con il principio dell'irrinunciabilità del diritto al riposo settimanale.

Investita della questione, la Cassazione, alla luce di uno specifico precedente della giurisprudenza  di legittimità (1), ha ritenuto fondate le predette doglianze.

Premesso che, nei casi di specie, il compenso era stato richiesto in assenza di prestazione lavorativa,  c.d. reperibilità passiva, gli ermellini hanno  rilevato che la giurisprudenza della Cassazione ha già più volte affrontato le tematiche sollevate in ricorso, osservando che la reperibilità, prevista dalla disciplina collettiva, si configura come una prestazione strumentale ed accessoria qualitativamente diversa dalla prestazione di lavoro, consistendo nell'obbligo del dipendente di porsi in condizione di essere prontamente rintracciato, fuori del proprio orario di lavoro, in vista di un'eventuale prestazione.

Conseguentemente, il servizio di reperibilità svolto nel giorno destinato al riposo settimanale limita soltanto, senza escluderlo del tutto, il godimento del riposo stesso e comporta il diritto ad un particolare trattamento economico aggiuntivo stabilito dalla contrattazione collettiva o, in mancanza, determinato dal giudice, mentre non comporta, salvo specifiche previsioni, il diritto ad un giorno di riposo compensativo, il cui riconoscimento, attesa la diversa incidenza sulle energie psicofisiche del lavoratore della disponibilità allo svolgimento della prestazione rispetto al lavoro effettivo, non può trarre origine dall'art.36 della Costituzione, ma la cui mancata concessione è idonea ad integrare un'ipotesi di danno non patrimoniale  da fatto illecito o da inadempimento contrattuale, che è risarcibile in caso di pregiudizio concreto patito dal titolare dell'interesse leso, sul quale grava, però, l'onere della specifica deduzione e della prova (2).

Rilevando come l’impugnata sentenza si fosse discostata dai suddetti principi, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini


1)      – Cass., Sentenza n.9316/2014;
2)      - Cfr., ex plurimis, Cass., Sentenze nn.27477/2008; 14439/2011; 14288/2011; 11727/2013;

Le novità attese per licenziamenti, contratti a tutele crescenti e disoccupazione

Dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del c.d. Jobs Act, sono iniziate in questi giorni le discussioni sui provvedimenti con i quali il Governo è chiamato ad esercitare le deleghe conferitegli per riformare il sistema lavoro.

Particolarmente acceso il confronto sui licenziamenti. Dalle prime voci sembra che nella nozione di giustificato motivo oggettivo di recesso potrebbe rientrare anche la fattispecie dello “scarso rendimento”.

Per quanto riguarda i licenziamenti disciplinari si va, invece, verso un mini-restyling della Legge Fornero.  Il reintegro nel posto di lavoro sarà possibile solo nei casi di “non sussistenza del fatto materiale”.

Sempre sul fronte dei licenziamenti disciplinari, è allo studio la possibilità di introdurre la clausola di “opting out”, che consentirà alle imprese di pagare, in ogni caso, un indennizzo al posto del reintegro.

Per quanto riguarda le piccole imprese, sembra ormai certo il dimezzamento  degli importi degli indennizzi,  sempre entro il tetto delle 6 mensilità.

L'addio al reintegro interesserà i licenziamenti per motivi economici ed organizzativi, tra i quali, come detto, sarà inserito  anche lo scarso rendimento.

Tra i nodi ancora  da sciogliere, vi è quello dell'esenzione fiscale per l'indennizzo nella fase di conciliazione standard, che, si ricorda, può variare da una mensilità fino ad un massimo di 16.

Nessuna indiscrezione è trapelata, invece, sul fronte dei licenziamenti collettivi, a proposito dei quali l’impegno assunto dal Governo  quello di superare l’impianto della Legge n.223/1991.

Passando ora alle altre misure,  i tecnici di Palazzo Chigi e quelli del Ministero del Lavoro stanno approntando in queste ore  una bozza definitiva del Decreto contenente la nuova disciplina del contratto a tutele crescenti.

Sarebbero ancora numerosi, invece, i dettagli da definire  prima della redazione del  Decreto Aspi. Secondo l’ipotesi circolata in questi giorni, alla nuova Aspi, di durata crescente fino a 24 mesi, si potrebbe accedere anche con sole 13 settimane di contratto, ovvero la soglia attualmente prevista per la mini-Aspi.

Se confermato, un simile provvedimento estenderebbe notevolmente la platea dei lavoratori beneficiari delle tutele previste per la perdita del posto.

Quasi certamente, le aliquote di contribuzione rimarranno immutate (1), tuttavia, resta da chiarire se con la nuova disciplina della disoccupazione verranno finalmente armonizzate  le diverse aliquote oggi previste nei vari settori produttivi.

Valerio Pollastrini

 
1)      - 1,31% e maggiorazione dell'1,4% per i contratti a termine;

Sgravi contributivi legati a nuove assunzioni – Incremento occupazionale netto

Nell’Interpello n.34 del 17 dicembre 2014, il Ministero del Lavoro ha fornito i chiarimenti sollecitati dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro in ordine al requisito dell’“incremento occupazionale netto” quale condizione necessaria per fruire di sgravi contributivi legati alle nuove assunzioni.

In particolare, l’istante aveva chiesto “se in tutte le ipotesi di concessione di benefici previsti dalla legislazione nazionale, ai fini della maturazione del diritto, l’incremento occupazionale dei 12 mesi successivi all’assunzione agevolata possa essere verificata, tenendo in considerazione l’effettiva forza occupazionale media al termine del periodo dei 12 mesi, e non la forza lavoro stimata al momento dell’assunzione”.

Nella premessa, l’Ente interpellato ha ricordato che, ai fini della fruizione degli sgravi contributivi per nuove assunzioni, le più recenti disposizioni di legge richiedono che la nuova assunzione determini un incremento occupazionale netto (1).

Il Ministero ha proseguito riepilogando i contenuti della disciplina comunitaria in materia, nonché le relative interpretazioni fornite dalla Corte di Giustizia.

Per quanto concerne la prima:

-         il punto 17 degli Orientamenti in materia di aiuti all’occupazione (2), recita testualmente:  “(...) è opportuno precisare che per creazione di posti di lavoro deve intendersi creazione netta, vale a dire comportante almeno un posto supplementare rispetto all’organico (calcolato come media su un certo periodo) dell’impresa in questione. La semplice sostituzione di un lavoratore senza ampliamento dell’organico, e quindi senza creazione di nuovi posti di lavoro, non rappresenta una creazione effettiva di occupazione”;

-         secondo la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato alle piccole e medie imprese (3), il “numero di dipendenti occupati è calcolato in unità di lavoro-anno (ULA) ed è pari al numero di dipendenti a tempo pieno durante un anno, conteggiando il lavoro a tempo parziale o il lavoro stagionale come frazioni di ULA”.

Per la risoluzione della questione,  tuttavia, è necessario richiamare  la sentenza della Corte di Giustizia del 2 aprile 2009, relativa al procedimento n.C 415/07, allorché ha espressamente stabilito che “gli Orientamenti in materia di aiuti a favore dell’occupazione devono essere interpretati, per quanto attiene alla verifica della sussistenza di un aumento del numero di posti di lavoro, nel senso che si deve porre a raffronto il numero medio di ULA dell’anno precedente all’assunzione con il numero medio di ULA dell’anno successivo all’assunzione”.

Il principio espresso dalla predetta sentenza della Corte di Giustizia conduce  alla conclusione secondo cui l’impresa deve verificare l’effettiva forza lavoro presente nei 12 mesi successivi l’assunzione agevolata e non una occupazione “stimata” e dunque teorica.

Pertanto, in tutte le ipotesi di concessione di benefici previsti dalla legislazione nazionale, ai fini della maturazione del diritto, l’incremento occupazionale dei 12 mesi successivi all’assunzione agevolata va verificato tenendo in considerazione l’effettiva forza occupazionale media al termine del periodo dei 12 mesi e non la forza lavoro “stimata” al momento dell’assunzione.

Di conseguenza, i benefici potranno essere fruiti:

-         sin dal momento dell’assunzione, qualora dal calcolo stimato della forza occupazionale dei 12 mesi successivi emerga un incremento (4), salvo verificare la legittimità del beneficio al termine del periodo stesso;

-         al termine dei 12 mesi qualora il datore di lavoro verificasse, solo in quel momento, l’incremento occupazionale effettivo.

Alla luce della predetta analisi del quadro normativo di riferimento, il Ministero ha concluso osservando che, qualora al termine dell’anno successivo all’assunzione si riscontri un incremento occupazionale netto in termini di ULA, l’incentivo va riconosciuto per l’intero periodo previsto e le quote mensili eventualmente già godute si “consolidano”; in caso contrario, l’incentivo non può essere riconosciuto e occorre procedere al recupero di tutte le quote di incentivo eventualmente già godute.

Valerio Pollastrini

 
1)      - v. art.4, commi 8-11, della Legge n.92/2012 ed art.1, comma 3, del D.L. n.76/2013, conv. dalla Legge n.99/2013;
2)      - G.U. 1995, C 334, pag. 4;
3)      - G.U. 1996, C 213, pag. 4), alla nota a piè di pag. 8, punto 3.2;
4)      - v. INPS circ. n.111/2013;

Perdere il lavoro esclude la condanna per il mancato mantenimento della ex

Nella sentenza n.5239/2014, la Corte di Cassazione ha precisato che la perdita del lavoro a causa della crisi è una circostanza sufficiente ad impedire la condanna per il mancato versamento dell'assegno di mantenimento all'ex moglie.

Nella pronuncia in commento, infatti, la Suprema Corte ha sottolineato che, in simili casi, il giudice è chiamato a valutare se il mancato pagamento dell’assegno divorzile sia dovuto ad una precisa volontà e non, invece, ad un peggioramento delle condizioni economiche.

Il caso di specie è quello di un uomo condannato ad un mese di reclusione dalla Corte di Appello per non aver versato il mantenimento alla ex moglie per oltre un anno.

Nel ricorrere in Cassazione, l’uomo aveva censurato l’impugnata sentenza per non aver considerato il suo stato di indigenza, sopraggiunto in seguito alla perdita del lavoro.

Investiti della questione, gli ermellini hanno chiarito che il verdetto pronunciato dalla Corte di Appello risultava basato su una motivazione irragionevole.

Nello specifico, i giudici del merito avevano ritenuto semplicemente non credibile che per oltre un anno l'uomo non fosse stato in grado di adempiere, neppure parzialmente, al suo dovere.

Nel rimarcare l’illogicità di tale assunto, anche in considerazione dell’attuale crisi economica, la Cassazione ha precisato che,  in caso di separazione, il reato previsto dall'art.570, comma 1, del Codice Penale può configurarsi solo quando venga accertato che l'omissione sia scaturita dalla precisa volontà di negare che esista un obbligo di assistenza. Solo in tal caso, dunque, la condotta va considerata contraria all'ordine e alla morale della famiglia.

La Suprema Corte ha proseguito osservando che, poiché l’assegno di mantenimento assolve alla funzione di  assicurare all’ex coniuge lo stesso tenore di vita goduto durante il matrimonio, sarebbe del tutto irragionevole non esaminare, ai fini dell'accertamento del reato, se il soggetto obbligato abbia subìto variazioni di reddito tali da poter incidere proprio sul tenore di vita. Ciò anche in virtù del fatto che la coppia avrebbe risentito  di detto eventuale peggioramento anche se fosse stata ancora sposata.

Posta la questione in questi termini, appare chiaro come la perdita del posto di lavoro possa determinare quella condizione di disagio che, se verificata, risulta sufficiente ad escludere la condanna del ricorrente.

Valerio Pollastrini

mercoledì 17 dicembre 2014

Borse di studio per corsi universitari di laurea e post-lauream

Con il Comunicato dell’11 dicembre 2014, l’Inps ha reso nota la pubblicazione del bando di concorso per l’accesso a 5.250 borse di studio stanziate per co-finanziare i corsi universitari di laurea e post lauream.

Il concorso, per partecipare al quale c’è tempo fino alle ore 12 del 30 dicembre 2014, è riservato  ai figli o orfani ed equiparati:

-         dei dipendenti della pubblica amministrazione iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali;

-         dei pensionati della pubblica amministrazione utenti della Gestione Dipendenti Pubblici;

-          dei dipendenti iscritti alla Gestione Assistenza Magistrale.

Per avere accesso al bando è necessario entrare nella  sezione “Avvisi e Concorsi”, dedicata alle Iniziative Welfare, osservando la procedura: Home > Avvisi e Concorsi > Iniziative Welfare > Formazione Welfare > Borse Di Studio > Bandi Attivi.

Nella nota, l’Inps ha ricordato che la domanda di partecipazione dovrà essere inoltrata esclusivamente in via telematica.

Valerio Pollastrini

Part-Time: va compensata la disponibilità del dipendente alla chiamata del datore di lavoro

Nella sentenza n.23600 del 5 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, in caso di lavoro part-time, a fronte del potere unilaterale della parte datoriale di fissare le modalità temporali della prestazione pattuita, non può non trovare adeguato compenso la disponibilità del dipendente alla chiamata dell’azienda.

Nel caso di specie, il Tribunale di Genova aveva rigettato la domanda con la quale un dipendente aveva contestato legittimità del contratto di lavoro part-time concluso con la società datrice di lavoro ed aveva chiesto la condanna della medesima al risarcimento del danno per la disponibilità prestata a svolgere servizio a richiesta dell’azienda, pur in mancanza di una precisa predeterminazione della distribuzione dell’orario di lavoro, dal momento che questa riguardava solo il 30% del minimo dell’orario previsto.

Successivamente, però, la Corte di Appello del capoluogo ligure, accolta l’impugnazione proposta dal lavoratore, aveva  condannato la società resistente al pagamento di una somma pari alla metà della differenza tra la retribuzione spettante per un orario di lavoro a tempo pieno e quella percepita per il periodo compreso tra il 17 novembre 1989 e l’entrata in vigore del ccnl del 1995, che prevedeva una maggiore specificazione dell'orario di lavoro.

La Corte del merito, in particolare, aveva affermato come, a fronte del potere unilaterale della parte datoriale di fissare le modalità temporali della prestazione pattuita nel regime contrattuale a tempo parziale, non potesse non trovare adeguato compenso la disponibilità del dipendente alla chiamata dell’azienda.

Contro questa sentenza, la  società aveva proposto ricorso per Cassazione, lamentando che, nel valutare gli effetti della mancata prestazione dell’attività lavorativa a seguito di specifica "chiamata" della parte datoriale, la Corte di Appello non avrebbe considerato che l’inadempimento contrattuale imputabile al dipendente avrebbe potuto configurarsi esclusivamente nei casi di qualificata, reiterata ed ingiustificata mancanza di prestazione. Inoltre, secondo tale assunto difensivo, la Corte non avrebbe valutato quest’ultima circostanza, rilevante ai fini della decisione.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto infondata la doglianza predetta.

Innanzitutto, gli ermellini hanno rilevato che la Corte del merito era pervenuta al convincimento della rilevanza negoziale della disponibilità offerta dal lavoratore di eseguire prestazioni "a chiamata" proprio alla stregua della lettura delle circostanze di fatto esposte dalla difesa dell’appellata nella memoria difensiva.

Invero, la Corte territoriale aveva evidenziato come, in tale atto, fossero indicate le concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa all’oggetto del contratto, dopodiché, aveva rafforzato il proprio convincimento sull’assunzione da parte del dipendente dell’obbligazione di rendersi disponibile anche per le chiamate effettuate in via d’urgenza alla luce del dato letterale della norma collettiva in esame.

Infatti, questa prevedeva espressamente la responsabilità da inadempienza contrattuale del lavoratore a tempo parziale che, senza sufficiente giustificazione e ripetutamente, non effettuava la prestazione richiestagli o si rendeva di fatto irreperibile.

Tra l’altro, la Corte ligure si era attenuta al principio, già affermato dalla Suprema Corte, in base al quale, a fronte del potere unilaterale del datore di lavoro di fissare le modalità temporali della prestazione pattuita, la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, pur non potendosi equiparare a lavoro effettivo, deve, comunque, trovare adeguato compenso, tenendo conto di un complesso di circostanze a tal fine significative, quali l'incidenza sulla possibilità di attendere ad altre attività, il tempo di preavviso previsto o di fatto osservato per la richiesta di lavoro "a comando", l'eventuale quantità di lavoro predeterminata in misura fissata e la convenienza dello stesso lavoratore a concordare di volta in volta le modalità della prestazione (1).

Per tali ragioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini


1)      - Cass., Sentenza n.24566/2009;

Malattie professionali - Principio di equivalenza causale

Nella sentenza n.23990 dell’11 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che, nel verificare la riconducibilità di un evento morboso alle condizioni lavorative, il giudice del merito, ove alle risultanze della Ctu siano state mosse specifiche censure sul piano della validità scientifica,  è tenuto a verificare il fondamento della domanda sulla base delle proprie cognizioni, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici.

Nel caso di specie, la Corte di Appello di L'Aquila, confermando la sentenza del Tribunale di Chieti, aveva rigettato la domanda proposta dall’erede di un lavoratore deceduto, avente ad oggetto la condanna dell’Inail alla costituzione della rendita superstiti, sul presupposto dell'esistenza di un nesso  concausale tra la morte del de cuius ed un infortunio da questi subito in azienda.

In particolare, la Corte del merito aveva motivato la propria decisione in base alle risultante della disposta Ctu, che aveva escluso che la morte del dante causa della ricorrente fosse rapportabile, neanche in via minima e concausale o semplicemente accelerativa, all'epotapatia da virus C, probabilmente contratta in occasione del trattamento dell'infortunio lavorativo subito dal predetto de cuius.

Avverso questa sentenza, la donna aveva proposto ricorso per  Cassazione, lamentando che la Corte territoriale non avrebbe applicato il principio di equivalenza causale e non avrebbe, altresì, tenuto conto delle critiche, basate sulla letteratura scientifica, mosse dalle consulenze di parte alla Ctu, relativamente alla sussistenza di un nesso causale tra infezione da HCV, epatite C, epatocarcinoma e linfoma non Hodgkin in termini di elevata probabilità.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto fondata la predetta censura.

Gli ermellini hanno ricordato, infatti, il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui,  anche nella materia degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, trova diretta applicazione la regola contenuta nell'art.41 c.p., che dispone che  il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio dell'equivalenza delle condizioni,  per cui l'efficienza causale va riconosciuta ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, mentre solamente se possa essere con certezza ravvisato l'intervento di un fattore estraneo all'attività lavorativa, che sia per sé sufficiente a produrre l'infermità tanto da far degradare altre evenienze a semplici occasioni, deve escludersi l'esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge (1).

Più volte, inoltre, la Suprema Corte ha avuto modo di rimarcare che nei giudizi in cui sia stata esperita CTU medico-psichiatrica, il giudice del merito, nell'aderire alle conclusioni dell'accertamento peritale, non può, ove all'elaborato siano state mosse specifiche e precise censure, limitarsi al mero richiamo alle conclusioni del consulente, ma è tenuto - sulla base delle proprie cognizioni scientifiche, ovvero avvalendosi di idonei esperti e ricorrendo anche alla comparazione statistica per casi clinici - a verificare il fondamento, sul piano scientifico, di una consulenza che presenti devianze dalla scienza medica ufficiale e che risulti, sullo stesso piano della validità scientifica, oggetto di plurime critiche e perplessità da parte del mondo accademico internazionale, dovendosi escludere la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare (2)

Tornando al caso di specie, la Cassazione ha osservato che la Corte del merito, a fronte delle critiche mosse alle conclusioni della CTU, nelle quali era stato evidenziato  come dai più recenti studi scientifici internazionali fosse emerso che i linfomi non Hogdkin rappresentano le manifestazioni extra epatiche correlate con maggiore sicurezza al virus dell'epatite C., si era limitata ad un mero richiamo delle conclusioni del Consulente tecnico d'ufficio.

Da una simile condotta, pertanto, erano scaturiti sia un difetto di motivazione della sentenza impugnata, che una violazione del  principio dell'equivalenza delle condizioni di cui all'art.41 c.p.

Per tali ragioni, gli ermellini hanno cassato la sentenza impugnata, rinviando la questione alla Corte di Appello di Roma.

Valerio Pollastrini

1)      - per tutte V. Cass., Sentenza n.8033 del 3 giugno 2002  e Cass., Sentenza n.15107 del 18 luglio 2005;
2)      - Cass., Sentenza n.7041 del 20 marzo 2013;

Madri lavoratrici: Voucher INPS per baby-sitter o asili nido

Con la Circolare n.169 del 16 dicembre 2014, l’Inps ha diramato  le ultime istruzioni che consentono alle madri lavoratrici di fruire, in alternativa al congedo parentale, dei voucher o del contributo per l’acquisto di servizi di baby-sitting o  per fare fronte ai costi degli asili nido.

Le lavoratrici potranno richiedere all’Istituto la prestazione in commento entro gli undici mesi successivi alla scadenza del congedo di maternità.

Per l’acquisto dei servizi di baby sitting, l’Inps erogherà la prestazione sotto forma di voucher, mentre per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati, l’Istituto corrisponderà un contributo economico.

I soggetti beneficiari delle misure predette sono, esclusivamente, le madri lavoratrici aventi diritto al congedo parentale, dipendenti pubbliche e private, quelle parasubordinate, titolari di un contratto di collaborazione, anche a progetto, oppure iscritte alla Gestione Separata.

Sono, invece, escluse dal beneficio in commento:

-         le lavoratrici autonome iscritte ad altra gestione;

-         le lavoratrici esentate totalmente dal pagamento della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati convenzionati;

-         le lavoratrici che usufruiscono dei benefici di cui al Fondo per le Politiche relative ai diritti ed alle pari opportunità.

Il contributo mensile ammonta ad un importo massimo di 600,00 euro, riproporzionato in caso di lavoro part-time.

Per l’acquisto dei servizi di baby sitting, l’INPS consegnerà alla lavoratrice madre 600,00 euro in voucher per ogni mese di congedo parentale al quale la stessa abbia rinunciato.

Il contributo per la fruizione della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi privati accreditati verrà erogato, invece, attraverso il pagamento diretto da parte dell’INPS alla struttura prescelta dalla lavoratrice madre.

In caso di parto gemellare, la Circolare ha precisato che il contributo spetta in misura intera per ogni figlio e che, inoltre, sarà possibile accedere al beneficio anche in caso di fruizione parziale del congedo parentale.

Valerio Pollastrini

Aumenti in vista per i lavoratori della Pesca

Siglato il nuovo contratto collettivo nazionale della “Pesca” per il periodo 2014-2016.

L’accordo, raggiunto  lo scorso 15 dicembre tra Federpesca e le delegazioni  di Fai, Flai e Uilapesca, prevede un aumento salariale del 5,8% per i 24mila dipendenti del settore, un incremento della formazione professionale per la sicurezza, nonché  la certificazione delle ore di lavoro notturno.

Gli aumenti retributivi saranno corrisposti  in due tranche, la prima, del 3,5%, a decorrere dal 1° gennaio 2015, la seconda, del 2,3%, ad inizio 2016.

Sul fronte dei compensi, si registra, inoltre, l’aumento, da 14 a 16 euro, dell'indennità giornaliera aggiuntiva per il lavoro svolto nei giorni festivi.

Tra le modifiche, si segnala poi l’incremento delle ore di formazione sulla sicurezza, che passano da 12 a 16. Sempre nell’ambito formativo, i permessi retribuiti per consentire ai lavoratori di partecipare a corsi di formazione e riqualificazione professionale passano da 30 a 36 ore.

Di particolare interesse,  l'impegno assunto dalle parti per definire una certificazione delle ore di lavoro notturno svolto dagli imbarcati, finalizzato al riconoscimento della pesca tra i lavori usuranti.

Scendono, infine, da 24 a 20 i mesi necessari al lavoratore imbarcato come mozzo per acquisire la qualifica di marinaio.

Valerio Pollastrini

Retroattivo il bonus per la “Garanzia Giovani”

Con il Decreto Direttoriale n.63/2014, il Ministero del Lavoro ha disposto che il  bonus sulla “Garanzia Giovani” spetta, con effetto retroattivo, anche per le assunzioni effettuate dallo scorso 1° maggio.

Con questo intervento, il Ministero ha rettificato, pertanto,  il precedente Decreto Direttoriale n.1709/2014, che aveva delimitato l’ambito di operatività dell’incentivo in commento alle assunzioni intercorse tra il 3 ottobre 2014 ed il 30 giugno 2017.

Entro i prossimi 15 giorni, l’Inps dovrà emanare le istruzioni che consentiranno ai datori di lavoro interessati di presentare la relativa domanda.

Giova ricordare che il bonus, che verrà erogato nel limite complessivo di spesa di 188.755.343,66 €, spetta in caso di assunzione  a tempo indeterminato o a termine, purché di durata non inferiore a sei mesi, ad eccezione delle Regioni Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Puglia, nelle quali verrà concesso solamente in caso di assunzione a tempo indeterminato.

Il bonus, inoltre, verrà erogato anche per l’instaurazione di rapporti di lavoro  dei soci di cooperativa, nonché per quelli  part-time, purché di orario non inferiore al 60% di quello ordinario.

Valerio Pollastrini

lunedì 15 dicembre 2014

Classificazione Inail in base all’attività principale

Nella sentenza n.25020 del 25 novembre 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, nel caso in cui un’impresa svolga diverse attività, per la classificazione delle lavorazioni, finalizzata alla determinazione del premio assicurativo, l’Inail dovrà fare riferimento  a quella principale ogni qualvolta  le altre risultino ad essa complementari e/o sussidiarie per la realizzazione  delle finalità aziendali.

Valerio Pollastrini

La strategia dell’Unione Europea sul fronte della sicurezza sul lavoro

Nel corso del seminario internazionale promosso a Roma dall’Inail e dal Ministero del Lavoro, i rappresentanti delle istituzioni e delle organizzazioni sindacali europee  hanno discusso del piano predisposto dalla Commissione Ue per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali per il periodo 2014-2020.

Stando ai risultati di un’indagine di “Eurobarometro”, pubblicata lo scorso aprile, l’85% dei lavoratori europei ha espresso un elevato livello di soddisfazione sulle condizioni di salute e sicurezza approntate nei rispettivi impieghi.

Tuttavia, nei Paesi europei sono circa quattromila le morti causate ogni anno dagli infortuni sul lavoro e 160mila sono  quelle provocate da patologie lavoro correlate, mentre le vittime di incidenti gravi sono  più di tre milioni.

Per affrontare questo scenario, è stato delineato un nuovo quadro strategico,  basato, in continuità con il passato, su un programma di azione pluriennale.

Nel dettaglio, sono stati individuati sette  obiettivi, a partire dall’ulteriore consolidamento delle strategie nazionali in materia di salute e sicurezza, attraverso, ad esempio, il coordinamento delle politiche e dell’apprendimento reciproco, nonché da un sostegno concreto alle piccole e micro imprese, per aiutarle a soddisfare meglio le norme di riferimento.

In questo ambito, in particolare,  uno strumento di sicura utilità è rappresentato dalla piattaforma web “OiRA” (1), che semplifica le procedure di valutazione dei rischi da parte delle aziende.

Per eliminare  eventuali oneri amministrativi inutili, la nuova strategia europea prospetta, invece, una semplificazione della legislazione esistente,  salvaguardando,  al contempo, un elevato  livello  di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori.

Oltre ad affrontare sia rischi attuali che quelli emergenti, relativi ai nanomateriali, alle tecnologie verdi e biotecnologie, è stata poi sottolineata la necessità di affrontare il tema dell’invecchiamento della forza lavoro, nonché quella di migliorare la prevenzione delle malattie professionali.

Gli ultimi due obiettivi, nello specifico, riguardano l’estensione e l’armonizzazione della raccolta dei dati statistici, al fine di ottenere migliori elementi di prova e sviluppare strumenti di monitoraggio, a cui va aggiunto il rafforzamento del coordinamento con le organizzazioni internazionali come l’Oil (2), l’Oms (3) e l’Ocse (4).

Per garantire sempre più elevati livelli di qualità, sicurezza ed equità sul lavoro, attraverso  un approccio coerente e lungimirante alle condizioni di lavoro nell’Ue,   è stato auspicato un maggior coinvolgimento delle parti sociali, unitamente alle quali gli Stati membri,  compiuta una  valutazione delle 24 Direttive esistenti in materia di sicurezza, sono stati invitati ad avviare nuove iniziative.

Un ruolo centrale per il coordinamento delle azioni intraprese da ogni Stato  è quello svolto dall’Agenzia Europea per la Salute e la Sicurezza sul Lavoro, l’Eu–Osha, operativa anche attraverso la rete dei suoi punti focali nazionali, tra i quali, per l’Italia,  l’Inail.

In particolare, il  ruolo di questa Agenzia  è quello di offrire un supporto tecnico  alle piccole e medie imprese e di sviluppare progetti  in cui sia stata riscontrata la necessità di un sostegno.

Pur non erogando fondi, infatti, Eu-Osha realizza delle guide per accedere ai finanziamenti disponibili e contribuisce a pubblicizzare le buone prassi, anche in riferimento a specifiche categorie di lavoratori come donne, giovani e disabili.

Altro aspetto rilevante sul quale si è posta  l’attenzione è quello dell’importanza delle ispezioni, ritenute essenziali per l’applicazione delle misure a tutela della salute e della sicurezza.

A questo proposito, gli ispettori del lavoro sono stati invitati ad utilizzare “il linguaggio” degli imprenditori, fornendo  loro la consulenza utile per sensibilizzarli sul rispetto della prevenzione.

Valerio Pollastrini

 
1)      - Online interactive risk assessment;
2)      - Organizzazione Internazionale del lavoro;
3)      - Organizzazione Mondiale della sanità;
4)      - Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico;