Il
caso di specie è quello di un lavoratore, alle dipendenze della stessa società dal 7 maggio 1963 al 26 giugno 1987, che, riconosciuto
affetto da mesotelioma pleurico in data 1998,
era deceduto il 16 marzo 1999.
La
Corte di Appello di Milano, riformando la sentenza del Tribunale del primo
grado, aveva accolto la domanda proposta dagli eredi nei confronti di detta società, tendente ad
ottenere la condanna di quest'ultima al risarcimento, ex art.2087 c.c., dei
danni da liquidarsi iure proprio ed iure hereditatis conseguenti all'evento
che aveva colpito il proprio dante causa.
In
particolare, la Corte del merito aveva condiviso la consulenza espletata nel
corso del giudizio di secondo grado, secondo la quale il decesso del lavoratore
era avvenuto a causa di mesotelioma pleurico maligno e non, a differenza di
quanto affermato dal CTU di primo grado e condiviso dal Tribunale, in ragione
di mesotelioma pericardico, ciò, sia per le manifestazioni clinico somatiche in
vita, che non avevano mai evidenziato una patologia di pertinenza del cavo
pericardio, sia per i rilievi autoptici che dimostravano una cavità pericardica
completamente libera.
Relativamente
al nesso di causalità tra l'attività lavorativa e la patologia lamentata, la
Corte territoriale aveva osservato che:
-
le
misure di protezione adottate dalla società non potevano considerasi
sufficienti alla luce delle conoscenze tecniche del tempo;
-
i
verbali che richiamavano l'accordo aziendale del 1977 rilevavano la conoscenza
della pericolosità dell'amianto;
-
l’'esposizione
derivava dalla natura delle mansioni svolte dal lavoratore.
Avverso
questa sentenza, la società aveva
proposto ricorso per Cassazione, deducendo,
tra l’altro, che la Corte del merito non
avrebbe tenuto conto delle prestazioni precedentemente svolte dal dipendente presso altri datori di
lavoro.
Investita
della questione, la Cassazione ha escluso che potesse attribuirsi rilievo
decisivo al richiamo operato dalla società ricorrente alle attività lavorative
prestate in precedenza dal de cuius presso altre aziende, atteso che in ordine
a tali attività la relativa incidenza sulla patologia risultava meramente
assertiva.
Relativamente
al nesso di causalità tra la morte del lavoratore e l'esposizione alle polveri
di amianto, la società aveva sostenuto che la Corte territoriale avrebbe,
erroneamente, fatto riferimento alla
nozione di responsabilità oggettiva, ritenendo automaticamente sussistente la
responsabilità risarcitoria in assenza
di un indagine istruttoria correlata alla vicenda lavorativa del dipendente.
Con
altra censura, la società aveva poi lamentato che la Corte milanese avrebbe
omesso di individuare la condotta positiva, che se posta in essere, avrebbe
evitato il prodursi dell'evento.
Anche
queste doglianze, sono state ritenute infondate dalla Cassazione.
Come
ribadito anche di recente dalla Suprema Corte (1), la responsabilità
dell’imprenditore per la mancata adozione delle misure idonee a tutelare
l’integrità fisica del lavoratore discende o da norme specifiche o, quando
queste non siano rinvenibili, dalla norma di ordine generale di cui all’art.2087
cc, la quale impone all’imprenditore l’obbligo di adottare nell'esercizio
dell’impresa tutte quelle misure che, secondo la particolarità del lavoro in
concreto svolto dai dipendenti, si rendano necessarie a tutelare l’integrità
fisica dei lavoratori (2).
Inoltre,
gli ermellini hanno rimarcato che la pericolosità della lavorazione
dell'amianto risultava già nota in epoca ben anteriore all'inizio del rapporto
di lavoro de quo.
Già
il R.D. n.442 del 14 giugno 1909, nell’approvare il regolamento per il T.U.
della legge per il lavoro delle donne e dei fanciulli, all'art.29, tabella B,
n.12, aveva incluso la filatura e tessitura dell'amianto tra i lavori insalubri
o pericolosi nei quali l'applicazione delle donne minorenni e dei fanciulli era
vietata o sottoposta a speciali cautele, con una specifica previsione dei
locali ove non era assicurato il pronto allontanamento del pulviscolo.
D'altro
canto l'asbestosi, malattia provocata da inalazione da amianto, era conosciuta
fin dai primi del '900 e fu inserita tra le malattie professionali con la Legge
n.455 del 12 aprile 1943.
In
epoca più recente, si deve ricordare il Regolamento n.1169 del 21 luglio
1960, ove all'art.1 prevede, specificamente, che la presenza
dell'amianto nei materiali di lavorazione possa dar luogo, avuto riguardo alle
condizioni delle lavorazioni, ad inalazione di polvere di silice libera o di
amianto tale da determinare il rischio alla salute.
D'altro
canto l’imperizia, nella quale rientra la ignoranza delle necessarie conoscenze
tecnico-scientifiche, è uno dei parametri integrativi al quale commisurare la
colpa, e non potrebbe risolversi in esimente da responsabilità per il datore di
lavoro.
Da
quanto esposto, dunque, discende che, all'epoca di svolgimento del rapporto di
lavoro del dante causa dei ricorrenti, fosse ben nota l'intrinseca pericolosità
delle fibre dell'amianto.
Di
conseguenza, l’azienda avrebbe dovuto adottare tutte le misure idonee a ridurre
il rischio connaturale all'impiego di materiale contenente amianto, in
relazione alla norma di chiusura di cui all'art.2087 cc ed all'art.21 del DPR n.303
del 19 marzo 1956, ove si stabilisce che nei lavori che diano normalmente luogo
alla formazione di polveri di qualunque specie, il datore di lavoro è tenuto ad
adottare provvedimenti atti ad impedire o ridurre, per quanto è possibile, lo
sviluppo e la diffusione nell'ambiente di lavoro, soggiungendo che "le misure da adottare a tal fine devono
tenere conto della natura delle polveri e della loro concentrazione".
Valerio
Pollastrini
1)
-
Cass., Sentenza n.13956/2012; Cass., Sentenza n.17092/2012; Cass., Sentenza n.18626/2013;
2)
-
v. fra le altre Cass., Sentenza n.6377/2003; Cass., Sentenza n.16645/2003;
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