Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


giovedì 17 luglio 2014

Aspi: rifiutare un lavoro verrà sanzionato

Con il perfezionamento del percorso legislativo previsto per l’integrale riforma del mercato del lavoro, si segnala l’intenzione del Governo di introdurre alcune sanzioni ai danni dei soggetti che, durante  la fruizione dell’indennità di disoccupazione Aspi, rifiutino un nuovo impiego o rinuncino a partecipare ad un percorso formativo.

Sempre nell’ambito della revisione degli ammortizzatori sociali,  verrà previsto un tetto massimo di ore lavorabili per tutti i dipendenti in cassa integrazione ordinaria o straordinaria.

Tale misura sarà finalizzata a  favorire la distribuzione del lasso di tempo di attività consentito ad ogni soggetto occupato.

Valerio Pollastrini

Quantificazione del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo

Nella sentenza n.15707 del 25 marzo-9 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che nel caso in cui il lavoratore illegittimamente licenziato accetti la reintegrazione in servizio, proseguendo il suo rapporto di lavoro senza soluzione di continuità, non può chiedere la corresponsione del trattamento di fine rapporto contestualmente al risarcimento del danno

Nel caso in commento, la Corte di Appello di Potenza aveva  respinto le domande  proposte da alcuni lavoratori in merito alla determinazione delle somme ad essi spettanti  a titolo di risarcimento del danno per gli illegittimi licenziamenti subiti dalla Rete Ferroviaria Italiana  s.p.a.  

Per mezzo della disposta Consulenza Tecnica d’Ufficio, la Corte del merito aveva determinato l’ammontare delle retribuzioni globali di fatto dovute a ciascuno dei ricorrenti, detraendo dalle stesse quanto   percepito dai lavoratori a titolo di indennità sostitutiva di preavviso, credito funzionalmente collegato al recesso e, come tale, costituente indebito oggettivo in seguito alla riattivazione della funzionalità del rapporto.

La Corte territoriale, inoltre, aveva  eliso da qualsivoglia esame la domanda di condanna al pagamento del TFR,  perché logicamente estranea ai giudizi di impugnativa dei licenziamenti introdotti in primo grado dinanzi al Tribunale di Foggia e. quindi, non compresa nel thema decidendum del  giudizio di rinvio, nel quale non può farsi rientrare la determinazione del risarcimento di danni ulteriori che non trovino la loro causa nella pronuncia di condanna al pagamento delle retribuzioni globali di fatto, maturate dalle date dei licenziamenti a quelle dell'effettiva reintegra degli interessati.

Contro questa sentenza, i lavoratori avevano adito la Cassazione, contestando il mancato accoglimento della richiesta volta al pagamento del trattamento di fine rapporto.

In particolare, i ricorrenti avevano rilevato come, dagli atti, fosse desumibile che gli stessi avessero  riportato e conteggiato specificamente i ratei di TFR, da ciascuno maturati nei periodi rispettivamente considerati, già nei loro conteggi prodotti e contenuti nei ricorsi in riassunzione dinanzi alla Corte d'appello di Potenza, affermando la ricomprensione di tali ratei nella determinazione degli importi da rivendicati.

Tale argomentazione, inoltre, era stata  reiterata nel corso delle molteplici udienze di trattazione celebrate dinanzi alla suddetta Corte territoriale, tanto che il primo dei due CTU ivi nominati era stato officiato anche della determinazione degli importi dovuti per il TFR.

A detta dei ricorrenti, poiché al trattamento di fine rapporto viene comunemente riconosciuta la natura di retribuzione differita, tale emolumento  dovrebbe essere incluso nella retribuzione globale di fatto, che viene determinata facendo riferimento all'insieme di tutte le voci retributive che il lavoratore avrebbe regolarmente percepito in costanza di rapporto se non fosse stato illegittimamente licenziato.

Da ciò, conseguirebbe che la determinazione delle somme dovute a ciascuno dei lavoratori per il TFR non potevano risultare estranee al thema decidendum del giudizio di rinvio, in quanto comprese nella quantificazione delle retribuzioni globali di fatto degli interessati, alla quale il Giudice di rinvio avrebbe dovuto procedere in applicazione del principio di diritto richiamato nella premessa.

Investita della questione, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso.

Richiamando la giurisprudenza di legittimità (1), la Suprema Corte ha ricordato che, essendo l'esigibilità del TFR correlata all'estinzione del rapporto, sussiste un nesso di alternatività tra la pronuncia di perdurante sussistenza del rapporto di lavoro o di annullamento del licenziamento e quella di condanna al pagamento del trattamento suddetto, costituendo il primo accertamento un antecedente logico giuridico rispetto alla domanda relativa al pagamento dell'indennità di fine rapporto, non configurabile nel caso in cui risulti o debba stabilirsi la continuazione del rapporto di lavoro.

Nella specie, la sentenza impugnata aveva correttamente enunciato il principio di diritto in base al quale l'ammontare delle somme percepite a titolo di pensione non può essere oggetto di compensazione ovvero di detrazione dall'ammontare del risarcimento del danno per licenziamento illegittimo.

Conseguentemente, in esatta applicazione di tale principio, la Corte potentina, tramite apposita CTU, aveva determinato l’ammontare delle retribuzioni globali di fatto dovute a ciascuno dei ricorrenti, escludendo dal computo le somme percepite a titolo di pensione.

Il Giudice di appello, con congrua e logica motivazione, aveva, altresì, sottratto da qualsivoglia esame le domande di condanna al pagamento del TFR, ritenendole, logicamente estranee ai giudizi di impugnativa dei licenziamenti introdotti in primo grado dinanzi al Tribunale di Foggia e, quindi, non attinenti al   thema decidendum della fase di rinvio del giudizio.

In particolare, la sentenza impugnata aveva precisato che nel suddetto thema decidendum non poteva farsi rientrare la determinazione del risarcimento di danni ulteriori che non trovassero la loro causa nella pronuncia di condanna al pagamento delle retribuzioni globali di fatto, maturate dalle date del licenziamento a quelle dell'effettiva reintegra degli interessati.

Si tratta di una statuizione che risulta del tutto conforme al richiamato principio, oltre che a quelli generali che governano il giudizio di rinvio e, pertanto, la Cassazione ha ritenuto che, sul punto, la sentenza non meritasse  alcuna censura.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza n.21029 del  2 novembre 2004; Cass., Sentenza n.8861 del 14 agosto 1991; Cass., Sentenza n.1049 del  3 febbraio 1998; Cass., Sentenza n.10942 del 18 agosto 2000; Cass., Sentenza n.3563 del 12 marzo 2001; Cass., Sentenza n.4551 del  28 marzo 2002; Cass., Sentenza n.7143 del  16 maggio 2002; Cass., Sentenza n.3865 del 15 febbraio 2008; Cass., Sentenza n.15869 del  20 settembre 2012;

Validità della conciliazione

Nella sentenza del 19 luglio 2011, il Tribunale di Nola ha chiarito che per sostenere l’invalidità del verbale di conciliazione  non è sufficiente dedurre l’assenza della certezza sul fatto  che la sottoscrizione dell’atto non sia quella del lavoratore, ma occorrono, altresì, il disconoscimento formale alla prima udienza e la querela di falso.

In simili casi, dunque, il ricorrente può avvalersi di una delle due seguenti opzioni: promuovere il giudizio di verificazione della scrittura privata, oppure rinunciare ad avvalersi dello scritto disconosciuto, privandolo di efficacia probatoria in giudizio.

In difetto di qualsiasi iniziativa formale della parte ricorrente,  il verbale di conciliazione deve essere riconosciuto in giudizio come valido, ai sensi dell’art.215 c.p.c..

Valerio Pollastrini

Chiesta la proroga per il 770

L’Ordine dei Consulenti del lavoro ha inoltrato al Ministro dell’Economia e delle Finanze, nonché al Direttore dell’Agenzia delle Entrate, una formale richiesta di proroga per l’invio telematico del modello 770/2014.

L’istanza risulta fondata sul disposto dello statuto del contribuente, in base al quale la modulistica dichiarativa deve essere messa a disposizione dei soggetti obbligati in tempi utili, al pari delle informazioni tecniche telematiche poste in tempo reale.

Ciò premesso, si ricorda che  l’Agenzia delle Entrate ha approvato, con Provvedimento del 15 gennaio 2014, il modello 770/2014 Semplificato, relativo all’anno 2013, con le istruzioni per la compilazione, concernente le comunicazioni da parte dei sostituti d’imposta dei dati delle certificazioni rilasciate, dell’assistenza fiscale prestata, dei versamenti, dei crediti e delle compensazioni effettuati.

Il modulo di controllo formale delle dichiarazioni, inoltre, é stato reso disponibile nelle seguenti date:

-         Modello 770 semplificato versione 1.0.2 del 10 luglio 2014;
-         Modello 770 ordinario versione 1.0.1 del 19 giugno 2014;

Ritenute inadeguate le date suddette, i Consulenti del lavoro hanno pertanto richiesto lo slittamento sia dei termini per la  dichiarazione modello 770 2014 semplificato, che per quello  ordinario, dal 31 luglio  al  30 settembre 2014.

Valerio Pollastrini

Irrilevante la mancata notifica al datore di lavoro della richiesta del tentativo di conciliazione

Nella sentenza n.12890 del 9 giugno 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che,
anche se il datore di lavoro non abbia ricevuto la richiesta del tentativo di conciliazione, non decade il  diritto del dipendente ad impugnare il licenziamento, purché quest’ultimo ne abbia avanzato istanza alla competente commissione entro i 60 giorni successivi al recesso.

Nel caso di specie, la Corte di Appello aveva accolto l’impugnativa del licenziamento per riduzione di personale avanzata da un lavoratore ed aveva condannato l’azienda  a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro ed al pagamento, in favore dello stesso, delle retribuzioni globali di fatto maturate dalla data del recesso fino a quella della reintegrazione, con l’aggiunta degli interessi e della rivalutazione monetaria.

A detta della Corte del merito, ai fini tempestività dell'impugnativa del licenziamento, era sufficiente la richiesta dell'esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, effettuata dal lavoratore nei 60 giorni successivi al recesso alla Commissione provinciale di conciliazione presso la Direzione Provinciale del lavoro.

Investita della questione, la Suprema Corte ha richiamato i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità (1), risultati conformi al dettato costituzionale (2), in base ai quali la corretta applicazione delle norme  in materia di decadenza dal potere di impugnare il licenziamento non richiede che l'atto di impugnazione giunga a conoscenza del destinatario nel predetto termine.

Come ricordato dalla Cassazione,   ai sensi del comma 2  dell'art. 410 cpc (3), il termine di decadenza si sospende a partire dal deposito dell'istanza di espletamento della procedura obbligatoria di conciliazione, contenente l'impugnativa scritta del licenziamento, presso la Commissione di conciliazione.

A tal fine, in sostanza, risulta irrilevante il momento in cui l'ufficio provinciale del lavoro provveda a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione, trattandosi di un adempimento estraneo alla sfera di controllo del dipendente.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha concluso con il rigetto del ricorso.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Cass., Sentenza n.17231 del 22 luglio 2010; Cass., Sentenza  n.14087 del 19 giugno 2006;
(2)   - Corte Cost., Sentenza  n.276/2000; Corte Cost., Sentenza  n.477/2002; Cass., Sezioni Unite, Sentenza n.8830 del 14 aprile 2010;
(3)   - Così come modificato dall'art.36 del D.lgs. n.80/1998;

Infortuni sul lavoro del personale marittimo

Nella sentenza n.111 del 29 giugno 2014, il Tribunale di Trieste ha affermato che, nell’ambito del particolare settore marittimo, qualora l’infortunio del dipendente imbarcato sia stato provocato dall’improvviso ed imprevedibile mutamento delle condizioni atmosferiche, al datore di lavoro non può essere ascritta la responsabilità dell’incidente.

Il caso di specie è quello di un nostromo che era rimasto vittima di un infortunio mentre era intento ad effettuare delle operazioni a bordo della bettolina.

Il natante, ormeggiato al porto di Capodistria per effettuare un'operazione di rifornimento della nave, era stato raggiunto da cattivo tempo con un graduale peggioramento dello stato del mare e del vento.

Mentre il lavoratore si trovava a prora della bettolina per effettuare un rinforzo degli ormeggi, un improvviso rollio e beccheggio aveva rotto  il passacavi di prua e quindi la bettolina, provocando la sua  violenta caduta a terra, con colpo particolarmente violento alla schiena.

In seguito a questo incidente, il dipendente aveva   convenuto in giudizio la datrice di lavoro per ottenere l'annullamento dei licenziamento ed il risarcimento del danno subito.

Il ricorrente aveva evidenziato   che l'infortunio, regolarmente indennizzato dall'INAIL, lo aveva costretto ad una lunga assenza dal lavoro, tanto che al superamento del periodo di comporto era stato licenziato.

Il dipendente aveva impugnato il recesso in ragione della responsabilità del datore di lavoro nell'infortunio, a causa del quale   era stato dichiarato inidoneo alla navigazione.

Ricordando che l’infortunio era stato provocato dalla rottura di una dotazione di bordo, il passacavi,  il ricorrente aveva rilevato  che il D.Lgs. n.271/99 imponeva precisi obblighi di sicurezza a carico dell'armatore ed, in particolare, disponeva l'obbligo di garantire l'efficienza e la sicurezza dell'ambiente di lavoro e quindi la regolare manutenzione tecnica di impianti, apparati dì bordo e dispositivi di sicurezza.

Si trattava, inoltre,  di un elemento introdotto dalla società in via successiva rispetto alla fabbricazione e, pertanto, a detta del dipendente,  il datore di lavoro avrebbe dovuto  dimostrare che fosse omologato dal Rina e, comunque, che avesse provveduto a sottoporlo a regolare verifica e manutenzione ed, in particolare, alle prove tecniche di saldatura di bordo.

Rilevando come, in seguito ai postumi dell’incidente, avesse perso  totalmente la capacità di lavoro specifica, il dipendente aveva sottolineato che la coperta di prua dell'unità fosse sprovvista di fondo antisdrucciolo e,  pertanto, il licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto doveva considerarsi illegittimo, con  suo  conseguente    diritto alla reintegrazione ed al  risarcimento dei danni patrimoniali ed alla salute, provocati dalla condotta colpevole del datore di lavoro.

Nel  contestare integralmente le pretese del ricorrente, l’azienda aveva evidenziato che la bettolina in questione era un galleggiante privo di mezzi di propulsione, con certificato di classe valido alla data dell'infortunio, e che la stessa, oltre alle certificazioni di idoneità all'uso necessarie, fosse dotata di  tutti i Dispositivi di Protezione individuali previsti.

Il mezzo, inoltre, era dotato di armamento marinaresco e attrezzature superiori  al carico richiesto e, dunque, il cedimento del passacavi sarebbe dipeso dalla eccezionalità dell'evento meteo e non da una responsabilità della datrice di lavoro, così come pure la caduta del ricorrente.

Il datore di lavoro aveva poi ricordato che, alcuni giorni dopo l’incidente,il dipendente era rientrato in servizio ma,  in seguito,  aveva chiesto di essere sbarcato per riapertura di infortunio precedente ed era stato dichiarato clinicamente guarito dopo un ulteriore mese. Avendo però superato il periodo massimo di comporto, la società lo aveva licenziato.

L’azienda, infine, aveva negato la supposta violazione della normativa invocata dal ricorrente, deducendo che il passacavi non sarebbe né un impianto, né un apparato, né un dispositivo di sicurezza , né assumeva rilevanza l'omessa denuncia, che l’art.182 cod. nav impone soltanto a fronte di un sinistro navale.

Investito della questione, il Tribunale ha rigettato le domande del lavoratore, ritenendole infondate.

Nella premessa, il giudice ha ricordato che il ricorrente aveva lamentato la violazione, da parte datoriale,  dell’art.6 del D.Lgs  n.271/1999, in relazione agli obblighi gravanti sull’imprenditore di "garantire le condizioni di efficienza dell'ambiente di lavoro ed in particolare la regolare manutenzione tecnica degli impianti, apparati di bordo e dispositivi di .sicurezza" , considerato che, secondo quanto emerso dalla perizia di parte, a causa del sopravvenuto mal tempo e moto ondoso, il passacavi si era rotto, provocando un allentamento dell’ormeggio con movimento dell’imbarcazione  che avrebbe fatto cadere il lavoratore, intento a rinforzare degli ormeggi.

Per contro, il consulente di parte della società  aveva cercato di dimostrare che l'ambiente di lavoro fosse sicuro e conforme alla normativa, posto che tutto il personale, compreso   il ricorrente, era  dotato dei necessari Dispositivi di Protezione Individuali e  che la bettolina era  dotata delle certificazioni del Rina.

In merito  alla norma di cui all'art. 6 sopra richiamata, il Ctp di parte attrice aveva confermato come il passacavi in questione  fosse un accessorio e che, dunque,  non rientrasse  né nella nozione di apparato, né in quelle di impianto o dispositivo di sicurezza.

In particolare il Ctp di parte resistente aveva ritenuto che la rottura del passacavi in posizione più avanzata rispetto alla bitta fosse dipesa dall'eccezionalità della situazione atmosferica e non da un'inefficienza dell’accessorio.

Del resto la documentazione agli atti inerente alle condizioni del vento avevano dimostrato detta eccezionalità.

Ad avviso del consulente, sarebbero state proprio  queste condizioni complessive ad originare le sollecitazioni violente ed inusuali, con moti contrastanti anche degli altri mezzi galleggianti che si trovavano nelle vicinanze, che avrebbero fatto cadere in coperta il ricorrente mentre stava rinforzando gli ormeggi.

Entrando nel merito, il Tribunale ha rilevato, a proposito dello stato di sicurezza del luogo di lavoro, che tutti i testimoni escussi avevano confermato che la coperta fosse dotata di pitturazione atta ad impedire lo scivolamento,  anche  a contatto con la schiuma del mare.

In merito alla sicurezza ambientale ed alla circostanza che il passacavi in questione non rientrasse nella nozione tecnica di cui all'art 6 cit., il giudice ha ritenuto sufficiente considerare le prove documentali versate in atti dalla resistente, nonché  le prove orali assunte.

I testimoni, infatti, avevano  confermato l'assenza di pregressi incidenti ed il rispetto di tutti gli adempimenti di sicurezza, prescritti all'epoca in capo alla resistente.

In particolare, un teste aveva sottolineato che il ricorrente aveva precise responsabilità di verifica della situazione degli ormeggi, dei cavi ed anche degli accessori dell’imbarcazione ed aveva dichiarato, inoltre, che il lavoratore  non aveva segnalato la situazione di usura del passacavi, mentre, dalle altre testimonianze era emerso che l'eventuale difetto di saldatura poteva essere rilevato con un semplice controllo visivo.

Da ultimo, la Consulenza Tecnica disposta dal giudice ed incentrata sul passacavi, la cui rottura, ad avviso del ricorrente, avrebbe provocato la sua caduta sulla coperta della nave, aveva  chiarito definitivamente che si trattava di elemento non necessario, né previsto nel progetto costruttivo del mezzo,  correttamente ed efficacemente dotato di un sistema di bitte singole e doppie che ne consentivano l'ormeggio e lo svolgimento in sicurezza delle operazioni di rifornimento cui era destinato.

In particolare, il consulente aveva sottolineato come detto passacavi non fosse necessario per la   stabilità del natante ed era  stato installato dalla società soltanto per evitare che il cavo strisciasse sulla pavesata durante le operazioni di ormeggio, rischiando così di far inciampare il personale.

Dalla completa lettura degli atti, pertanto, non sussiste alcuna prova  che la caduta del ricorrente sia stata provocata da questo accessorio.

Il giudicante ha quindi precisato che entrambe le Ctu di parte avessero accertato che la rottura di questa maglia non fosse dipesa da un  difetto di costruzione o di saldatura, ma dall’improvviso mutamento atmosferico, che aveva provocato un moto ondoso anomalo e, soprattutto, un sistema di forze, estraneo alla normalità ed all’idoneità attestata del mezzo e dei suoi accessori.

In sostanza, l’incidente era stato causato da un evento imprevedibile che esulava dalla diligenza richiedibile alla datrice di lavoro (1).

Alla luce di quanto fin qui enunciato, il Tribunale ha escluso che l’incidente possa essere stato causato da una condotta colposa o dolosa del datore di lavoro, in quanto, in ragione della diligenza richiedibile e prevedibile, nel caso di specie erano state disposte tutte le misure di sicurezza, risultando la caduta del dipendente ascrivibile ad un evento imprevedibile ed accidentale quale il mal tempo che, a fronte anche della particolare posizione delle altre imbarcazioni, aveva amplificato i moti oscillatori tipici e usuali per chi svolgeva il mestiere del ricorrente, tanto da provocarne la caduta.

Valerio Pollastrini

(1)   - Cass., Sentenza  n.1312/2014;

martedì 15 luglio 2014

Rimettersi in gioco dopo un infortunio con il progetto “Scrivo di me”

Un esperimento recentemente realizzato dalla sede Inail di Forlì  si è rivelato un ottimo strumento per reinserire nella vita di relazione 12 persone tra disabili e familiari, consentendo loro di migliorare le  capacità espressive e di superare lo spartiacque del trauma subito, creando legami profondi con gli altri partecipanti.

Al centro del progetto: la scrittura come strumento per rimettersi in gioco dopo un infortunio.

Una penna, un po’ di fantasia ed il ricordo di momenti difficili da rielaborare su carta in un modo nuovo, sono i tre elementi alla base del programma “Scrivo di me”, realizzato con l’obiettivo di ricostruire la vita di un gruppo di infortunati attraverso l’ascolto e la scrittura.

I disabili ed i loro  familiari  hanno utilizzato lo strumento della scrittura per riprendere contatto con la capacità di comunicare per iscritto e per ripensare alla propria esperienza di vita.

Tra le finalità del laboratorio, infatti, c’era la volontà di restituire alla scrittura un valore espressivo liberato da vincoli formali, lavorando con le parole per ricondurre gli infortunati al ricordo di momenti difficili.

La prima fase del progetto si è  ispirata alla metodologia elaborata negli anni Settanta dalla scrittrice e insegnante Elisabeth Bing, strutturata in 10 incontri della durata di tre ore e coadiuvata da un’assistente sociale.

La seconda, invece, è stata caratterizzata dalla rielaborazione finale dei testi, dove gli assistiti sono passati dal subire un’esperienza al farne tesoro.

Il laboratorio  non solo ha permesso il superamento dello spartiacque del trauma subito, ma ha stimolato, altresì, la produzione di storie orientate verso la riorganizzazione di un progetto di vita.

Combinate tra loro, le due fasi del progetto hanno infatti determinato un aumento del livello di fiducia reciproca ed hanno permesso la nascita di   legami profondi tra tutti i partecipanti.

Valerio Pollastrini

Tassazione delle somme liquidate al lavoratore a titolo risarcitorio

Nell’ambito di una controversia avente ad oggetto la tassazione delle somme versate al lavoratore  per i  danni  subiti dalla perdita di redditi, nella  sentenza n.10749/2014, la Corte di Cassazione ha ricordato che tutte le indennità conseguite   a titolo risarcitorio, ad esclusione di quelle il cui fondamento risieda nel decesso o nell’invalidità permanente eventualmente procurati, costituiscono redditi da lavoro dipendente e, come tali, sono assoggettate a tassazione separata ed a ritenuta d'acconto.

In sostanza, nella pronuncia in commento la Suprema Corte ha ribadito che il suddetto criterio di tassazione risulta applicabile a tutte le indennità aventi causa o che traggano origine dal rapporto di lavoro, comprese quelle corrisposte in seguito al licenziamento illegittimo.

Valerio Pollastrini

Sicurezza sul lavoro – Responsabilità del committente e del datore di lavoro

In materia di sicurezza, nella sentenza n.30483 del 10 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha precisato che,  in caso di infortunio, la responsabilità del committente non esclude quella del datore di lavoro.

Il caso di specie è quello di due imprenditori che, al termine del giudizio di appello, erano stati ritenuti responsabili del reato di lesioni personali colpose gravi ai danni di un lavoratore, aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica.

Il titolare di un’impresa aveva impiegato quattro operai di un’altra società per la movimentazione di alcune lastre di vetro.

Entrambi i ricorrenti avevano contestato la ricostruzione dei fatti che avevano determinato la rottura delle suddette lastre, sostenendo che la loro caduta accidentale fosse stata causata dalla condotta colposa degli operai, che le avevano appoggiate in equilibrio precario.

Secondo questa ricostruzione, i due ricorrenti avevano invocato l'esclusione di ogni loro responsabilità.  Il primo, sul rilievo che l’evento fosse stato accidentale, non evitabile, quindi,  attraverso le proprie conoscenze tecniche. Il secondo,  invece, aveva richiamato il principio di affidamento, in base al quale la direzione dell'intera operazione affidata all’altro imprenditore  avrebbe comportato l'assunzione su quest’ultimo  della responsabilità dell'esecuzione dei lavori.

Investita della questione, la Suprema Corte ha preliminarmente ricordato come la normativa antinfortunistica estenda l'obbligo del datore  di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro  anche ai soggetti che nell'impresa prestino la loro opera, indipendentemente dalla forma utilizzata per lo svolgimento della prestazione.

Si tratta, in sostanza, di un  obbligo la cui ampia portata, ai fini dei soggetti tutelati,  non consente distinzioni tra lavoratore subordinato, persona ad esso equiparata (1) o, anche,  persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.

Le norme antinfortunistiche, infatti,  non si risolvono nella sola  tutela dei dipendenti, ma sono preposte anche alla tutela dei terzi, vale a dire di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione ed a prescindere da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa, abbiano accesso all'ambiente lavorativo.

In proposito, assume un rilievo decisivo quanto   disposto dall'articolo 2087 del codice civile, in forza del quale il datore di lavoro riveste, in ogni caso, la funzione di garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, l'evento lesivo deve essere ascritto alla sua responsabilità.

Parimenti infondata è la supposta esenzione da responsabilità del datore di lavoro, avanzata sulla pretesa che i rischi specifici sarebbero stati propri della ditta che si era avvalsa del lavoro degli operai.

Detta censura, infatti, tralascia il fatto che, in caso di infortunio,  la responsabilità del committente, in ossequio alla disciplina di settore (2),  non esclude quella del datore di lavoro.

La Suprema Corte, in sostanza, ha ribadito che, in linea generale, il datore di lavoro
è corresponsabile qualora l'evento si colleghi casualmente anche alla sua colposa omissione, come, ad esempio, nel caso in cui  abbia consentito l'inizio dei lavori in presenza di situazioni di fatto pericolose.

Si tratta proprio di quanto avvenuto nella vicenda  in commento, nella quale il luogo di lavoro era risultato privo delle attrezzature idonee per l'esecuzione della prestazione, oltre alla rilevata  omessa adozione delle misure di prevenzione prescritte.

A questo proposito, l’impugnata sentenza del merito aveva chiarito che  l'imputato fosse venuto meno ai propri doveri di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, inviando gli operai presso la ditta del vicino, per eseguire una prestazione estranea alle loro  mansioni, senza fornire agli stessi specifiche informazioni sui rischi ad essa connessi  e senza collaborare nell'attuazione delle misure di prevenzione e protezione dal rischio di incidenti inerenti alla esecuzione della nuova e diversa attività.

Per tutte le richiamate ragioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto dei ricorsi.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - art.3, comma 2, del Dpr n.547 del 27 aprile 1955;
(2)   – ai sensi di quanto disposto dall’art.7 del D.Lgs n.626/1994, trasfuso nel successivo art.26 del D.Lgs  n.81/2008;

Accertamento del dolo per la sussistenza del reato di omesso versamento delle ritenute fiscali

Nella sentenza n.30574 dell’11 luglio 2014, per l’ennesima volta la Corte di Cassazione è stata chiamata a tracciare i profili del reato ascrivibile al datore di lavoro per l’omesso versamento all’Erario delle ritenute fiscali operate sulle retribuzioni dei dipendenti (1).

Nel caso di specie, il contribuente aveva impugnato la sentenza con la quale la Corte di Appello, confermando quanto disposto  dal Tribunale di primo grado, lo aveva condannato alla pena sospesa di mesi 4 di reclusione.

In particolare,  il contribuente aveva lamentato che la Corte territoriale si fosse limitata a recepire  la sentenza di primo grado, senza affrontare le sue doglianze inerenti all'assoluta assenza dell’elemento psicologico del reato.

Il ricorrente  aveva precisato che l’Agenzia delle Entrate, dopo aver accertato  il mancato versamento delle ritenute relative all'anno di imposta 2004, lo aveva invitato a fornire chiarimenti inerenti alla dichiarazione mod. 770/2005 semplificato.

Ricevuta detta richiesta da parte dell’Agenzia, il contribuente  aveva provveduto tempestivamente al versamento delle somme richieste, comprensive di sanzioni ed interessi.

Tale circostanza, evidenzierebbe come il contestato versamento omesso  sarebbe stato imputabile ad una mera dimenticanza che, pertanto, escluderebbe la presenza del  dolo.

A tal fine, il ricorrente aveva sostenuto  che la condotta omissiva contestatagli era stata commessa a distanza di pochi mese dall’entrata  in vigore della Legge Finanziaria 2005, che aveva posticipato la scadenza prevista per eseguire i versamenti fino al termine per la presentazione della dichiarazione annuale del sostituto d'imposta, comminando una sanzione penale.

A suo dire, dunque,  il breve periodo temporale intercorso tra l'entrata in vigore della predetta legge ed il tempus commissi delicti denoterebbe  la mancata  conoscenza da parte del contribuente delle innovazioni legislative,  elemento che escluderebbe il dolo.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto fondate le censure mosse dal ricorrente.

Nello specifico, la Suprema Corte ha evidenziato la mancanza di motivazione, da parte dei giudici del merito,  in ordine alla doglianza  avente ad oggetto la richiesta assolutoria per insussistenza del fatto o per difetto dell'elemento psicologico del reato.

L’impugnata sentenza, infatti, non aveva indicato nulla a proposito delle ragioni per le quali l'omesso versamento delle ritenute certificate era stato ritenuto doloso, nonostante l’avvenuto tardivo pagamento.

Nell’accogliere il ricorso, la Cassazione ha ricordato come, per ciò che attiene all’elemento soggettivo,  ai fini della sussistenza del reato di cui all'art. 10-bis del D.Lgs, n.74/2000 non è richiesto il dolo in re ipsa, ma, altresì, il  dolo generico, che presuppone la mera consapevolezza della condotta omissiva e che, pertanto, deve essere adeguatamente provato e sorretto da congrua e logica motivazione, circostanza non rilevata nell'impugnata sentenza.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – fattispecie di reato prevista dall'art.10-bis del D.Lgs. n.74/2000;

Riforma della Pubblica Amministrazione – Licenziamento dei dirigenti

Nonostante l’attuale  versione  del Disegno di Legge Delega di Riforma della Pubblica Amministrazione abbia eliminato la locuzione “licenziamento”, la sorte dei dirigenti rimasti privi di incarichi sarà ugualmente quella della risoluzione del rapporto.

La norma, infatti, dispone che, in assenza di incarico,  i dirigenti riceveranno il solo trattamento economico fondamentale e la parte fissa della retribuzione, senza, dunque, le indennità di   posizione e di risultato,  e verranno posti in disponibilità.

L’attuale formulazione della Riforma aggiunge, inoltre, che i suddetti dirigenti decadranno dai ruoli unici dopo un determinato periodo di collocamento in disponibilità.

In sostanza, terminato tale periodo, il rapporto di lavoro verrà risolto definitivamente.

Dal momento che, attualmente, la durata massima del collocamento in disponibilità è di  24 mesi, salvo prossime modifiche, dopo soli due anni di assenza di incarico,  i dirigenti pubblici di ruolo perderanno il lavoro .

La configurazione del licenziamento secondo le modalità appena citata,  rivela una sperequazione evidente a svantaggio dei dirigenti di ruolo, rispetto a quelli “di fiducia” politica soggetti allo spoil system.

A rischiare il recesso, infatti, saranno solamente i dirigenti che abbiano avuto accesso ai ruoli unici mediante concorso, mentre, come è noto, quelli a contratto di nomina politica nella stragrande maggioranza dei casi assumono l’incarico dirigenziale avendo alle spalle un altro rapporto di lavoro.

I dirigenti non di ruolo, dunque, anche se  perdessero l’incarico per scadenza del mandato ed esercizio dello spoil system,  non perderebbero il lavoro, salvo il caso di persone provenienti dal privato che non riescano ad ottenere la collocazione in aspettativa.

Valerio Pollastrini

Avvio difficile per la Garanzia Giovani

Nonostante il boom delle adesioni, stenta a decollare il Progetto Garanzia Giovani.

Solo per il 5% degli iscritti, infatti, sono state attivate le prime procedure di orientamento.

Sono circa 120 mila i ragazzi con meno di 29 anni che, dallo scorso 1° maggio, hanno aderito al Piano.

Di questi, solamente 13.777 sono stati convocati dai servizi per il lavoro, mentre sono stati  5960 i ragazzi  sottoposti al primo colloquio di orientamento.

Si tratta della fase  nella quale vengono evidenziate le peculiarità del candidato, attraverso l’analisi dei titoli di  studio posseduti e delle esperienze che fanno parte del curriculum vitae.

Al termine delle procedure di orientamento, al giovane vengono proposte diverse possibilità,   tra le quali l'inserimento lavorativo con  contratto di apprendistato o di tirocinio, l'impegno nel servizio civile, la formazione specifica professionalizzante e l'accompagnamento nell'avvio di una iniziativa imprenditoriale, o di lavoro autonomo.

Valerio Pollastrini

domenica 13 luglio 2014

Nessun risarcimento per l’infortunio causato dal rischio elettivo assunto dal lavoratore

Nella sentenza n.15705 del 13 marzo–9 luglio 2014, la Corte di Cassazione ha ribadito che, nel caso in cui l’incidente sul lavoro risulti causato  da una condotta abnorme con la quale il dipendente si sia volontariamente esposto ad un rischio elettivo, l’infortunato non ha diritto ad alcuna indennità  da parte dell’Inail.

Il caso di specie è quello di un operaio edile che, adibito all’intonacatura di uno stabile, mentre stava scendendo da un’impalcatura per usufruire della pausa pranzo, aveva messo un piede in fallo precipitando nel vuoto, finendo prima su di un tetto in eternit e poi sul lastrico stradale.

Con ricorso al Tribunale di Reggio Calabria, il lavoratore aveva chiesto la condanna dell'INAIL all'indennizzo dei postumi dell’invalidità temporanea assoluta e dell’invalidità permanente conseguente all’infortunio.

Dopo l’escussione dei testimoni, nonché  in base alle risultanze della C.T.U, il giudice di primo grado  aveva rigettato la domanda, ritenendo che l'evento fosse derivato da una scelta arbitraria del dipendente, il quale, per ragioni personali,  aveva volutamente creato  una situazione diversa da quella inerente all'attività lavorativa, interrompendo così  il nesso eziologico tra infortunio e prestazione.

Nonostante ad 8 metri di distanza vi fosse   un accesso sicuro, costituito dalla botola posta a collegamento del piano del ponteggio con quello inferiore, il lavoratore aveva scelto di scendere al piano  preposto alla consumazione del pasto,  tenendosi ai tubi che componevano il predetto ponteggio.

Questa sentenza era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello di Reggio Calabria.

Il lavoratore aveva dunque adito la Cassazione, sostenendo come,  nel considerare che la botola gli avrebbe consentito di accedere al piano inferiore del ponteggio ma non al terrazzino dove egli era solito consumare il pasto, i giudici del merito avrebbero  ammesso implicitamente che il suo comportamento era stata necessitato dallo stato dei luoghi.

Il ricorrente, inoltre, aveva dedotto  che l'imprenditore è responsabile degli infortuni occorsi ai propri dipendenti anche quando essi siano stati causati da colpa o imperizia,  dovendosi escludere, nella specie, una condotta abnorme, considerato che, utilizzando la botola, egli non avrebbe mai potuto accedere, se non attraverso una finestra posta molto in alto rispetto al pavimento,  al terrazzino su cui soleva  consumare il pasto.

Infine, il dipendente aveva contestato alla Corte territoriale di non aver considerato che attorno al pontile erano presenti delle reti di protezione, rilevando , in generale, come la giurisprudenza abbia sempre ritenuto che gli spostamenti resi necessari dal consumo dei pasti non esorbitano dal normale svolgimento dell'attività lavorativa.

Investita della questione, la Cassazione ha ritenuto inammissibili le censure del ricorrente.

In primo luogo, la Suprema Corte ha osservato  che, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà,  il preteso vizio di motivazione può ritenersi legittimamente  sussistente solamente nel caso in cui  nel ragionamento del giudice di merito  sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia (1),  ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l'identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (2).

In base alle suddette considerazioni, le censure concernenti i vizi di motivazione devono necessariamente indicare quali siano gli elementi di contraddittorietà o illogicità che rendano del tutto irrazionali le argomentazioni dei giudici di merito,  non potendo le doglianze  risolversi nella semplice richiesta di una lettura diversa delle risultanze processuali rispetto alla sentenza impugnata (3).

A proposito della dedotta erronea valutazione degli atti e delle testimonianze di causa, la Cassazione ha ricordato come  il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci il difetto di motivazione sulla valutazione delle risultanze probatorie, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze oggetto della prova trascurate od erroneamente interpretate dal giudice di merito, specificandone, inoltre,  la loro esatta ubicazione all'interno dei fascicoli di causa (4), al fine di consentire al giudicante il controllo della decisività dei fatti da provare, e, quindi, delle prove stesse, che, per il principio dell'autosufficienza dei ricorso per cassazione, la Corte deve essere in grado di compiere sulla base delle deduzioni contenute nell'atto (5).

Nella specie, però,  il ricorrente non aveva specificato gli atti ed i documenti che sarebbero stati erroneamente valutati dalla Corte di Appello.

Per quanto riguarda, infine, il riferimento del ricorrente alla  giurisprudenza che ammette la riconducibilità del tempo utile per la consumazione del pasto all'attività lavorativa, la Cassazione ha specificato che tale principio attiene esclusivamente alla diversa ipotesi dell'infortunio in itinere.

Di conseguenza,  la Corte territoriale aveva correttamente ritenuto che le dichiarazioni nelle quali il lavoratore aveva specificato all'ispettore dell'Inail  di aver preferito scendere attaccandosi ai tubi del ponteggio, anziché utilizzando la non lontana botola, non lasciassero alcun dubbio sull'ingiustificatezza e  pericolosità della sua condotta, per mezzo della quale aveva assunto un rischio elettivo non indennizzabile (6).

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza n.3668\2013;
(2)   - Cass., Sentenza n.25984\2010; Cass., Sentenza n.13045/1997; Cass., Sentenza n.5802/1998;
(3)   - Cass., Sentenza n.10833\2010; Cass., Sentenza n.8718/2005; Cass., Sentenza n.15693/2004; Cass., Sentenza n.2357/2004; Cass., Sentenza n.12467/2003; Cass., Sentenza n.16063/2003; Cass., Sentenza n.3163/2002;
(4)   - Cass. Sezioni Unite, Sentenza n.22726 del  3 novembre 2011;
(5)   - Cass.,  Ordinanza n.17915 del 30 luglio 2010; Cass., Ordinanza n.4220 del 16 marzo 2012;  Cass., Sentenza n.8569 del  9 aprile 2013;
(6)   - Cass., Sentenza n.19494\2009; Cass., Sentenza n.3786\2009;

Professionista non iscritto all’albo – Restituzione parziale dell’onorario

Il caso in commento  è quello di un datore di lavoro che aveva citato in giudizio una professionista alla quale aveva demandato  la tenuta della contabilità aziendale e l'espletamento di alcune operazioni di natura economica.

Avendo scoperto che la professionista fosse priva dell’abilitazione,  l’imprenditore aveva adito le vie legali  per la restituzione dell’onorario versatole.

Dopo aver accertato che la contabile aveva svolto l’attività di tributarista senza possedere l’idoneo titolo professionale, il Tribunale   aveva condannato la donna a restituire al cliente l’intero compenso percepito, con l’aggiunta degli interessi.

Successivamente, la Corte di Appello aveva però riformato parzialmente la pronuncia di primo grado, riducendo l’importo soggetto a restituzione e chiarendo che, nello specifico,  sarebbe stato  necessario operare una   distinzione tra quali, delle attività svolte dalla contabile,  fossero  generiche e quali, invece, fossero qualificabili come professionali, risultando non dovuto solamente l’onorario richiesto per quest’ultime.

Nella sentenza n.13043 del 10 giugno 2014, la Corte di Cassazione ha premesso  come l’azione di indebito arricchimento (1) sia  esperibile ogniqualvolta  risulti che un pagamento effettuato non doveva essere eseguito. 

In tal caso, colui che ha provveduto al pagamento, può chiederne la restituzione.

In particolare, la Suprema Corte ha  precisato che, in mancanza di una prova che consentisse l’esatta  individuazione delle attività per le quali era richiesta l'iscrizione ad un apposito albo professionale, il giudice di appello aveva eseguito un calcolo approssimativo e probabilistico, non essendo possibile presumere che tutto il lavoro svolto dalla donna fosse contrario alla legge.

Dopo aver accertato che le attività non protette erano state  prevalenti, oltre al fatto che l’onorario della contabile era stato quantificato in maniera forfettaria, la Cassazione ha ritenuto  equa la riduzione al 20%  delle somme  riconosciute al cliente  dal Tribunale di primo grado.

Si tratta, infatti, di una liquidazione rimessa al potere discrezionale del giudice di merito e, come tale, non può essere disconosciuta dalla Cassazione.

Per tali ragioni, la Suprema Corte ha concluso rigettando il ricorso.

Valerio Pollastrini


(1)   – Prevista dall’art.2033 del Codice Civile;