Il
caso di specie è quello di due imprenditori che, al termine del giudizio di
appello, erano stati ritenuti responsabili del reato di lesioni personali
colpose gravi ai danni di un lavoratore, aggravate dalla violazione della
normativa antinfortunistica.
Il
titolare di un’impresa aveva impiegato quattro operai di un’altra società per
la movimentazione di alcune lastre di vetro.
Entrambi
i ricorrenti avevano contestato la ricostruzione dei fatti che avevano
determinato la rottura delle suddette lastre, sostenendo che la loro caduta
accidentale fosse stata causata dalla condotta colposa degli operai, che le
avevano appoggiate in equilibrio precario.
Secondo
questa ricostruzione, i due ricorrenti avevano invocato l'esclusione di ogni loro
responsabilità. Il primo, sul rilievo
che l’evento fosse stato accidentale, non evitabile, quindi, attraverso le proprie conoscenze tecniche. Il
secondo, invece, aveva richiamato il
principio di affidamento, in base al quale la direzione dell'intera operazione
affidata all’altro imprenditore avrebbe
comportato l'assunzione su quest’ultimo della responsabilità dell'esecuzione dei lavori.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha preliminarmente ricordato come la normativa
antinfortunistica estenda l'obbligo del datore di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro anche ai soggetti che nell'impresa prestino la
loro opera, indipendentemente dalla forma utilizzata per lo svolgimento della
prestazione.
Si
tratta, in sostanza, di un obbligo la
cui ampia portata, ai fini dei soggetti tutelati, non consente distinzioni tra lavoratore
subordinato, persona ad esso equiparata (1) o, anche, persona estranea all'ambito imprenditoriale,
purché sia ravvisabile il nesso causale tra l'infortunio e la violazione della
disciplina sugli obblighi di sicurezza.
Le
norme antinfortunistiche, infatti, non
si risolvono nella sola tutela dei
dipendenti, ma sono preposte anche alla
tutela dei terzi, vale a dire di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima
ragione ed a prescindere da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare
dell'impresa, abbiano accesso all'ambiente lavorativo.
In
proposito, assume un rilievo decisivo quanto
disposto dall'articolo 2087 del codice civile, in forza del quale il
datore di lavoro riveste, in ogni caso, la funzione di garante dell'incolumità
fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro
opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi
all'obbligo di tutela, l'evento lesivo deve essere ascritto alla sua
responsabilità.
Parimenti
infondata è la supposta esenzione da responsabilità del datore di lavoro,
avanzata sulla pretesa che i rischi specifici sarebbero stati propri della
ditta che si era avvalsa del lavoro degli operai.
Detta
censura, infatti, tralascia il fatto che, in caso di infortunio, la responsabilità del committente, in ossequio
alla disciplina di settore (2), non esclude
quella del datore di lavoro.
La Suprema Corte, in sostanza, ha ribadito
che, in linea generale, il datore di lavoro
è corresponsabile qualora l'evento si colleghi
casualmente anche alla sua colposa omissione, come, ad esempio, nel caso in cui
abbia consentito l'inizio dei lavori in
presenza di situazioni di fatto pericolose.
Si
tratta proprio di quanto avvenuto nella vicenda
in commento, nella quale il luogo di lavoro era risultato privo delle attrezzature
idonee per l'esecuzione della prestazione, oltre alla rilevata omessa adozione delle misure di prevenzione
prescritte.
A
questo proposito, l’impugnata sentenza del merito aveva chiarito che l'imputato fosse venuto meno ai propri doveri
di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, inviando gli operai presso
la ditta del vicino, per eseguire una prestazione estranea alle loro mansioni, senza fornire agli stessi specifiche
informazioni sui rischi ad essa connessi e senza collaborare nell'attuazione delle
misure di prevenzione e protezione dal
rischio di incidenti inerenti alla esecuzione della nuova e diversa attività.
Per
tutte le richiamate ragioni, la Cassazione ha concluso con il rigetto dei
ricorsi.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
art.3, comma 2, del Dpr n.547 del 27 aprile 1955;
(2)
–
ai sensi di quanto disposto dall’art.7 del D.Lgs n.626/1994, trasfuso nel
successivo art.26 del D.Lgs n.81/2008;
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