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venerdì 7 marzo 2014

Maggiorazione delle sanzioni per il lavoro nero

Con la Circolare n. 5 del 4 marzo 2014, il Ministero del lavoro ha riepilogato quanto disposto dall’art.14 del Decreto Legge n. 145/2113 (convertito dalla Legge n. 9/2014) in merito alle  misure di contrasto al lavoro nero, sommerso ed irregolare e alle sanzioni per la violazione della disciplina in materia di durata media dell'orario di lavoro e di riposi giornalieri e settimanali.

La circolare
Il provvedimento in commento ricorda che in sede di conversione l’art. 14 ha subito alcune modifiche che rendendo opportune le seguenti indicazioni in ordine alla commisurazione degli importi sanzionatori da applicare.

Maxisanzione per il lavoro “nero”
Il Legislatore ha previsto l’aumento del 30% della c.d. maxisanzione per il lavoro “nero”, escludendo per tali fattispecie di violazione l’applicazione della procedura di diffida di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 23 aprile 2004, n. 124, e successive modificazioni.

Revoca del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale
Un aumento del 30% è stato inoltre disposto per le “somme aggiuntive” da versare ai fini della revoca del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale di cui all’art. 14 del D.Lgs. n. 81/2008 (1).

Importi sanzionatori per violazione delle disposizioni in materia di tempi di lavoro
Sul punto, occorre precisare che i commi 3 e 4 dell’art. 18-bis del D.Lgs. n. 66/2013 prevedono che:

- la durata media dell’orario di lavoro “deve essere calcolala con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi” (superiore se previsto dalla contrattazione collettiva);
- il riposo settimanale “è calcolato come media in un periodo non superiore a quattordici giorni”;
- il riposo giornaliero deve essere fruito “ogni ventiquattro ore”.

In riferimento alle citate disposizioni, la legge di conversione del D.L. n. 145/2013 ha modificato quanto precedentemente previsto nella norma, introducendo  una duplicazione (e non una decuplicazione) degli importi sanzionatori legati alla violazione delle disposizioni in materia di orario medio settimanale, riposi giornalieri e settimanali.

N.B. Nelle tabelle allegate si riepilogano gli importi delle sanzioni previste in caso di violazione delle disposizioni sopra citate, anche in relazione al periodo nel quale dette violazioni siano state consumate.

Valerio Pollastrini

(1)   - Sia di quello adottato dal personale ispettivo di questo Ministero che delle AA.SS.LL.;

 
ALLEGATI

 
Tabella n.1
 

Maxisanzione “ordinaria”
 
Sanzione
minima
edittale
Sanzione
massima
edittale
Maggiorazione
giornaliera
Sanzione ai sensi art. 13 D.Lgs. n. 124/2004
Sanzione ai sensi art. 16 L. n. 689/1981
Maggiorazione giornaliera ai sensi art. 13 D.l.gs. n. 124/2004
Maggiorazione giornaliera ai sensi art. 16 L. n. 689/1981
violazioni consumate entro il 23 dicembre 2013 compreso
1.500
12.000
150
1.500
3.000
37,50
50
violazioni consumate dal 24 dicembre 2013 al 21 febbraio 2014compreso
1.950
15.600
195
1.950
3.900
48,75
65
violazioni consumate dal 22 febbraio 2014
1.950
15.600
195
non applicabile
3.900
non applicabile
65
 
 
 
 
 
 
 
 
Maxisanzione “affievolita”
("nel caso in cui il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo lavorativo successivo")
 
Sanzione
minima
edittale
Sanzione
massima
edittale
Maggiorazione
giornaliera
Sanzione ai sensi art. 13 D.Lgs. n. 124/2004
Sanzione ai sensi art. 16 L. n. 689/1981
Maggiorazione giornaliera ai sensi art. 13 D.l.gs. n. 124/2004
Maggiorazione giornaliera ai sensi art. 16 L. n. 689/1981
violazioni consumali entro il 23 dicembre 2013 compreso
1.000
8.000
30
1.000
2.000
7.5
10
violazioni consumale dal 24 dicembre 2013 al 21 febbraio 2014 compreso
1.300
10.400
39
1.300
2.600
9.75
13
violazioni consumate dal 22 febbraio 2014
1.300
10.400
39
non applicabile
2.600
non applicabile
13

 

Tabella n.2


Durata media dell’orario di lavoro
Regime sanzionatorio per violazioni commesse a far data dal 24 dicembre 2013
La durata media dell’orario di lavoro non può in ogni caso superare, per ogni periodo di sette giorni, le quarantotto ore, comprese le ore di lavoro straordinario. A tal fine, la durata media dell’orario di lavoro deve essere calcolata con riferimento a un periodo non superiore a quattro mesi. I contratti collettivi di lavoro possono in ogni caso elevare il limite fino a sei mesi ovvero fino a dodici mesi a fronte di ragioni obiettive, tecniche o inerenti all’organizzazione del lavoro, specificate negli stessi contratti collettivi
Sanzione amministrativa da 200 a 1.500 euro. Se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata in almeno tre periodi di riferimento la sanzione amministrativa è da 800 a 3.000 euro. Se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero si è verificata in almeno cinque periodi di riferimento, la sanzione amministrativa è da 2.000 a 10.000 euro e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta
Riposo settimanale
Regime sanzionatorio post conversione D.L. n. 145/2013
Il lavoratore ha diritto ogni sette giorni a un periodo di riposo di almeno ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero. Il suddetto periodo di riposo consecutivo è calcolato come media in un periodo non superiore a quattordici giorni
Sanzione amministrativa da 200 a 1.500 euro. Se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata in almeno tre periodi di riferimento la sanzione amministrativa è da 800 a 3.000 euro. Se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero si è verificata in almeno cinque periodi di riferimento, la sanzione amministrativa è da 2.000 a 10.000 euro e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta
Riposo giornaliero
Regime sanzionatorio post conversione D.L. n. 145/2013
Ferma restando la durata normale dell’orario settimanale, il lavoratore ha diritto a undici ore di riposo consecutivo ogni ventiquattro ore. Il riposo giornaliero deve essere fruito in modo consecutivo fatte salve le attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati durante la giornata o da regimi di reperibilità
Sanzione amministrativa da 100 a 300 euro. Se la violazione si riferisce a più di cinque lavoratori ovvero si è verificata in almeno tre periodi di ventiquattro ore, la sanzione amministritativa è da 600 a 2.000 euro. Se la violazione si riferisce a più di dieci lavoratori ovvero si è verificata in almeno cinque periodi di ventiquattro ore, la sanzione amministrativa è da 1.800 a 3.000 euro e non è ammesso il pagamento della sanzione in misura ridotta

 

Ente pubblico economico – Effetti della nullità del termine apposto al contratto di lavoro

Nella sentenza n.4458 del 25 febbraio 2014 la Corte di Cassazione interviene in merito all’impossibilità nelle Pubbliche Amministrazione di convertire in rapporto di lavoro a tempo indeterminato il contratto il cui termine sia risultato nullo.

Un dipendente dell’Ente Autonomo Fiera del Mediterraneo si era rivolto al Tribunale di Palermo affinché accertasse la nullità del termine apposto al primo di una serie di contratti perché privo di una delle causali richieste per la legittima stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato.

Sia il Giudice di primo grado che, successivamente, la Corte di Appello di Palermo avevano accolto la domanda del lavoratore e, ritenuto nullo il termine per non avere l’Ente convenuto provato né chiesto di provare l’adibizione del ricorrente ad attività stagionali, avevano disposto la trasformazione del rapporto in un contratto a tempo indeterminato.

Secondo la Corte territoriale, la nozione di “stagione”, contenuta  nell’art. 1, comma 2, lett. A, della Legge n. 230/1962, non può essere estesa sino al punto da ricomprendere, come nel caso di specie, un arco temporale come quello, pressoché continuativo, di 32 mesi risultanti dalla sommatoria dei vari contratti a termine stipulati tra le parti.

L’Ente Autonomo Fiera del Mediterraneo si era quindi rivolto alla Corte di Cassazione, sostenendo che la sua natura “pubblicistica” escludesse la possibile conversione di detti contratti a termine in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Preso atto che l’Ente Fiera del Mediterraneo è un Ente Pubblico Economico, sottoposto al controllo ed alla vigilanza della Regione Sicilia, si discute, nella specie, della possibilità di conversione di un contratto cui sia stato illegittimamente apposto un termine finale.

Nel Pubblico Impiego, l’impossibilità di una tale conversione è da porsi in relazione  all’ineludibilità dell’art. 97 della Costituzione (1) che fissa l’obbligo di accedere agli impieghi nelle Pubbliche Amministrazioni mediante concorso, salvo casi stabiliti dalla legge. Impossibilità peraltro sancita dalla riforma del pubblico impiego.

Anche la contrattazione collettiva degli Enti Locali, nel disciplinare la materia dei contratti a tempo determinato, ha stabilito che “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle Pubbliche Amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime Pubbliche Amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione”.

Il lavoratore interessato avrebbe, pertanto,  il solo diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro rese in violazione di disposizioni imperative, mentre in capo alle Amministrazioni è posto l’obbligo di recuperare le somme pagate a tale titolo.

Da segnalare poi, quale altra ragione sottesa alla mancata omologazione tra contratto a termine nel pubblico impiego e nell’impiego privato, l’esigenza concreta di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica, cui corrisponde una rigida programmazione del fabbisogno del personale con le dotazioni organiche, intese ad evitare il rischio di assumere un numero di persone maggiore di quanto possano consentire gli stanziamenti in bilancio.

Le considerazioni svolte spiegano meglio il divieto di conversione per tutte le ipotesi di rapporto con la Pubblica Amministrazione per il solo fatto che quest’ultima conserva pur sempre, anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato, una connotazione peculiare, essendo tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è e deve rimanere estranea ogni logica di mero profitto.

Per le ragioni sopra esposte la Suprema Corte ha ritenuto opportuno rimettere gli atti al Primo Presidente, affinché, ove condivida l’esigenza di una risposta nomofilattica al più alto livello sulla questione, valuti l’opportunità di assegnarne la trattazione e la decisione alle Sezioni Unite, atteso che la suddetta questione - sia per il cospicuo contenzioso ancora in corso, sia per il numero non esiguo dei soggetti interessati, sia infine anche per i connessi ipotizzabili profili di responsabilità amministrativa e contabile - possa qualificarsi ai sensi dell’art. 374, comma 2, c.p.c. “di massima di particolare importanza.

Valerio Pollastrini
 

(1)   - Ribadita dagli artt. 3 del  D.P.R. n. 3/1957 e 20 della Legge n. 93/1983;

Dimissioni durante la maternità – Diritto all’indennità sostitutiva del preavviso

La lavoratrice che rassegni le dimissioni durante il periodo nel quale sussiste il divieto di licenziamento in seguito alla maternità ha diritto all’indennità sostitutiva del preavviso, indipendentemente dalle ragioni che l’hanno indotta al recesso. E’ quanto disposto dalla Corte di Cassazione nella sentenza n.4919 del 3 marzo 2014.

Nel caso in commento, una lavoratrice che aveva rassegnato le dimissioni durante il periodo di operatività del divieto di licenziamento, conseguente al parto gemellare, si era rivolta al Tribunale di Reggio Emilia per ottenere il pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, con regolarizzazione della posizione contributiva e previdenziale.

Sia il Giudice di primo grado che la Corte di Appello di Bologna avevano accolto le richieste della dipendente.

La Corte di merito, in particolare, aveva affermato  che l’interpretazione letterale della norma di riferimento subordina il diritto alle indennità previste da disposizioni di legge unicamente al fatto delle dimissioni rassegnate nel corso del periodo nel quale sussiste il divieto di licenziamento.

In merito al quadro normativo di riferimento occorre ricordare che con il D.Lgs. 151/2001 il legislatore ha  inteso rafforzare la tutela prevista nel caso di dimissioni in periodo di gravidanza della lavoratrice e nel periodo successivo al parto,  estendendo anzi il beneficio anche in favore  del lavoratore che avesse fruito del congedo di paternità ed ai casi di adozione e di affidamento.

L’art. 55 del decreto citato condiziona inoltre  la risoluzione del rapporto alla convalida delle dimissioni da parte del servizio ispettivo del Ministero del Lavoro e precisa espressamente che il lavoratore o lavoratrice non sono tenuti al preavviso.

La norma si basa sulla presunzione che le dimissioni nel periodo di divieto non siano da ritenere frutto di una libera e volontaria scelta, ma coartate dalle esigenze di allevare la prole.

Tale  orientamento è stato ribadito e confermato nella vigenza della nuova normativa. Se il legislatore avesse voluto accogliere conclusioni diverse rispetto a quelle esposte nella sentenza di merito, avrebbe indubbiamente provveduto ad una diversa formulazione dell’art. 55, esplicitando i limiti e le condizioni di operatività del principio di equiparazione delle dimissioni al licenziamento.

La ratio di rafforzamento della tutela della lavoratrice madre risulta dunque incompatibile  con quanto affermato dal datore di lavoro che aveva sostenuto la necessità di sottoporre a condizioni e limiti l’eventuale diritto della stessa al preavviso, come, ad esempio, il fatto che la lavoratrice senza intervallo di tempo dalle dimissioni avesse iniziato un nuovo lavoro non  meno vantaggioso, sia sul piano patrimoniale che non patrimoniale del precedente.

Del resto, anche l’art. 104 del C.C.N.L. del  Commercio, applicabile al caso di specie, ribadisce il diritto della dipendente all’indennità sostitutiva del preavviso per il solo fatto di aver rassegnato le dimissioni durante il periodo oggetto di tutela, senza limiti o condizioni di sorta.

La società si era rivolta alla Corte di Cassazione, osservando che l’estensione della tutela in materia di dimissioni anche al padre lavoratore ed ai casi di adozione ed affidamento non rafforzerebbe la tutela, ma disporrebbe una semplice estensione della stessa, e che il D.Lgs. 151/2001 rappresenterebbe l’esito di una evoluzione legislativa con la quale sono stati estesi al padre lavoratore ed ai genitori adottivi i diritti in precedenza spettanti solo alla madre a protezione preminente degli interessi della prole.

Anche la previsione della necessità di convalida delle dimissioni da parte del servizio ispettivo del Ministero Lavoro,  secondo la ricorrente, sarebbe   uno strumento finalizzato alla verifica della volontarietà, autenticità e spontaneità del recesso della prestatrice di lavoro rispetto alla presunzione di non spontaneità del recesso stesso, sicché tale imposizione di verifica esterna non può essere considerata come rafforzamento della presunzione di non spontaneità, ma come dimostrazione del carattere relativo della presunzione stessa, con valorizzazione dei motivi delle dimissioni, che potrebbero essere dovute anche alla maggiore convenienza di passare ad altro impiego.

La relatività della presunzione di non spontaneità delle dimissioni,  sempre secondo la tesi aziendale,  comporterebbe la possibilità di provare la spontaneità e l’autenticità delle stesse,  escludendo, pertanto, il diritto  all’indennità di preavviso qualora il datore riuscisse a provare che la lavoratrice, dopo le dimissioni, abbia immediatamente iniziato  un nuovo lavoro  non meno vantaggioso del precedente sul piano patrimoniale o non patrimoniale.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’azienda, ricordando che la norma di cui all’art. 55 del D.Lgs. n. 151 del 26 marzo 2001 non possiede un contenuto innovativo rispetto alla precedente previsione di cui all’art. 12 della Legge  n. 1204 del 30 dicembre 1971, essendosi limitata soltanto ad estendere al padre lavoratore ed ai casi di affidamento e di adozione le medesime tutele, deponendo, invece, nel senso dell’introduzione di deroghe al principio dell’assolutezza della presunzione di non spontaneità delle dimissioni presentate durante il  periodo di divieto di licenziamento sia il comma 4 dell’art. 55 che il successivo comma 5°.

La Cassazione ha poi sottolineato che la disposizione di cui al comma 1 dell’art. 55 del D.Lgs. citato è perentoria nello stabilire che, in caso di dimissioni volontarie durante il periodo per cui è previsto il divieto di licenziamento, competono le indennità previste in caso di licenziamento e l’obbligo di corresponsione di tali indennità viene esteso dai successivi due commi ai casi del lavoratore padre che abbia fruito del congedo di paternità e nei casi di adozione e di affidamento nei limiti, in tale ultimo caso, di un anno dall’ingresso del minore nel nucleo familiare.

Ciò che risulta, invece, di carattere innovativo è la previsione dell’obbligo di convalida della dimissioni presentate nei periodi indicati dal comma 4° da parte del servizio ispettivo del Ministero del lavoro competente per territorio, previsione seguita dalla specificazione che “a detta convalida è condizionata la risoluzione del rapporto di lavoro”.

Quest’ultima precisazione consente di ritenere che il primo comma stabilisce la inderogabilità dell’obbligo di corrispondere le indennità ivi previste, in ogni caso, laddove il quarto comma prevede, ove intervenga la convalida delle dimissioni presentate da parte della lavoratrice o da parte dei soggetti destinatari della estensione di tutela, che possano ritenersi efficaci a fini risolutori del rapporto le dimissioni così presentate.

Né rileva ai fini di quanto sostenuto dalla società, che il quinto comma dell’art. 55 D.Lgs. 151/2001 cit. prevede la mancanza di obbligo di preavviso da parte della lavoratrice o del lavoratore in caso di dimissioni. Tale esonero è, invero, un ulteriore elemento a conforto del carattere assoluto della presunzione di non spontaneità delle dimissioni rassegnate nel periodo di divieto, poiché denota l’intenzione del legislatore di tutelare in modo ancora più netto il lavoratore che si trovi in un periodo di particolare disagio rispetto alla prosecuzione della precedente occupazione lavorativa.

Deve, dunque, anche con riferimento all’interpretazione del primo comma dell’art. 55 della nuova normativa, darsi continuità all’orientamento giurisprudenziale secondo il quale non può attribuirsi rilevanza al motivo delle dimissioni presentate in periodo di divieto di licenziamento, anche nell’ipotesi in cui le stesse risultino preordinate all’assunzione della lavoratrice (ed ora anche dei soggetti alla stessa equiparati) alle dipendenze di altro datore di lavoro (1).

Per le motivazioni sopra esposte la Corte di Cassazione ha confermato  il diritto della lavoratrice all’indennità di preavviso ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate 100,00 € per esborsi ed in 3.000,00 € per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Valerio Pollastrini


(1)   - cfr. Cass., 22 ottobre 1991, n. 11164; Cass., 24 agosto 1995, n. 8970;

Risoluzione del contratto per mutuo consenso

Nella sentenza n.4589 del 27 febbraio 2014 la Corte di Cassazione ha escluso la sussistenza di una risoluzione consensuale per mutuo consenso in seguito alla cessazione di un illegittimo contratto di lavoro a tempo determinato.

La pronuncia in commento prende le mosse dalla sentenza con la quale la Corte di Appello di Cagliari, riformando la sentenza di primo grado, aveva accertato la nullità dei contratti a termine con i quali in Banco di Sardegna aveva formalizzato dal 1992 al 1995 il rapporto di lavoro con una dipendente.

In particolare, la nullità del termine era stata rilevata dopo che la Corte aveva accertato che la stipulazione dei contratti fosse avvenuta  dopo che la lavoratrice aveva già iniziato a lavorare.

Per tale motivo la Corte territoriale aveva disposto la  trasformazione dei rapporti, fin dal 1992, in un unico contratto a tempo indeterminato ed aveva conseguentemente riconosciuto il diritto  della lavoratrice ad essere riassunta, con la condanna del Banco al  pagamento in suo favore  delle retribuzioni a decorrere dal luglio 2007.

Il Giudice di Appello aveva escluso che tra le parti fosse intervenuta una risoluzione consensuale del rapporto in seguito all’inerzia della lavoratrice, che aveva accettato senza rilievi  il TFR e  che, successivamente, aveva svolto prestazioni lavorative in favore di altri soggetti.

Dall’istruttoria, infatti,  era emerso che, dopo la cessazione dell’ultimo rapporto avvenuta nel 1995, la lavoratrice aveva richiesto di essere riassunta sia nel 1997 che nel 2004. Le prove testimoniali avevano inoltre    attestato che la lavoratrice fosse solita recarsi presso il Banco di Sardegna chiedendo se vi fossero concorsi o possibilità di assunzione anche a tempo determinato,  manifestando con ciò il proprio interesse alla prosecuzione del rapporto.

Il datore di lavoro aveva proposto ricorso in Cassazione, censurando Corte di merito per non aver attribuito rilevanza all’inerzia della lavoratrice, accompagnata da ulteriori indici che avrebbero confermato una risoluzione per mutuo consenso del rapporto di lavoro.

Secondo il Banco di Sardegna la richiesta espressa dall’allora ex lavoratrice di concludere un nuovo contratto ed il disinteresse della stessa per i contratti stipulati 12 anni prima dimostravano la precedente risoluzione del rapporto.

La pronuncia della Cassazione
Nel rigettare il ricorso dell’azienda, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza con la quale il Giudice di Appello si fosse uniformato ai principi più volte espressi dalla giurisprudenza di legittimità in base ai quali il lasso di tempo trascorso tra la cessazione del contratto a termine intercorso tra le parti e l’instaurazione del giudizio non costituiscono prova della volontà delle parti di risolvere consensualmente il rapporto.

La Cassazione ha ribadito che, in merito alla sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata - sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.

Si tratta, quest’ultima, di una valutazione riservata al Giudice di merito, le cui conclusioni, in mancanza vizi logici o errori di diritto, non sono censurabili in sede di legittimità (1).

Grava inoltre sul datore di lavoro che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze rivelatrici di una  chiara e certa volontà delle parti di porre fine definitivamente ad ogni rapporto di lavoro (2).

Per la Corte di legittimità le visite presso la banca durante le quali  la lavoratrice aveva chiesto informazioni  sulla possibilità di assunzione costituivano la manifestazione di un interesse all’assunzione, incompatibile con la supposta risoluzione consensuale del rapporto.

Di contro, la percezione del TFR e le prestazioni  a tempo determinato rese in favore di altri datori di lavoro non potevano  costituire elementi idonei a provare una certa cd univoca volontà della lavoratrice di risolvere il rapporto di lavoro.

Per tali ragioni la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda ed ha condannato il Banco di Sardegna a pagare le spese del  giudizio di legittimità, liquidate in  100.00 € per esborsi e 5.000,00 € per compensi professionali, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini
 

(1)   - v. ad es. Cass. 11-11- 2009 n. 23872, Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11-12- 2001 n. 15621;

(2)   - v. ad es. Cass. 2-12-2002 n. 17070;

mercoledì 5 marzo 2014

Ritrattazione delle dichiarazioni rese dal dipendente durante l’ispezione Inps

Nella sentenza n.4899 del 3 marzo 2014 la Corte di Cassazione si è espressa sulla valenza della successiva ritrattazione da parte del lavoratore delle dichiarazioni rese nel corso di un’ispezione dell’Inps.

All’esito del verbale ispettivo, l’Inps, nel caso di specie, aveva ingiunto all’azienda il pagamento della somma di 18.781,81 € per contributi omessi, accessori e sanzioni.

Il datore di lavoro aveva contestato la cartella esattoriale dinnanzi al Tribunale di Cosenza che ne aveva accolto le richieste.

La Corte di Appello di Catanzaro, riformando la sentenza di primo grado, aveva però respinto  l’opposizione dell’azienda.

La Corte di merito aveva ritenuto che dichiarazione sostitutiva dell’atto notorio resa da una delle dipendenti, attestante un orario di lavoro diverso rispetto a quello dichiarato agli ispettori, non fosse sufficiente a contrastare il contenuto del verbale ispettivo, confermato in sede testimoniale dagli stessi ispettori.

L’azienda aveva quindi ricorso in Cassazione, lamentando la carente e contraddittoria motivazione del Giudice di secondo grado in relazione alla valutazione delle prove in atti.

In particolare, il ricorrente aveva sostenuto che la successiva ritrattazione da parte di una lavoratrice della dichiarazione resa in un primo momento agli ispettori avesse privato i verbali ispettivi della valenza probatoria agli stessi riconosciuta dalla Corte territoriale, con la conseguenza che l’onere probatorio, gravante sull’Istituto, sarebbe rimasto inadempiuto.

La pronuncia della Cassazione
Richiamando un principio costantemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte ha ricordato che la valenza privilegiata attribuita al verbale ispettivo attiene esclusivamente ai  fatti  avvenuti in presenza del verbalizzante. Quanto da terzi dichiarato all’ispettore deve invece essere confermato in giudizio dai soggetti che hanno reso tali  dichiarazioni, fatto questo non avvenuto nella vicenda oggetto del contenzioso.

Con riguardo alla posizione assunta dalla lavoratrice, la Corte territoriale aveva effettivamente omesso di esaminare la documentazione ritualmente prodotta in giudizio attestante l’instaurazione tra le parti di un regolare rapporto di lavoro subordinato.

La Cassazione ha pertanto accolto il ricorso aziendale, rinviando alla Corte di Appello di Reggio Calabria il riesame della ritrattazione delle dichiarazioni rese dalla lavoratrice.

Valerio Pollastrini

Illegittimo licenziare il lavoratore che va a caccia durante la malattia

Nella sentenza n.4869 del 28 febbraio 2014 la Corte di Cassazione è tornata ad esprimersi in merito alla legittimità del licenziamento irrogato ad  un dipendente sorpreso a svolgere altra attività durante l’assenza dal lavoro per malattia.

Nel richiamare un costante orientamento  della giurisprudenza di legittimità, la Suprema Corte ha ricordato che l’espletamento da parte del lavoratore di altra attività, sia essa di natura lavorativa che extralavorativa, in concomitanza con lo stato di malattia, si traduce in una violazione dei  doveri contrattuali di correttezza e buona fede solamente nel caso in cui detta attività ne pregiudichi  ulteriormente lo stato di salute o ne ritardi la guarigione.

Il caso di specie è quello di un dipendente con mansioni di autista e di guardia giurata che aveva contestato il licenziamento intimatogli  dal datore di lavoro che lo aveva sorpreso in abiti da cacciatore  durante l’assenza per malattia.

Nel dirimere la controversia la Cassazione ha ribadito che, in base al citato orientamento, perché il recesso sia legittimo è necessario che l’altra attività risulti incompatibile con il lamentato stato di malattia o che sia, quantomeno, potenzialmente idonea ad impedire o ritardare la guarigione del lavoratore. Si tratta di una circostanza che, ai fini disciplinari, deve essere provata dal datore di lavoro.

Per la Suprema Corte nel caso in commento l’azienda non aveva provato che la caccia avesse messo a repentaglio la salute del lavoratore o ne avesse ritardato la guarigione causando un  danno al datore di lavoro.

In merito all’adeguatezza della sanzione espulsiva, la Cassazione ha ricordato che, per valutare  la proporzionalità di un provvedimento disciplinare alla condotta contestata, il Giudice deve accertare se la sanzione irrogata sia adeguata alla gravità dell’inadempimento del dipendente.

Nella vicenda in commento, come detto,  il datore di lavoro non era riuscito a provare che l’attività svolta in concomitanza con la malattia avesse pregiudicato la guarigione del lavoratore   e, pertanto, la Cassazione ha escluso che la condotta contestata al dipendente potesse aver  leso irreparabilmente il vincolo fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro.

Per tale ragione, il  licenziamento è stato ritenuto illegittimo.

Valerio Pollastrini

lunedì 3 marzo 2014

Al termine del rapporto di lavoro, il portiere deve restituire l’alloggio ricevuto in comodato

Nell’Ordinanza   n. 4658 del 26 febbraio 2014 la Corte di Cassazione  ha diramato la questione della durata di un contratto di comodato stipulato in favore del custode di un immobile.

Il caso di specie è quello del portiere di uno stabile che, in seguito all’assunzione, aveva ricevuto dal condominio un immobile in comodato.

Al termine del primo grado di giudizio, il Tribunale aveva ritenuto che il contratto di comodato fosse stato concluso a durata indeterminata ma una simile interpretazione era stata, in seguito, disconosciuta dalla Corte di Appello che aveva altresì imposto al portiere di lasciare l’immobile in conseguenza della cessazione del rapporto di lavoro.

Ricordando come la durata del comodato  dipenda dalle clausole contenute nel contratto, nonché dalla volontà espressa dalle parti, a seguito di assunzione di nuovo soggetto da adibire alle medesime funzioni, la Corte territoriale aveva disposto  il rilascio dell'immobile da parte del portiere.

Investita della questione, la Suprema Corte ha ritenuto corretta  l’interpretazione fornita dal giudice di Appello, escludendo che, a proposito del comodato,  le parti avessero espresso la volontà di stipulare un contratto  ad esclusivo beneficio abitativo del ricorrente.

Per la Cassazione, dunque,  la cessione in comodato dell'immobile  doveva essere intesa ad uso esclusivo del portiere solamente in via temporanea, con conseguente  legittimità della pretesa avanzata dal condominio sulla restituzione del suddetto immobile in seguito all’assunzione di altro soggetto.

Valerio Pollastrini

Assunzione di lavoratori in mobilità negli studi professionali

Con il Messaggio n.2761 del 21 febbraio 2014 l’Inps ha escluso che datori di lavoro possano godere delle agevolazioni contributive previste per l’assunzione di lavoratori la cui mobilità sia scaturita da un licenziamento irrogato da uno studio professionale.

Il quadro normativo di riferimento è quello di cui all’art.8, comma 4, della Legge n.223/1991, in base al quale  i datori di lavoro che assumono lavoratori in mobilità hanno diritto ad un contributo per ogni mensilità di  retribuzione corrisposta al dipendente, pari  al  50%  dell’indennità di mobilità che sarebbe stata corrisposta al lavoratore.

L’Istituto, in particolare, condiziona il proprio orientamento  al tenore letterale della Legge n.223/1991, per la quale “i datori di lavoro che assumono lavoratori licenziati da soggetti che non esercitino attività d’impresa non possono usufruire dei benefici contributivi in oggetto”.

La norma, dunque, subordina  la possibilità di utilizzare l’incentivo al possesso della qualifica di “imprenditore”  da parte del datore di lavoro che abbia effettuato il licenziamento in seguito al quale il lavoratore abbia acquisito il diritto alla mobilità, escludendo quindi coloro per i quali tale condizione non sussista, come nel caso  dei liberi professionisti.

La presente interpretazione fornita dall’Inps, che segna  l’integrale esclusione dal sistema degli ammortizzatori sociali per datori di lavoro non imprenditori, ha suscitato le vibranti proteste dell’Ordine dei Consulenti del lavoro e della Confprofessioni, poiché in aperto contrasto con quanto espresso dal Ministero del lavoro che, nell’Interpello n. 10/2011,  aveva  riconosciuto il diritto dei dipendenti degli studi professionali alla mobilità cd. non indennizzata, in caso di licenziamento per riduzione di personale.

Valerio Pollastrini

Condizioni per il ricongiungimento dei figli maggiorenni residenti in Paesi Extracomunitari

Diventa più facile far entrare nell’Ue un figlio maggiorenne non autosufficiente economicamente.

Nella sentenza del 16 gennaio 2014 (1) la Corte di Giustizia Ue si è espressa in merito all’interpretazione dell’art. 2, punto 2, lett. c), della Direttiva 2004/38/CE, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

In particolare, la Corte  ha chiarito che, per poter essere considerato a carico di un cittadino dell’Unione, un discendente di età superiore a 21 anni, cittadino di un Paese terzo, non è tenuto a dimostrare di aver inutilmente tentato di trovare un’attività lavorativa o di ricevere sussidi nel Paese di origine.

Il figlio maggiorenne avrà dunque diritto al permesso di soggiorno per ricongiungimento familiare nel caso in cui non risulti autosufficiente dal punto di vista economico.

Per accertare la sussistenza della sopraindicata condizione sarà necessario dimostrare che il familiare abbia costantemente inviato del denaro al figlio per un lungo periodo.

Valerio Pollastrini


(1)   - Causa C-423/12;

sabato 1 marzo 2014

Accertamento del mobbing nel pubblico impiego

In relazione alla condotta vessatoria che un dipendente pubblico aveva lamentato di aver subito da  alcuni superiori gerarchici, il Consiglio di Stato, nella sentenza n.846 del 21 febbraio 2014, ha ricordato come non necessariamente un contrasto o un giudizio negativo può risultare idoneo ad attestare una sicura volontà di discriminare ed emarginare il lavoratore ed ha quindi negato la sussistenza del “mobbing” in caso di percezioni irrealistiche, se non distorte dei fatti accaduti.

Il caso in commento è quello che ha riguardato una dottoressa in servizio presso la USL RM/3 di Roma che, successivamente dispensata dal servizio per inabilità fisica assoluta e permanente al lavoro, aveva dichiarato  di avere curato  a lungo  gli aspetti amministrativi e contabili relativi  al Servizio di igiene mentale.

Nel corso di tale attività, la lavoratrice aveva sostenuto di aver subito dai suoi dirigenti alcuni comportamenti offensivi e lesivi della sua posizione di funzionario, tradottisi in vere e proprie pratiche di mobbing.

Per tali ragioni  la dottoressa  si era rivolta al TAR del Lazio per il risarcimento del danno subito.

Il suo ricorso era  stato però dichiarato inammissibile.

La lavoratrice aveva dunque proposto Appello, ribadendo la domanda risarcitoria, anche alla luce della CTU depositata agli atti di altra causa pendente, volta ad attestare la riconducibilità della sua infermità invalidante a cause di servizio.

Nel secondo grado di giudizio le richieste della lavoratrice erano state accolte in parte, con l’ammissibilità della domanda risarcitoria proposta in prime cure.

L’esito dell’istruttoria aveva evidenziato  l’assenza di  situazioni di lavoro particolari assegnate alla dottoressa  al di fuori di quelle specifiche della sua qualifica, l’assenza di segnalazioni o esposti inviati  alla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro circa i pretesi comportamenti mobbizzanti, nonché l’insorgenza della sindrome depressivo - ansiosa con astenia, insonnia, in un periodo precedente rispetto a quello supposto, come risultato dalla nota del responsabile CFR - Risorse Umane, prot. n. 4799 del 30 aprile 1999.

Prima della decisione del Consiglio di Stato, tra le parti era intervenuta la sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda della dottoressa in merito alla dipendenza della patologia, che aveva determinato  la risoluzione del  rapporto di lavoro, da causa di servizio.

La pronuncia del Consiglio di Stato
Il giudicante ha preso in considerazione anzitutto la circostanza che, dalla CTU del giudizio civile per l’ottenimento della pensione privilegiata, era risultato che l’appellante aveva accusato  uno stato ansioso-depressivo ed una sindrome neuro distonica ben prima di quanto la stessa aveva denunciato.

Il Collegio ha dunque  rilevato come il quadro clinico dell’appellante  fosse già psicopatologico  in un tempo ben anteriore agli anni  durante i quali la dottoressa aveva affermato di  avere subito vessazioni sul posto di lavoro.

Le indagini diagnostiche svolte da un sanitario di fiducia della lavoratrice aveva inoltre attestato una condizione depressiva di media gravità, caratterizzata da una percezione persecutoria della realtà.

Questa, in sostanza, la situazione di partenza cronica dell’appellante, dovuta a situazioni endogenee e perlopiù estranee alla dimensione lavorativa.

Gli accadimenti lavorativi che avevano determinato il riacutizzarsi del quadro clinico della lavoratrice erano stati da lei percepiti come stressanti ed ostili sulla base di una personale chiave di lettura persecutoria e non per il loro reale significato.

Il Collegio giudicante ha riconosciuto come, in linea di  principio,  le vicende organizzative della riforma sanitaria avvenuta all’epoca del trasferimento della dottoressa  si erano sviluppate  in modo tumultuoso e talora confuso, spesso per ragioni non virtuose.   Tale situazione certamente era stata fonte di un maggiore stress per chi, come l’appellante, soffriva di un disturbo di scarso o nullo adattamento verso le mutevoli realtà ed equilibri di funzioni, poteri ed apporti professionali. Si tratta però di una complessità causata da una vicenda comune a tutti i lavoratori del SSN e non da una peculiare e sgradevole situazione in cui, senza sua colpa, versò l’appellante.

Il Consiglio di Stato ha quindi affermato che nonostante la valutazione della gravità di un evento stressante a livello psichico deve considerare le modalità con cui  lo stesso venga vissuto ed inteso dal soggetto passivo, la dottoressa si era ben presto trovata in presenza di una condizione disreattiva.

Sul punto, di sicura rilevanza appariva il salto logico riportato dalla CTU tra la mera elencazione delle cause di psicostress professionale o lavorativo e le ragioni per cui queste erano state percepite dall’appellante come mobbing.  Il Collegio, pertanto, ha affermato che la mera percezione di condizioni lavorative come stressanti era in realtà dipesa dallo stato psichico personale dell’appellante e non da una pessima conduzione dei rapporti tra gli addetti allo stesso ufficio.

Il Consiglio di Stato ha quindi ricordato che  non ogni contrasto o giudizio negativo sull’attività lavorativa  costituisce una sicura volontà di discriminare ed emarginare un sottoposto, così come una condotta “mobbizzante” non può lecitamente essere riscontrata in base a soggettive percezioni irrealistiche, se non distorte, dei fatti.

Nel caso in commento, il dirigente sanitario aveva imputato alla dottoressa una serie di addebiti ritenuti infondati dalla dipendente che ad essi aveva reagito in modo rigido e tendendo in seguito ad assentarsi dal posto di lavoro.

Anche nel caso i cui i dirigenti sanitari avessero nutrito antipatia nei confronti della dottoressa, ciò non sarebbe sufficiente a dimostrare il mobbing, in quanto le supposte vessazioni si erano rivelate  frutto della  iperreattività, causata da un disturbo a lungo sofferto ed irrisolto, nonché della  impossibilità della lavoratrice a svolgere proficuamente ed in modo assiduo i delicati compiti assegnatigli.

 
Per le considerazioni sopra espresse, il giudicante, depurati i fatti accaduti dalla valutazione personale della lavoratrice, ha respinto il ricorso, escludendo la sussistenza di un sicuro e dimostrato nesso di causalità tra gli eventi dedotti e la presunta volontà discriminatoria dei superiori gerarchici.

L’intento vessatorio  deve inoltre essere escluso, non soltanto per il disturbo cronico dell’appellante, ma anche per i diversi  indizi concordanti  sfavorevoli alla sua tesi, quali, ad esempio, l’assenza di situazioni di lavoro particolari assegnate alla dottoressa al di fuori di quelle tipiche della  qualifica di appartenenza  o di segnalazioni od esposti inviati    alla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro.

Valerio Pollastrini

 

Prescrizione quinquennale anche per i contributi dei liberi professionisti

Con la sentenza n.4050 del 17 dicembre 2013 - 20 febbraio 2014, la Corte di Cassazione ha chiarito che la prescrizione quinquennale dei crediti contributivi trova applicazione anche nei confronti dei liberi professionisti verso le Casse Previdenziali di appartenenza.

Il caso di specie è quello che ha riguardato un Ingegnere che aveva avanzato l’eccezione di prescrizione nei confronti della INARCASSA - Cassa Nazionale di Previdenza ed Assistenza per gli Ingegneri ed Architetti Liberi Professionisti.

Dopo che il Tribunale di Torino aveva rigettato l’eccezione sollevata dal Professionista, la Corte di Appello di Torino, riformando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato prescritto il credito richiesto dalla Cassa di Previdenza, in virtù del limite quinquennale introdotto dall'art. 3, commi 9 e 10, della Legge n. 335 del 1995 e dall'art. 38 dello Statuto  dell’Ente.

La Corte di merito aveva chiarito che al caso in esame non fosse applicabile il termine decennale  previsto dall’art. 18 della Legge n. 6 del 1981, in quanto la successiva norma del 1995 ha regolato in materia organica e completa l'intera materia della prescrizione dei crediti contributivi degli Enti Previdenziali con riferimento a tutte le forme di previdenza obbligatorie e quindi anche  alle vecchie discipline speciali relative ai vari Ordini di appartenenza dei liberi professionisti.

La pronuncia della Cassazione
Nel confermare quanto stabilito nel giudizio di Appello, la Suprema Corte ha chiarito come il tenore letterale della disposizione di cui alla Legge n. 335 del 1995, art. 3, comma 9, non lascia spazio ad interpretazioni diverse.

Con quest’ultima norma, infatti, il legislatore  ha voluto regolare l'intera materia della prescrizione dei crediti contributivi degli Enti Previdenziali, con riferimento a tutte le forme di previdenza obbligatoria e quindi anche quelle per i liberi professionisti.

Valerio Pollastrini

Ispezioni Inps per la verifica del possesso del Durc

La legge n. 296/2006  (1)  consente la possibilità di utilizzare eventuali agevolazioni contributive solamente ai datori di lavoro in possesso del Documento Unico di Regolarità Contributiva.  Tale presupposto viene attestato direttamente dall’Inps attraverso la creazione di  un Durc virtuale interno, senza quindi l’emissione di un Durc formale vero e proprio.
 
Gli esiti del Durc interno sono indicati dall’Inps nel «cassetto previdenziale aziende» mediante un semaforo, il cui colore di accensione indicherà i seguenti risultati:
-         Verde: Durc regolare;  
-         Giallo:  Irregolarità riscontrata e avvio della richiesta di  regolarizzazione;
-         Rosso: Durc negativo per mancata  regolarizzazione.
Con il messaggio n. 2889/2014 l’Inps ha annunciato un’imminente operazione ispettiva finalizzata ad accertare il possesso del Durc da parte dei datori di lavoro che hanno usufruito di agevolazioni contributive nei periodi compresi tra gennaio 2008 e maggio 2014.
I controlli verranno effettuati nei prossimi mesi di maggio, giugno e settembre.
Coloro che avessero beneficiato di agevolazioni contributive nonostante la presenza di irregolarità pregresse, saranno chiamati a sanare gli inadempimenti entro 15 giorni.

In mancanza di regolarizzazione scatterà l’esclusione definitiva dal bonus con contestuale richiesta di rimborso di quanto fruito più le sanzioni.

Valerio Pollastrini

(1)   – Legge Finanziaria 2007;