La pronuncia
in commento prende le mosse dalla sentenza con la quale la Corte di Appello di
Cagliari, riformando la sentenza di primo grado, aveva accertato la nullità dei
contratti a termine con i quali in Banco di Sardegna aveva formalizzato dal
1992 al 1995 il rapporto di lavoro con una dipendente.
In
particolare, la nullità del termine era stata rilevata dopo che la Corte aveva
accertato che la stipulazione dei contratti fosse avvenuta dopo che la lavoratrice aveva già iniziato a
lavorare.
Per tale
motivo la Corte territoriale aveva disposto la trasformazione dei rapporti, fin dal 1992, in
un unico contratto a tempo indeterminato ed aveva conseguentemente riconosciuto
il diritto della lavoratrice ad essere
riassunta, con la condanna del Banco al
pagamento in suo favore delle
retribuzioni a decorrere dal luglio 2007.
Il Giudice
di Appello aveva escluso che tra le parti fosse intervenuta una risoluzione
consensuale del rapporto in seguito all’inerzia della lavoratrice, che aveva
accettato senza rilievi il TFR e che, successivamente, aveva svolto prestazioni
lavorative in favore di altri soggetti.
Dall’istruttoria,
infatti, era emerso che, dopo la
cessazione dell’ultimo rapporto avvenuta nel 1995, la lavoratrice aveva
richiesto di essere riassunta sia nel 1997 che nel 2004. Le prove testimoniali
avevano inoltre attestato che la lavoratrice fosse solita
recarsi presso il Banco di Sardegna chiedendo se vi fossero concorsi o
possibilità di assunzione anche a tempo determinato, manifestando con ciò il proprio interesse alla
prosecuzione del rapporto.
Il datore di
lavoro aveva proposto ricorso in Cassazione, censurando Corte di merito per non
aver attribuito rilevanza all’inerzia della lavoratrice, accompagnata da ulteriori
indici che avrebbero confermato una risoluzione per mutuo consenso del rapporto
di lavoro.
Secondo il
Banco di Sardegna la richiesta espressa dall’allora ex lavoratrice di
concludere un nuovo contratto ed il disinteresse della stessa per i contratti
stipulati 12 anni prima dimostravano la precedente risoluzione del rapporto.
La pronuncia della Cassazione
Nel
rigettare il ricorso dell’azienda, la Suprema Corte ha rilevato la correttezza
con la quale il Giudice di Appello si fosse uniformato ai principi più volte
espressi dalla giurisprudenza di legittimità in base ai quali il lasso di tempo
trascorso tra la cessazione del contratto a termine intercorso tra le parti e
l’instaurazione del giudizio non costituiscono prova della volontà delle parti
di risolvere consensualmente il rapporto.
La
Cassazione ha ribadito che, in merito alla sussistenza di un unico rapporto di
lavoro a tempo indeterminato sul presupposto dell’illegittima apposizione al
contratto di un termine finale ormai scaduto, affinché possa configurarsi una
risoluzione del rapporto per mutuo consenso è necessario che sia accertata -
sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo
contratto a termine, nonché del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali
circostanze significative - una chiara e certa comune volontà delle parti
medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo.
Si tratta,
quest’ultima, di una valutazione riservata al Giudice di merito, le cui
conclusioni, in mancanza vizi logici o errori di diritto, non sono censurabili
in sede di legittimità (1).
Grava inoltre sul datore di lavoro che eccepisca la
risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze rivelatrici di
una chiara e certa volontà delle parti
di porre fine definitivamente ad ogni rapporto di lavoro (2).
Per la Corte di legittimità le visite presso la banca durante
le quali la lavoratrice aveva chiesto informazioni
sulla possibilità di assunzione
costituivano la manifestazione di un interesse all’assunzione, incompatibile
con la supposta risoluzione consensuale del rapporto.
Di contro, la
percezione del TFR e le prestazioni a
tempo determinato rese in favore di altri datori di lavoro non potevano costituire elementi idonei a provare una certa
cd univoca volontà della lavoratrice di risolvere il rapporto di lavoro.
Per tali
ragioni la Cassazione ha rigettato il ricorso dell’azienda ed ha condannato il Banco
di Sardegna a pagare le spese del giudizio di legittimità, liquidate in 100.00 € per esborsi e 5.000,00 € per compensi
professionali, oltre accessori di legge.
Valerio
Pollastrini
(1)
- v. ad es. Cass. 11-11- 2009 n. 23872, Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n.
20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 11-12- 2001 n. 15621;
(2) - v. ad es. Cass. 2-12-2002 n. 17070;
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