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sabato 1 marzo 2014

Accertamento del mobbing nel pubblico impiego

In relazione alla condotta vessatoria che un dipendente pubblico aveva lamentato di aver subito da  alcuni superiori gerarchici, il Consiglio di Stato, nella sentenza n.846 del 21 febbraio 2014, ha ricordato come non necessariamente un contrasto o un giudizio negativo può risultare idoneo ad attestare una sicura volontà di discriminare ed emarginare il lavoratore ed ha quindi negato la sussistenza del “mobbing” in caso di percezioni irrealistiche, se non distorte dei fatti accaduti.

Il caso in commento è quello che ha riguardato una dottoressa in servizio presso la USL RM/3 di Roma che, successivamente dispensata dal servizio per inabilità fisica assoluta e permanente al lavoro, aveva dichiarato  di avere curato  a lungo  gli aspetti amministrativi e contabili relativi  al Servizio di igiene mentale.

Nel corso di tale attività, la lavoratrice aveva sostenuto di aver subito dai suoi dirigenti alcuni comportamenti offensivi e lesivi della sua posizione di funzionario, tradottisi in vere e proprie pratiche di mobbing.

Per tali ragioni  la dottoressa  si era rivolta al TAR del Lazio per il risarcimento del danno subito.

Il suo ricorso era  stato però dichiarato inammissibile.

La lavoratrice aveva dunque proposto Appello, ribadendo la domanda risarcitoria, anche alla luce della CTU depositata agli atti di altra causa pendente, volta ad attestare la riconducibilità della sua infermità invalidante a cause di servizio.

Nel secondo grado di giudizio le richieste della lavoratrice erano state accolte in parte, con l’ammissibilità della domanda risarcitoria proposta in prime cure.

L’esito dell’istruttoria aveva evidenziato  l’assenza di  situazioni di lavoro particolari assegnate alla dottoressa  al di fuori di quelle specifiche della sua qualifica, l’assenza di segnalazioni o esposti inviati  alla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro circa i pretesi comportamenti mobbizzanti, nonché l’insorgenza della sindrome depressivo - ansiosa con astenia, insonnia, in un periodo precedente rispetto a quello supposto, come risultato dalla nota del responsabile CFR - Risorse Umane, prot. n. 4799 del 30 aprile 1999.

Prima della decisione del Consiglio di Stato, tra le parti era intervenuta la sentenza con la quale il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda della dottoressa in merito alla dipendenza della patologia, che aveva determinato  la risoluzione del  rapporto di lavoro, da causa di servizio.

La pronuncia del Consiglio di Stato
Il giudicante ha preso in considerazione anzitutto la circostanza che, dalla CTU del giudizio civile per l’ottenimento della pensione privilegiata, era risultato che l’appellante aveva accusato  uno stato ansioso-depressivo ed una sindrome neuro distonica ben prima di quanto la stessa aveva denunciato.

Il Collegio ha dunque  rilevato come il quadro clinico dell’appellante  fosse già psicopatologico  in un tempo ben anteriore agli anni  durante i quali la dottoressa aveva affermato di  avere subito vessazioni sul posto di lavoro.

Le indagini diagnostiche svolte da un sanitario di fiducia della lavoratrice aveva inoltre attestato una condizione depressiva di media gravità, caratterizzata da una percezione persecutoria della realtà.

Questa, in sostanza, la situazione di partenza cronica dell’appellante, dovuta a situazioni endogenee e perlopiù estranee alla dimensione lavorativa.

Gli accadimenti lavorativi che avevano determinato il riacutizzarsi del quadro clinico della lavoratrice erano stati da lei percepiti come stressanti ed ostili sulla base di una personale chiave di lettura persecutoria e non per il loro reale significato.

Il Collegio giudicante ha riconosciuto come, in linea di  principio,  le vicende organizzative della riforma sanitaria avvenuta all’epoca del trasferimento della dottoressa  si erano sviluppate  in modo tumultuoso e talora confuso, spesso per ragioni non virtuose.   Tale situazione certamente era stata fonte di un maggiore stress per chi, come l’appellante, soffriva di un disturbo di scarso o nullo adattamento verso le mutevoli realtà ed equilibri di funzioni, poteri ed apporti professionali. Si tratta però di una complessità causata da una vicenda comune a tutti i lavoratori del SSN e non da una peculiare e sgradevole situazione in cui, senza sua colpa, versò l’appellante.

Il Consiglio di Stato ha quindi affermato che nonostante la valutazione della gravità di un evento stressante a livello psichico deve considerare le modalità con cui  lo stesso venga vissuto ed inteso dal soggetto passivo, la dottoressa si era ben presto trovata in presenza di una condizione disreattiva.

Sul punto, di sicura rilevanza appariva il salto logico riportato dalla CTU tra la mera elencazione delle cause di psicostress professionale o lavorativo e le ragioni per cui queste erano state percepite dall’appellante come mobbing.  Il Collegio, pertanto, ha affermato che la mera percezione di condizioni lavorative come stressanti era in realtà dipesa dallo stato psichico personale dell’appellante e non da una pessima conduzione dei rapporti tra gli addetti allo stesso ufficio.

Il Consiglio di Stato ha quindi ricordato che  non ogni contrasto o giudizio negativo sull’attività lavorativa  costituisce una sicura volontà di discriminare ed emarginare un sottoposto, così come una condotta “mobbizzante” non può lecitamente essere riscontrata in base a soggettive percezioni irrealistiche, se non distorte, dei fatti.

Nel caso in commento, il dirigente sanitario aveva imputato alla dottoressa una serie di addebiti ritenuti infondati dalla dipendente che ad essi aveva reagito in modo rigido e tendendo in seguito ad assentarsi dal posto di lavoro.

Anche nel caso i cui i dirigenti sanitari avessero nutrito antipatia nei confronti della dottoressa, ciò non sarebbe sufficiente a dimostrare il mobbing, in quanto le supposte vessazioni si erano rivelate  frutto della  iperreattività, causata da un disturbo a lungo sofferto ed irrisolto, nonché della  impossibilità della lavoratrice a svolgere proficuamente ed in modo assiduo i delicati compiti assegnatigli.

 
Per le considerazioni sopra espresse, il giudicante, depurati i fatti accaduti dalla valutazione personale della lavoratrice, ha respinto il ricorso, escludendo la sussistenza di un sicuro e dimostrato nesso di causalità tra gli eventi dedotti e la presunta volontà discriminatoria dei superiori gerarchici.

L’intento vessatorio  deve inoltre essere escluso, non soltanto per il disturbo cronico dell’appellante, ma anche per i diversi  indizi concordanti  sfavorevoli alla sua tesi, quali, ad esempio, l’assenza di situazioni di lavoro particolari assegnate alla dottoressa al di fuori di quelle tipiche della  qualifica di appartenenza  o di segnalazioni od esposti inviati    alla Pubblica Amministrazione datrice di lavoro.

Valerio Pollastrini

 

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