Il caso in
commento è quello che ha riguardato una dottoressa in servizio presso la USL
RM/3 di Roma che, successivamente dispensata dal servizio per inabilità fisica
assoluta e permanente al lavoro, aveva dichiarato di avere curato a lungo
gli aspetti amministrativi e contabili relativi al Servizio di igiene mentale.
Nel corso di
tale attività, la lavoratrice aveva sostenuto di aver subito dai suoi dirigenti
alcuni comportamenti offensivi e lesivi della sua posizione di funzionario,
tradottisi in vere e proprie pratiche di mobbing.
Per tali
ragioni la dottoressa si era rivolta al TAR del Lazio per il risarcimento
del danno subito.
Il suo
ricorso era stato però dichiarato
inammissibile.
La
lavoratrice aveva dunque proposto Appello, ribadendo la domanda risarcitoria,
anche alla luce della CTU depositata agli atti di altra causa pendente, volta
ad attestare la riconducibilità della sua infermità invalidante a cause di
servizio.
Nel secondo
grado di giudizio le richieste della lavoratrice erano state accolte in parte,
con l’ammissibilità della domanda risarcitoria proposta in prime cure.
L’esito dell’istruttoria
aveva evidenziato l’assenza di situazioni di lavoro particolari assegnate
alla dottoressa al di fuori di quelle
specifiche della sua qualifica, l’assenza di segnalazioni o esposti inviati alla Pubblica Amministrazione datrice di
lavoro circa i pretesi comportamenti mobbizzanti, nonché l’insorgenza della
sindrome depressivo - ansiosa con astenia, insonnia, in un periodo precedente
rispetto a quello supposto, come risultato dalla nota del responsabile CFR -
Risorse Umane, prot. n. 4799 del 30 aprile 1999.
Prima della
decisione del Consiglio di Stato, tra le parti era intervenuta la sentenza con
la quale il Tribunale di Roma aveva accolto la domanda della dottoressa in
merito alla dipendenza della patologia, che aveva determinato la risoluzione del rapporto di lavoro, da causa di servizio.
La pronuncia del Consiglio di Stato
Il
giudicante ha preso in considerazione anzitutto la circostanza che, dalla CTU
del giudizio civile per l’ottenimento della pensione privilegiata, era
risultato che l’appellante aveva accusato uno stato ansioso-depressivo ed una sindrome neuro
distonica ben prima di quanto la stessa aveva denunciato.
Il Collegio ha
dunque rilevato come il quadro clinico
dell’appellante fosse già psicopatologico
in un tempo ben anteriore agli anni durante i quali la dottoressa aveva affermato
di avere subito vessazioni sul posto di
lavoro.
Le indagini
diagnostiche svolte da un sanitario di fiducia della lavoratrice aveva inoltre attestato
una condizione depressiva di media gravità, caratterizzata da una percezione
persecutoria della realtà.
Questa, in
sostanza, la situazione di partenza cronica dell’appellante, dovuta a
situazioni endogenee e perlopiù estranee alla dimensione lavorativa.
Gli
accadimenti lavorativi che avevano determinato il riacutizzarsi del quadro
clinico della lavoratrice erano stati da lei percepiti come stressanti ed ostili
sulla base di una personale chiave di lettura persecutoria e non per il loro reale
significato.
Il Collegio
giudicante ha riconosciuto come, in linea di principio, le vicende organizzative della riforma
sanitaria avvenuta all’epoca del trasferimento della dottoressa si erano sviluppate in modo tumultuoso e talora confuso, spesso
per ragioni non virtuose. Tale situazione
certamente era stata fonte di un maggiore stress per chi, come l’appellante,
soffriva di un disturbo di scarso o nullo adattamento verso le mutevoli realtà
ed equilibri di funzioni, poteri ed apporti professionali. Si tratta però di
una complessità causata da una vicenda comune a tutti i lavoratori del SSN e
non da una peculiare e sgradevole situazione in cui, senza sua colpa, versò
l’appellante.
Il Consiglio
di Stato ha quindi affermato che nonostante la valutazione della gravità di un
evento stressante a livello psichico deve considerare le modalità con cui lo stesso venga vissuto ed inteso dal soggetto
passivo, la dottoressa si era ben presto trovata in presenza di una condizione disreattiva.
Sul punto,
di sicura rilevanza appariva il salto logico riportato dalla CTU tra la mera
elencazione delle cause di psicostress professionale o lavorativo e le ragioni
per cui queste erano state percepite dall’appellante come mobbing. Il Collegio, pertanto, ha affermato che la
mera percezione di condizioni lavorative come stressanti era in realtà dipesa dallo
stato psichico personale dell’appellante e non da una pessima conduzione dei
rapporti tra gli addetti allo stesso ufficio.
Il Consiglio
di Stato ha quindi ricordato che non
ogni contrasto o giudizio negativo sull’attività lavorativa costituisce una sicura volontà di discriminare
ed emarginare un sottoposto, così come una condotta “mobbizzante” non può
lecitamente essere riscontrata in base a soggettive percezioni irrealistiche,
se non distorte, dei fatti.
Nel caso in
commento, il dirigente sanitario aveva imputato alla dottoressa una serie di
addebiti ritenuti infondati dalla dipendente che ad essi aveva reagito in modo
rigido e tendendo in seguito ad assentarsi dal posto di lavoro.
Anche nel
caso i cui i dirigenti sanitari avessero nutrito antipatia nei confronti della
dottoressa, ciò non sarebbe sufficiente a dimostrare il mobbing, in quanto le
supposte vessazioni si erano rivelate frutto della iperreattività, causata da un disturbo a lungo
sofferto ed irrisolto, nonché della impossibilità della lavoratrice a svolgere
proficuamente ed in modo assiduo i delicati compiti assegnatigli.
Per le
considerazioni sopra espresse, il giudicante, depurati i fatti accaduti dalla
valutazione personale della lavoratrice, ha respinto il ricorso, escludendo la
sussistenza di un sicuro e dimostrato nesso di causalità tra gli eventi dedotti
e la presunta volontà discriminatoria dei superiori gerarchici.
L’intento
vessatorio deve inoltre essere escluso, non
soltanto per il disturbo cronico dell’appellante, ma anche per i diversi indizi concordanti sfavorevoli alla sua tesi, quali, ad esempio,
l’assenza di situazioni di lavoro particolari assegnate alla dottoressa al di fuori
di quelle tipiche della qualifica di
appartenenza o di segnalazioni od
esposti inviati alla Pubblica Amministrazione
datrice di lavoro.
Valerio
Pollastrini
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