Chi siamo


MEDIA-LABOR Srl - News dal mondo del lavoro e dell'economia


domenica 30 marzo 2014

Escluso il lavoro a chiamata per gli operatori dei call center

Con Interpello n.10 del  25 marzo 2014 il Ministero del lavoro ha fornito i chiarimenti sollecitati dal Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro in merito al possibile utilizzo del lavoro intermittente per il personale addetto alle attività di call center in-bound e/o out-bound., attraverso un rinvio alle figure degli “addetti ai centralini telefonici privati”, contemplate al n. 12 della tabella allegata al R.D. n. 2657/1923.

Come noto, l’art.40 del D.Lgs. n.276/2003, in aggiunta ai requisiti soggettivi ed oggettivi richiesti per la legittima stipulazione dei c.d. contratti a chiamata, consente il ricorso a tale tipologia contrattuale anche per le attività elencate nella menzionata tabella allegata al R.D. n. 2657/1923.

La specifica istanza  era stata finalizzata all’accertamento della possibile inclusione del  personale addetto alle attività di call center in-bound e/o out-bound  nella rubricata figura professionale degli “addetti ai centralini telefonici privati”.

Il Ministero ha escluso tale possibilità, evidenziando come l’attività degli “addetti ai centralini telefonici privati” abbia un precisa connotazione, consistente esclusivamente nello smistamento delle telefonate.

Quella svolta dagli operatori di call center risulta essere, invece,   una prestazione maggiormente articolata, in quanto normalmente inserita  nell’ambito di un servizio o di una attività promozionale o di vendita da parte dell’impresa. Questa interpretazione risulta inoltre confermata dal legislatore, laddove nell’ art. 61 del D.Lgs. n.276/2003 ammette il ricorso a contratti di collaborazione a progetto per attività di call center out-bound quando trattasi di attività di vendita diretta di beni e di servizi.

Il semplice utilizzo dello strumento telefonico, pertanto, non è sufficiente ad equiparare le categorie professionali in questione.

In conclusione, in Ministero ha ricordato come la possibilità di instaurare un rapporto di lavoro intermittente per attività di call center in-bound e/o out-bound sussista unicamente nel caso in cui il lavoratore risulti in possesso dei requisiti anagrafici previsti dalla legge o qualora ciò sia previsto dalla contrattazione collettiva di riferimento.

Valerio Pollastrini

sabato 29 marzo 2014

Nuove modalità per il rilascio del Cud da parte dell’Inps

In applicazione di quanto disposto dal comma 114 dell’articolo 1 della legge n.288 del 24 dicembre 2012, che ha imposto all’Inps di inoltrare ai propri utenti il modello Cud attraverso il canale telematico, il 28 marzo 2014 l’Istituto ha diramato la Circolare  n.45 per illustrare le nuove modalità di trasmissione  della certificazione unica dei redditi di lavoro dipendente, pensione e assimilati.

Fornitura telematica del CUD
Il modello CUD sarà  disponibile nella dedicata sezione “Servizi al cittadino” del sito istituzionale www.inps.it

 
Previa identificazione tramite il codice Pin personale, il certificato potrà essere visualizzato e stampato.

I possessori di un indirizzo di posta elettronica certificata CEC-PAC, noto all’Istituto, riceveranno  il modello nella alla casella PEC corrispondente.

Gli utenti che, all’atto della richiesta del codice Pin, avessero indicato  un indirizzo di posta elettronica ordinaria, saranno invece informati via e-mail sulla disponibilità del CUD nel sito dell’Istituto.

Modalità alternative per la ricezione del CUD
Nell’interesse dei cittadini privi delle dotazioni e competenze necessarie per la piena fruizione dei servizi on-line, la Circolare ha ricordato come, in alternativa alla via telematica, l’Inps abbia approntato ulteriori  modalità  per il rilascio del Cud.

Sarà, pertanto, possibile richiedere ed ottenere in tempo reale il rilascio del modello utilizzando i seguenti canali di accesso:

1)    Servizio erogato dalle Strutture dell’Istituto – Si potrà richiedere il rilascio cartaceo del Cud in tutte le Strutture dell’Istituto nelle quali sia stato organizzato uno sportello appositamente dedicato. A proposito di questa procedura, la Circolare ha precisato che,  salvo quanto descritto al successivo punto 4 in tema di delega o mandato a soggetto diverso dal titolare, la certificazione potrà essere rilasciata solamente al soggetto intestatario, previa identificazione dello stesso.

2)    Postazioni informatiche self service – I possessori del codice Pin potranno utilizzare le postazioni informatiche self service presenti in ogni struttura territoriale dell’Istituto per la stampa del modello Cud, avvalendosi, ove necessario, dell’assistenza del personale dell’URP.

3)    Posta elettronica – Come riportato in precedenza, ai possessori di un indirizzo di posta elettronica certificata CEC-PAC noto all’Istituto, il Cud verrà notificato nella casella PEC corrispondente.

Per gli utenti che avessero reso noto all’Inps il proprio indirizzo di posta elettronica certificata  in un momento successivo a quello dell’invio dei modelli tramite e-mail da parte all’Istituto, la Circolare ha precisato di aver predisposto il seguente indirizzo richiestaCUD@postacert.inps.gov.it, nel quale sarà possibile richiedere la trasmissione del Cud  all’indirizzo di posta certificata.

4)    Patronati, Centri di assistenza fiscale, professionisti abilitati all’assistenza fiscale – Per l’acquisizione del Cud in via telematica, gli utenti potranno avvalersi di un ente di Patronato, di un CAF o di un professionista, purché tali soggetti siano  in possesso di PIN e di certificato Entratel personale in corso di validità.

La Circolare ha ricordato che la visualizzazione del CUD da parte dei suddetti intermediari sarà subordinata all’acquisizione di una specifica delega o mandato di assistenza e al possesso di alcuni dati riguardanti il richiedente. L’accesso al servizio di visualizzazione e stampa del CUD  sarà inoltre subordinato all’inserimento in procedura, oltre ovviamente del Codice Fiscale, anche di alcuni dati univoci riguardanti l’interessato. In alternativa l’intermediario potrà inserire a sistema le copie scannerizzate della delega/mandato e del documento d’identità del cittadino richiedente.

5)    Comuni ed altre Pubbliche Amministrazioni abilitate – Sarà possibile ottenere il Cud anche presso i Comuni e le altre Pubbliche Amministrazioni che abbiano sottoscritto un protocollo con l’Istituto per l’attivazione di un punto cliente di servizio. Come per gli intermediari, anche in questo caso la visualizzazione del CUD da parte degli operatori delle Pubbliche Amministrazioni sarà subordinata all’esistenza di una specifica richiesta del cittadino.

6)    Uffici postali – Il modello potrà essere altresì rilasciato dagli Uffici Postali appartenenti alla rete “Sportello Amico”. In questo caso l’utente dovrà  sostenere un costo pari a 2,70 € più Iva.

7)    Sportello Mobile per utenti ultraottantacinquenni titolari di indennità di accompagnamento, speciale o di comunicazione – In considerazione delle condizioni nelle quali versano alcune categorie di utenti particolarmente disagiati, negli ultimi anni l’Inps ha attivato un servizio, denominato “Sportello Mobile”, per l’erogazione con modalità agevolate di alcuni prodotti istituzionali, tra i quali il rilascio della certificazione in argomento.

I cittadini rientranti nelle suddette categorie ed in possesso del codice personale fornito con apposita comunicazione dell’Istituto potranno contattare un operatore della Sede territorialmente competente al numero telefonico indicato nella richiamata comunicazione per richiedere l’invio della certificazione stessa al proprio domicilio.

8)    Pensionati residenti all’estero - I pensionati residenti all’estero potranno richiedere la certificazione, fornendo i propri dati anagrafici e il numero di codice fiscale, ai seguenti numeri telefonici dedicati 06.59054403 – 06.59053661 – 06.59055702, con orario 8.00 – 19,00 (ora italiana). 

9)    Spedizione del CUD al domicilio del titolare – L’Inps sarà comunque obbligata a rilasciare il Cud in forma cartacea ai cittadini che ne facessero richiesta. La Circolare ha chiarito che l’Istituto, provvederà, attraverso la propria articolazione territoriale ed il contact center multicanale, all’invio del CUD al domicilio del  titolare,  solamente nei casi in cui la richiesta dell’utente ne attesti l’impossibilità di accedere alla certificazione, direttamente o delegando altro soggetto, mediante i servizi sopra elencati. In aggiunta ai già esistenti numero verde 803.164 per i telefoni fissi e 06164164 per i telefoni cellulari, per la presente modalità di rilascio del Cud è stato attivato il numero verde 800.43.43.20.

Modalità di rilascio CUD a soggetto diverso dal titolare
La Circolare ha infine illustrato le modalità per la richiesta del  rilascio del CUD a persona diversa dal titolare.

Tale  richiesta potrà essere presentata sia da persona delegata che da parte degli eredi del soggetto titolare deceduto.

Nel primo caso, alla richiesta dovrà essere allegata la delega con la quale si autorizza esplicitamente l’INPS al rilascio della certificazione richiesta e la fotocopia del documento di riconoscimento dell’interessato.  La persona delegata dovrà, a sua volta, esibire il proprio documento di riconoscimento.

L’Istituto ha chiarito che nei casi di richiesta di CUD trasmessa dall’indirizzo di posta elettronica certificata CEC-PAC, l’allegazione della copia del documento di riconoscimento del delegato non è necessaria.

Nel secondo caso, invece, l’utente, unitamente alla fotocopia del proprio documento di riconoscimento, dovrà presentare una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, attestante  la propria qualità di erede.

Valerio Pollastrini

Pubblico Impiego: conseguenze sul rapporto di lavoro della condanna penale del dipendente

Nella sentenza n.1923 del 29 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha chiarito che, nell’ambito di un rapporto di Pubblico Impiego,  l’Amministrazione possa iniziare il procedimento disciplinare a carico di un dipendente, per poi sospenderlo in attesa della sentenza che chiude il processo penale nel quale lo stesso risulti imputato.

In alternativa, in seguito al provvedimento di custodia cautelare, l’Ente può  sospendere in via cautelativa il lavoratore fino all’esito del giudizio penale ed avviare il procedimento disciplinare  solo dopo l’esito della sentenza.

Si tratta, quest’ultima, di un’opzione che garantisce al dipendente una maggiore garanzia e che, pertanto,  non può penalizzare il prudente comportamento tenuto dell’azienda, specie in virtù dell’interesse generale che la Pubblica Amministrazione è chiamata a tutelare.

Il caso posto all’attenzione della Suprema Corte è quello di un  operatore tecnico di cucina e dispensa alle dipendenze dell’Azienda Ospedaliera Universitaria OORR San Giovanni di Dio e Ruggi D’Aragona, arrestato   con l’accusa di usura ed estorsione.

In conseguenza del provvedimento cautelare, l’azienda aveva sospeso il lavoratore dal servizio, decidendo di attendere la conclusione del processo penale prima di iniziare l’azione disciplinare.

Dopo la condanna in primo grado a 4 anni e 20 giorni di reclusione più una multa, il lavoratore aveva patteggiato in Appello la pena di 3 anni e 10 giorni di reclusione, oltre 1.600,00 € di ammenda.

In seguito ad indulto, la Corte di Appello di Salerno aveva revocato l’ordine di esecuzione della pena residua di 11 mesi ed 1 giorno  di reclusione.

Allegando copia di tale ultimo provvedimento, il lavoratore aveva presentato all’Azienda Ospedaliera la richiesta di riassunzione in servizio.

In quel momento, l’azienda aveva però dato inizio al procedimento disciplinare attraverso la convocazione del dipendente. Dopo  l’audizione, la procedura di contestazione era stata sospesa in attesa che il lavoratore inoltrasse all’Amministrazione una  copia della sentenza di Appello. Richiesta alla quale il ricorrente aveva ritenuto di non adempiere.

L’azienda aveva quindi disposto il licenziamento del dipendente, previa un preavviso di quattro mesi.

Il lavoratore aveva impugnato il recesso dinnanzi al Tribunale di Salerno, prima in via d’urgenza, poi con ricorso ordinario, ma  entrambi i ricorsi erano stati rigettati.

Successivamente, anche la Corte di Appello di Salerno aveva confermato la legittimità del recesso ed il dipendente aveva quindi adito la Corte di Cassazione, contestando al Giudice di merito di aver raggiunto la propria decisione ignorando la decisiva circostanza circa l’avvenuta conoscenza dei fatti da parte dell’azienda sin dal momento del suo arresto. Sul punto il lavoratore lamentava la mancata ammissione dei mezzi istruttori finalizzati a provare tale conoscenza, nonché la mancata valutazione dei documenti allegati costituiti dagli articoli comparsi su tre quotidiani locali.

Quale fondamento della  tesi sostenuta, il ricorrente aveva richiamato la giurisprudenza di legittimità, in base alla quale il termine per avviare il procedimento disciplinare a carico di dipendenti pubblici decorre dalla sentenza solamente se attraverso di essa l’Amministrazione venga a conoscenza dei fatti. Rimanendo preclusa questa possibilità nel caso di una conoscenza risalente ad un periodo precedente.

La pronuncia della Cassazione
Nel respingere il ricorso, la Suprema Corte ha preliminarmente ricordato come l’accertamento del preciso momento nel quale  l’azienda fosse venuta a  conoscenza del reato rientra tra le competenze  riservate al Giudice di merito, la cui decisione, se adeguatamente motivata, non può essere oggetto di riesame da parte della Cassazione.

La Corte di Appello aveva correttamente distinto tra conoscenza del fatto della sottoposizione del dipendente a custodia cautelare, in seguito alla quale era stata disposta la sospensione cautelare dal servizio, dalla conoscenza della condanna definitiva dello stesso, che ne aveva giustificato il licenziamento.

In particolare, le norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (1), prevedono che  il lavoratore può essere licenziato a seguito di una sentenza penale irrevocabile di condanna.

La richiamata disposizione di legge chiarisce che l’azienda, dopo aver dato inizio al procedimento disciplinare, possa  poi sospenderlo in attesa della sentenza penale.

In alternativa, la Pubblica Amministrazione può tuttavia procedere alla sospensione cautelare del lavoratore  in relazione al provvedimento di custodia cautelare a suo carico ed attendere l’esito del giudizio penale  prima di  iniziare il procedimento disciplinare.

A proposito della seconda opzione, la Cassazione ha affermato che tale scelta, fornendo al dipendente maggiori garanzie, non può penalizzare il comportamento prudente dell’azienda, soprattutto in virtù  dell’interesse generale che la Pubblica Amministrazione è obbligata a tutelare.

L’attesa di una sentenza irrevocabile prima di iniziare il procedimento disciplinare consente all’azienda una conoscenza del fatto in tutte le sue componenti, materiali e giuridiche, indispensabili ai fini di un’esaustiva valutazione dell’accaduto, in quanto la sussistenza del reato viene compiutamente accertata con la sentenza che conclude il processo e non con il provvedimento di custodia cautelare.

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte ha inoltre rilevato che il ricorrente non aveva fornito la prova della conoscenza dei fatti da parte dell’azienda sin dal momento della custodia cautelare, risultando a tal fine insufficiente che notizia degli stessi era apparsa sugli organi di stampa.

Valerio Pollastrini


(1)   - art. 5 della Legge n.97 del 27 marzo 2001;

Il datore di lavoro ha l’obbligo di fornire ai dipendenti le attrezzature adeguate

Nella sentenza n.13987 del 25 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che tra gli obblighi imposti alle aziende rientra quello di fornire ai  dipendenti le attrezzature di lavoro adeguate, arrivando a prevenire anche un loro possibile utilizzo imprudente.

Il caso all’oggetto della Suprema Corte è quello di un datore di lavoro condannato per il reato di cui agli articoli 71, comma 1, e 87, comma 2, lettera c), del D.Lgs. n.81/2008 per avere messo a disposizione dei dipendenti delle attrezzature di lavoro inadeguate.

L'imputato aveva proposto ricorso contro la pronuncia di merito, sostenendo che il macchinario fosse conforme alle normative sulla  sicurezza, mentre la Corte di Appello avrebbe  illogicamente ritenuto che anche quelle parti del macchinario con le quali gli operai non potevano venire in contatto sarebbero dovute essere inoffensive.

Nel rigettare il ricorso, la Cassazione  ha ricordato come, a proposito degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro non può invocare l’errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti dei lavoratori.

Il legale rappresentante di un’impresa risponde infatti dell'infortunio non soltanto in seguito alla  colpa diretta configuratasi nel  non aver  impedito l'evento lesivo ed eliminato le condizioni di rischio, ma anche  nelle circostanze di un colpa indiretta, qualora le misure di prevenzione adottate risultino inadeguate.

Pertanto, anche un’eventuale condotta imprudente dei lavoratori, tranne che nelle ipotesi di imprevedibile eccezionalità, non solleva il datore di lavoro dalle responsabilità in materia antinfortunistica.

Valerio Pollastrini

giovedì 27 marzo 2014

Il datore di lavoro può legittimamente irrogare un secondo licenziamento allo stesso lavoratore per ragioni diverse dal primo

Il caso di specie, sul quale la Corte di Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi, è quello del secondo recesso irrogato da un datore di lavoro allo stesso dipendente, per ragioni attinenti a fatti diversi rispetto a quelli addotti in un precedente recesso invalidato dal giudice.

La Suprema Corte ha ricordato come la giurisprudenza, in regime di tutela reale, ritenga ammissibile per il datore di lavoro che avesse irrogato al lavoratore un licenziamento individuale, l’intimazione di una seconda comunicazione di recesso, fondata su  motivazioni  diverse e sconosciute in precedenza. Rimanendo in tal caso l’efficacia del secondo recesso  condizionata all'eventuale declaratoria di illegittimità del primo. 

La Corte ha poi chiarito che, anche nel caso in cui il datore di lavoro  avesse già intimato al lavoratore il licenziamento per una determinata causa, lo stesso  potrebbe, altresì, legittimamente irrogare al medesimo dipendente un secondo recesso riferito ad una diversa causa, rimanendo  i due atti del tutto autonomi e distinti tra loro ed astrattamente idonei a raggiungere lo scopo della risoluzione del rapporto, in quanto  il secondo licenziamento produrrebbe i suoi effetti solo in caso di una riconosciuta invalidità o inefficacia del precedente.

Sulla base di tali argomentazioni, nella sentenza n.6845 del 24 marzo 2014,la Corte di Cassazione ha ribadito che l'intimazione del licenziamento non preclude al datore di lavoro la possibilità di irrogare un altro recesso fondato su ragioni diverse da quelle poste a fondamento del primo, fermo restando che il secondo licenziamento potrà assumere rilevanza solo nel caso di inefficacia del primo.

Valerio Pollastrini

Efficacia del licenziamento irrogato durante la malattia

Nella sentenza n.1777 del 28 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che l’efficacia del licenziamento irrogato durante la malattia del lavoratore dipende dalla tipologia di recesso.

Il caso in commento è quello di un  addetto all’ufficio legale  del Comune di Viterbo, licenziato con preavviso in seguito alla sua condotta assenteista.

Con ricorso per provvedimento di urgenza, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento dinnanzi al Giudice del lavoro.

 
Con ordinanza ex art. 669 sexies c.p.c. il Tribunale di Viterbo, in accoglimento della domanda cautelare, aveva ordinato al Comune di non dare corso al licenziamento e di reintegrare l’istante nel posto di lavoro.

Il giudizio di merito aveva confermato l’illegittimità del recesso ed il Comune era ricorso in Appello, contestando alla sentenza di primo grado l’affermazione circa l’intempestività del licenziamento.

La Corte di Appello di Roma aveva accolto il ricorso, ritenendo tempestiva l’irrogazione della sanzione, con conseguente legittimità del recesso originato dall’atteggiamento assenteista del dipendente, la cui gravità era stata giudicata idonea per la   sanzione espulsiva.

Nell’adire la Cassazione, il ricorrente aveva sostenuto che la Corte di Appello avesse erroneamente valutato tanto le circostanze di fatto che avevano determinato il licenziamento, quanto le risultanze istruttorie acquisite a proposito degli addebiti contestati.

In particolare, il giudicante avrebbe erroneamente interpretato l’art. 24 del Contratto Collettivo del  personale del comparto regioni-enti locali, in base al quale "il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione d'addebito. Qualora non sia stato portato a termine entro tale data, il procedimento si estingue".

Atteso che tra la data di ricevimento della contestazione dell’addebito e quella di irrogazione del licenziamento era decorso un lasso di tempo superiore ai 120 giorni, la Corte di merito avrebbe  dovuto rilevare l’estinzione del procedimento disciplinare.

La pronuncia della Cassazione
Al riguardo, la Suprema Corte ha premesso  che l’art. 2110 del Codice Civile prevede che nel caso di malattia del lavoratore il datore può recedere dal rapporto  solo dopo il decorso del periodo di conservazione del posto di lavoro fissato dalla legge e dai Contratti Collettivi.

Le disposizioni della richiamata norma codicistica, impediscono al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto comporto), contemperando così  i confliggenti interessi del dell’azienda a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce e del lavoratore ad un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione.

La giurisprudenza, tuttavia, coordinando tale principio con le varie fattispecie legali di recesso, da una parte esclude che lo stato di malattia possa precludere l’irrogazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto  in presenza di un comportamento che non consente la prosecuzione neppure temporanea del rapporto (1), mentre, parallelamente, impone la sospensione dell’efficacia del licenziamento per giustificato motivo o il decorso del periodo di preavviso nel caso in cui  la malattia sia intervenuta durante tale periodo (2) . Ne consegue che il licenziamento durante lo stato di malattia, se non  irrogato per giusta causa,  rimane sospeso fino alla guarigione, per acquisire efficacia solo da quel momento (3).

Applicando tali principi al caso di specie, la Cassazione ha chiarito che  il momento di sofferenza del procedimento di licenziamento irrogato al lavoratore dovesse essere  individuato non nella circostanza che l’addebito fosse stato contestato durante lo stato di malattia, atteso che l’efficacia della contestazione sarebbe a sua volta rimasta sospesa fino al momento della guarigione, ma nella verifica dell’effettivo godimento delle garanzie apprestate dalla legge e dalla norma contrattuale per l’esercizio di difesa del lavoratore.

Con riguardo alla menzionata disposizione contrattuale, la giurisprudenza di legittimità  ha già enunciato in passato il principio in base al quale, qualora il Contratto Collettivo preveda termini volti a scandire le fasi del procedimento disciplinare e un termine per la conclusione di tale procedimento, solo quest’ultimo é perentorio, con conseguente nullità della sanzione in caso di inosservanza, mentre i termini interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della sanzione solo nel caso in cui l’incolpato denunci, con concreto fondamento, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della sua difesa (4).

Il Giudice di merito aveva accertato come la contestazione scritta dell’addebito fosse stata ricevuta  dal dipendente durante il periodo in cui il diritto di recesso del datore di lavoro risultava sospeso, ai sensi dell’art. 2110, c. 2, c.c.

Dall’istruttoria era tuttavia emerso che il Comune di Viterbo avesse successivamente reiterato  la convocazione scritta del lavoratore per l’esercizio  della sua difesa prevista dall’art. 24 del CCNL, già inviata in costanza del periodo di malattia.

Facendo sempre riferimento ai principi sopra enunciati, gli ermellini hanno dunque rilevato che la contestazione era stata validamente effettuata nel corso del periodo di malattia, anche se - a seguito della sospensione di efficacia ex art. 2110 c.c. – era divenuta operativa solo dal momento della guarigione del lavoratore.

Con tale considerazione la Suprema Corte ha quindi chiarito  che il lasso di tempo intercorso tra la contestazione  e l’irrogazione del licenziamento, aveva largamente rispettato  i termini  massimi indicati dalla disposizione collettiva (5).

La Cassazione, pertanto, ha  ritenuto corretta la motivazione della sentenza del Giudice di Appello, attestando, altresì, l’infondatezza   dell’ulteriore doglianza sulla dedotta carenza di motivazione per l’incoerente valutazione delle circostanze di fatto che avevano determinato il licenziamento.

Le circostanze di fatto che il lavoratore assumeva non fossero state prese in considerazione erano state, invece, puntualmente valutate dal Giudice di Appello  e ritenute ininfluenti per la giustificazione del comportamento disciplinare contestato.

La Corte di Cassazione ha quindi concluso rigettando il ricorso del lavoratore, il quale è stato  condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.500,00 € per compensi professionali, 100 € per esborsi, oltre Iva e cpa.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., sentenza  n.11674 del 1° giugno 2005; Cass., sentenza n.2209 del 27 febbraio 1998;
(2)    - Cass., sentenza  n.23063 del 10 ottobre 2013; Cass., sentenza  n.9037 del  4 luglio 2001;
(3)    - Cass., sentenza    n.239 del 7 gennaio 2005; Cass., sentenza    n.10881 del  6 agosto 2001;
(4)   - Cass., sentenza  n.6091 del  12 marzo 2010; Cass., sentenza     n.23484 del 19 novembre 2010;
(5)   - Cass., sentenza  n.7848 del 4 aprile 2006;

Lavoro domestico – Predisposto un video informativo

In prossimità della scadenza del 10 aprile per il versamento dei contributi del primo trimestre 2014, con la News del 27 marzo l’Inps ha reso nota la predisposizione di un video esplicativo  dei servizi online offerti dall’Istituto ai datori di lavoro.

Tra questi, il pagamento dei contributi tramite il servizio “Pagamento lavoratori domestici”, disponibile nell’app. Inps Servizi Mobile.

Scopo dell’iniziativa è quello di agevolare le famiglie negli adempimenti legati all’assunzione di un lavoratore domestico, come le comunicazioni obbligatorie richieste all’atto dell’assunzione, in caso di variazioni o di cessazione del rapporto di lavoro, e il versamento trimestrale dei contributi.


 

Ridotto il premio Inail 2014

E’ in attesa di essere adottata con Decreto Interministeriale la determina del Presidente dell’Inail n. 67/2014 che ha fissato al 14,17% lo sconto applicabile dalle aziende ai premi Inail nel 2014.

La riduzione riguarderà ogni tipologia di premio, relativo a tutte gestione, e potrà essere cumulata con altri  incentivi eventualmente spettanti.

La riduzione verrà applicata in sede di autoliquidazione, la cui scadenza, quest’anno, è stata prorogata al 16 maggio.

 
Per il 2014, le risorse disponibili, destinate alla riduzione del premio, sono state pari ad un miliardo di euro e l’Inail ha provveduto a fissare un’unica misura di sconto applicabile a tutte le tipologie di premio e per tutte le gestioni, rapportando le risorse disponibili all’ammontare di gettito dei premi per l’anno di riferimento.

Nei prossimi anni l’Inail effettuerà nuove determinazioni avendo a disposizione maggiori risorse, rispettivamente pari ad 1,1 miliardi di euro per il 2015 e 1,2 miliardi di euro per il 2016.

Valerio Pollastrini

Jobs Act - Smaterializzazione del DURC

Il Decreto Legge n. 34/2014, recante le prime disposizioni operative del c.d. Jobs Act, ha modificato sostanzialmente la procedura relativa all’accertamento della regolarità contributiva aziendale.

La verifica del requisito avverrà in tempo reale, per mezzo esclusivo della modalità telematica.

L’esito dell’interrogazione avrà una validità di 120 giorni dalla data di acquisizione e sostituirà ad ogni effetto il Documento Unico di Regolarità Contributiva (DURC).

L’operatività della modifica sarà però subordinata ad un Decreto Interministeriale che il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sarà chiamato ad emanare entro i 60 giorni successivi al 21 marzo 2014, data di entrata in vigore del D.L. n.34, e con il quale verranno definiti i requisiti di regolarità, i contenuti e le modalità della verifica, nonché le ipotesi di esclusione.

L’attesa disposizione ministeriale dovrà rispettare le  seguenti prescrizioni:

-         L’accertamento in tempo reale dovrà riguardare la verifica dei pagamenti scaduti sino all’ultimo giorno del secondo mese antecedente a quello in cui il controllo è effettuato, a patto che sia scaduto anche il termine di presentazione delle relative denunce retributive e comprenderà anche le posizioni dei lavoratori con contratto di collaborazione coordinata e continuativa e a progetto presenti all’interno dell’impresa;
-         L’interrogazione potrà essere inoltrata indifferentemente all’INPS, all’INAIL o alle Casse edili che, cooperando tra loro, effettueranno l’integrazione ed il riconoscimento reciproco dei dati, indicando esclusivamente il codice fiscale del soggetto da verificare;
-         Nelle ipotesi di godimento di benefici normativi e contributivi, verranno individuate specifiche  tipologie di violazione  della normativa previdenziale e di tutela delle condizioni di lavoro che impediranno l’attestazione di regolarità.

Valerio Pollastrini

martedì 25 marzo 2014

Soggette a contribuzione le somme corrisposte al lavoratore in seguito ad una transazione

Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, le somme erogate al dipendente in sede transattiva al solo scopo di porre fine alla lite, evitandone il rischio connesso senza tuttavia il riconoscimento da parte del datore di lavoro del diritto avanzato dal dipendente, non sono soggette alla contribuzione previdenziale.

Sconfessando questo orientamento, nella sentenza n.6037 del 14 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che per sottrarre all’obbligo contributivo le somme erogate in seguito ad una transazione non è sufficiente accertare l’assenza di uno  stretto nesso di corrispettività ma è altresì indispensabile attestare se risulti un titolo autonomo, diverso e distinto dal rapporto di lavoro, che ne giustifichi la corresponsione.

Si tratta di un verifica  richiesta, a detta della Suprema Corte, dal dettato letterale dell’art.12 della legge n.153/1969, che annovera tra la retribuzione imponibile ai fini contributivi tutto ciò che il lavoratore riceve, in natura o in denaro, dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro.

 
L'indagine a cui è chiamato il Giudice di merito deve essere dunque incentrata sull’accertamento della natura retributiva o meno delle somme erogate al lavoratore, senza che nessun valore possa essere attribuito  al titolo formale di tali erogazioni.

Quello relativo al versamento dei contributi previdenziali è un diritto indisponibile da parte del lavoratore beneficiario e, pertanto, non può assumere efficacia una volontà negoziale che regoli in maniera diversa l'obbligazione retributiva, risolvendo con un contratto di transazione la controversia insorta in ordine al rapporto di lavoro, precludendo alle parti  il relativo accertamento giudiziale.

La Cassazione ha quindi concluso affermando che una transazione  avente ad oggetto il credito contributivo derivante dalla legge in relazione all'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, rimanendo estranea al rapporto tra il lavoratore  e l'INPS, non è idonea ad escludere l’obbligo contributivo relativo alle somme erogate.

Valerio Pollastrini

L’apprendistato alla luce delle novità del Jobs Act

Prosegue l’analisi delle modifiche di alcuni istituti contrattuali introdotte dal Decreto Legge n.34/2014,  per mezzo  del quale il 21 marzo sono entrate in vigore le prime disposizioni del Jobs Act.

Il presente documento circoscrive l’analisi alle novità previste per l’apprendistato, ricordando che, pur se immediatamente operativo, il Decreto nei prossimi giorni dovrà passare  al vaglio del Parlamento che, in sede di conversione, potrà cambiarne i contenuti, anche in modo sostanziale.

L’attuale testo normativo, nel confermare la necessità della forma scritta per la stipulazione del contratto di apprendistato, nonché per l’eventuale apposizione del patto di prova, esclude tale obbligo per la redazione del  Piano Formativo Individuale.

Rispetto al passato,  l’instaurazione di nuovi contratti di apprendistato non sarà più condizionata alla conferma in servizio da parte dell’azienda di precedenti apprendisti al termine del percorso formativo.

Con riguardo alla fattispecie finalizzata  al conseguimento di una  qualifica o di un diploma professionale, nella fase relativa alle ore di formazione le aziende potranno corrispondere all’apprendista una retribuzione pari al 35% del compenso minimo fissato dal Contratto Collettivo applicabile per lo specifico livello  di inquadramento.

Ultima modifica, forse la più incisiva per il rilancio di questo istituto, è costituita dall’eliminazione dell’obbligo per il datore di lavoro di integrare la formazione impartita all’apprendista con l’offerta formativa pubblica, relegata ora a semplice   elemento discrezionale.

Valerio Pollastrini

Illegittimo lo sciopero che esponga a rischi la pubblica incolumità

Nella sentenza n.6328 del 19 marzo 2014 la Cassazione ha escluso la legittimità dello sciopero posto in essere da alcuni lavoratori con modalità tali da arrecare un  rischio alla pubblica incolumità.

Nel caso di specie, alcuni dipendenti avevano protestato contro la decisione con la quale il datore di lavoro aveva disposto la loro  messa in cassa integrazione a zero ore, occupando  un carro ponte dell’azienda posto a dieci metri dal suolo, determinando così l’interruzione del funzionamento dell'intera linea produttiva.

A seguito di tale evento i lavoratori erano stati licenziati ed avevano impugnato il recesso sostenendo che, attraverso l’azione per la quale erano stati puniti, avevano esercitato il loro diritto di sciopero.

I Giudici di merito avevano respinto il ricorso, ritenendo che la descritta condotta, pur se riconducibile all’esercizio diritto di sciopero, fosse stata del tutto sproporzionata in quanto aveva messo a repentaglio, oltre gli impianti occupati, l’incolumità dei lavoratori coinvolti, con ciò esponendo a pericolo la pubblica utilità.

Investita della questione, la Corte di Cassazione ha precisato che il diritto allo sciopero e la tutela della pubblica incolumità costituiscono distinti interessi garantiti costituzionalmente, tra i quali, però, quello alla tutela dell’integrità fisica risulta sicuramente preminente, poiché rubricato tra i c.d. diritti fondamentali.

Per tale ragione, la Suprema Corte ha confermato la pronuncia di Appello che, in base alla riscontrata antigiuridicità della condotta contestata ai dipendenti, aveva ritenuto irreparabilmente leso il rapporto fiduciario posto alla base del rapporto di lavoro. Conseguentemente, la sanzione del licenziamento è stata dichiarata legittima.

Valerio Pollastrini

Licenziamento per contrazione dell’attività commerciale

Nella sentenza n.902 del 17 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha negato la sussistenza della contrazione dell’attività commerciale addotta dal datore di lavoro come fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato ad un dipendente.

Il caso in commento è quello di un lavoratore, responsabile della qualità e del coordinamento delle risorse operative, licenziato per giustificato motivo oggettivo derivante dalla contrazione dell’attività commerciale.

Il Tribunale di Milano aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, condannando la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Tale decisione era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello di Milano che, con riguardo al recesso, aveva osservato che il dipendente, era stato dapprima demansionato e successivamente licenziato per soppressione del posto di lavoro.

Tale licenziamento doveva considerarsi illegittimo dal momento che il datore di lavoro non aveva fornito la prova né che il posto fosse stato soppresso, né della contrazione dell’attività commerciale. Le  mansioni affidate al dipendente erano infatti state attribuite ad altra persona e  la società aveva continuato ad assumere, anche se con contratti atipici, altro personale.

Rispetto alla   sentenza di primo grado, la Corte di merito aveva sottratto dalle retribuzioni spettanti al lavoratore  la somma di 2.515.00 €, equivalente ai redditi d’impresa  dallo stesso percepiti nelle more della declaratoria dell’illegittimità del recesso.

L’azienda aveva impugnato la sentenza di Appello dinnanzi alla Cassazione, sostenendo che la qualificazione professionale del lavoratore in seguito licenziato esulasse dalle mansioni assegnate  ad altra dipendente.

Le  mansioni di responsabile della qualità e del coordinamento delle risorse operative sarebbero state del tutto marginali, rispetto alla principale attività svolta dal lavoratore di ricerca e sviluppo della clientela di natura commerciale.

A differenza di quanto affermato dalla Corte di merito, l’azienda aveva poi sostenuto di aver fornito la prova documentale e testimoniale della soppressione del posto di lavoro del dipendente e della ristrutturazione del settore commerciale nell’ambito di un più ampio processo di razionalizzazione di tutte le strutture della società, finalizzato ad ottimizzare i costi.

Il datore di lavoro riteneva inoltre di aver provato come, dopo il licenziamento, le mansioni del lavoratore  ricorrente erano state ridistribuite tra il personale già in forza al momento del recesso.

La prova sarebbe stata fornita anche sulle seguenti altre circostanze:

-         effettiva contrazione dell’attività commerciale;
-         nessuno dei collaboratori di cui si era avvalsa la società dopo il licenziamento del lavoratore aveva svolto le mansioni commerciali di quest’ultimo;
-         le mansioni di carattere non commerciale assegnate al predetto dipendente, oltre ad avere carattere marginale, erano state assegnate ad altra dipendente su richiesta dello stesso lavoratore;
-        il distacco a Roma del medesimo era stato determinato dall’esigenza di sviluppare nuovi mercati nel centro Italia e, al contempo, di conservarne il più a lungo possibile il posto di lavoro.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte, dopo aver ricordato come il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia dettato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, ha  chiarito che la valutazione delle esigenze tecnico-economiche e delle ragioni di carattere produttivo-organizzativo compete esclusivamente al datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta sia espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione.

La Cassazione ha però proseguito affermando  che l’accertamento della reale sussistenza delle anzidette esigenze  e ragioni spetta invece al Giudice. Al rigurardo, occorre tener conto del consolidato orientamento giurisprudenziale che impone al datore di lavoro di provare, anche attraverso elementi presuntivi o indiziari, l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte  o in posti di lavoro confacenti alle sue mansioni (1).

La Suprema Corte, con riguardo alle assunzioni di nuovo personale successivamente al licenziamento, ha poi affermato che il datore di lavoro è obbligato ad indicare e dimostrare le assunzioni effettuate, il relativo periodo, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi assunti e le ragioni per cui tali mansioni non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo.

Tali elementi debbono essere presi in considerazione nell’analisi valutativa compiuta dal Giudice che, se adeguatamente motivata, come nel caso di specie, è incensurabile in sede di legittimità.

La Corte di Appello aveva  correttamente accertato la mancata dimostrazione da parte del ricorrente della soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato

Nei confronti del lavoratore era stato attuato un progressivo demansionamento sino al momento del recesso ed anche le mansioni commerciali gli erano state sottratte con le motivazioni, del tutto generiche, relative all’esigenza di aprire nuovi mercati.

Le mansioni di responsabile della qualità e di coordinamento delle risorse operative erano state inoltre attribuite ad altra dipendente e l’azienda non aveva fornito alcuna prova della supposta contrazione dell’attività commerciale, posto che la società dal 2003 al 2005 aveva continuato ad assumere, anche se con contratti atipici, varie persone.

Alla stregua di tali accertamenti la Corte di legittimità ha ritenuto prive di fondamento le censure mosse alla impugnata sentenza, avendo il Giudice di Appello fornito esaurientemente conto delle ragioni del suo convincimento, con motivazione immune da vizi e senza incorrere in omissioni o contraddizioni.

Per tutte le ragione sopra riportate, la Cassazione ha rigettato il ricorso aziendale ed ha inoltre condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass. 7381/10; Cass. 11720/09, Cass. 15500/09, Cass. 6552/09, Cass. 25885/08 e, più recentemente, Cass. 7474/12;

domenica 23 marzo 2014

La nuova disciplina del contratto a tempo determinato

Il 21 marzo, con l’entrata in vigore del Decreto Legge n.34/2014 sono diventate operative le misure più urgenti del Jobs Act.

Le modifiche apportate, tra l’altro, all’istituto dei contratti a tempo determinato, impongono un’analisi riepilogativa dell’intera disciplina ora vigente.

A questo proposito, la principale novità riguarda principalmente il c.d. “contratto acausale”, per in quale, si ricorda,  l’apposizione del termine al contratto non richiede alcuna ragione di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Questa tipica fattispecie contrattuale potrà avere una durata massima di  36 mesi.

L’altra grande novità riguarda la possibilità di proroga, ora ammessa fino ad 8 volte nel limite dei 36 mesi.

Il Decreto ha inoltre introdotto un requisito numerico per la legittima stipulazione dei contratti a termine. Ogni azienda potrà infatti farvi ricorso entro il limite del  20% dell’organico compressivo. I datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti potranno comunque  stipulare almeno un contratto di lavoro a tempo determinato.

Occorre precisare che il suddetto limite numerico non opera per i contratti a tempo determinato stipulati nel rispetto della vecchia normativa e cioè:

-         nelle ipotesi previste dai contratti collettivi nazionali di lavoro;
-        nella fase di avvio di nuove attività per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici;
-        per ragioni di carattere sostitutivo, o di stagionalità, ivi comprese le attività già previste nell’elenco allegato al decreto del Presidente della Repubblica 7 ottobre 1963, n. 1525, e successive modificazioni;
-         per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi;
-         con lavoratori di età superiore a 55 anni.

Ricapitolando, nel rispetto del richiamato limite numerico, è ora  consentita l’apposizione di un termine senza causale alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a trentasei mesi, comprensiva di eventuali proroghe, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione.

Proroghe e rinnovi
Il Decreto ha introdotto la possibilità di prorogare il  contratto a tempo determinato, nel limite dei 36 mesi, fino ad un massimo di 8 volte, purché le proroghe siano richieste per l’esecuzione della stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato l’originale contratto a termine.

Alla luce della  nuova disposizione normativa il termine del contratto a tempo determinato potrà dunque essere prorogato, con il consenso del lavoratore, solo quando la durata iniziale sia inferiore a tre anni. In questi casi le proroghe saranno ammesse, fino ad un massimo di otto volte, a condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale era stato stipulato il contratto a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine  non potrà comunque essere superiore ai tre anni. L’onere della prova relativa all’obiettiva esistenza delle ragioni che giustificano l’eventuale proroga del termine stesso è a carico del datore di lavoro.

Rimane invariata invece la disciplina dei rinnovi e, pertanto, qualora il lavoratore venga riassunto a termine entro un periodo di dieci giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata fino a sei mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un contratto di durata superiore ai sei mesi, il secondo contratto dovrà essere considerato a tempo indeterminato. Mentre,  qualora fra la scadenza del primo e l’inizio del successivo non passi neanche un giorno,  il rapporto sarà considerato a tempo indeterminato sin dal primo contratto.

Valerio Pollastrini