Nella
sentenza n.1777 del 28 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che l’efficacia
del licenziamento irrogato durante la malattia del lavoratore dipende dalla
tipologia di recesso.
Il
caso in commento è quello di un addetto
all’ufficio legale del Comune di Viterbo,
licenziato con preavviso in seguito alla sua condotta assenteista.
Con
ricorso per provvedimento di urgenza, il lavoratore aveva impugnato il
licenziamento dinnanzi al Giudice del lavoro.
Con
ordinanza ex art. 669 sexies c.p.c. il Tribunale di Viterbo, in accoglimento della
domanda cautelare, aveva ordinato al Comune di non dare corso al licenziamento
e di reintegrare l’istante nel posto di lavoro.
Il
giudizio di merito aveva confermato l’illegittimità del recesso ed il Comune
era ricorso in Appello, contestando alla sentenza di primo grado l’affermazione
circa l’intempestività del licenziamento.
La
Corte di Appello di Roma aveva accolto il ricorso, ritenendo tempestiva l’irrogazione
della sanzione, con conseguente legittimità del recesso originato
dall’atteggiamento assenteista del dipendente, la cui gravità era stata
giudicata idonea per la sanzione espulsiva.
Nell’adire
la Cassazione, il ricorrente aveva sostenuto che la Corte di Appello avesse
erroneamente valutato tanto le circostanze di fatto che avevano determinato il
licenziamento, quanto le risultanze istruttorie acquisite a proposito degli
addebiti contestati.
In
particolare, il giudicante avrebbe erroneamente interpretato l’art. 24 del
Contratto Collettivo del personale del
comparto regioni-enti locali, in base al quale "il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla
data della contestazione d'addebito. Qualora non sia stato portato a termine
entro tale data, il procedimento si estingue".
Atteso
che tra la data di ricevimento della contestazione dell’addebito e quella di
irrogazione del licenziamento era decorso un lasso di tempo superiore ai 120
giorni, la Corte di merito avrebbe dovuto
rilevare l’estinzione del procedimento disciplinare.
La pronuncia
della Cassazione
Al
riguardo, la Suprema Corte ha premesso
che l’art. 2110 del Codice Civile prevede che nel caso di malattia del
lavoratore il datore può recedere dal rapporto solo dopo il decorso del periodo di
conservazione del posto di lavoro fissato dalla legge e dai Contratti Collettivi.
Le
disposizioni della richiamata norma codicistica, impediscono al datore di
lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite
di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto comporto), contemperando così i confliggenti interessi del dell’azienda a
mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce e del lavoratore ad
un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento
e l'occupazione.
La
giurisprudenza, tuttavia, coordinando tale principio con le varie fattispecie
legali di recesso, da una parte esclude che lo stato di malattia possa
precludere l’irrogazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion
d’essere la conservazione del posto in
presenza di un comportamento che non consente la prosecuzione neppure temporanea
del rapporto (1), mentre, parallelamente,
impone la sospensione dell’efficacia del licenziamento per giustificato motivo
o il decorso del periodo di preavviso nel caso in cui la malattia sia intervenuta durante tale
periodo (2)
.
Ne consegue che il licenziamento durante lo stato di malattia, se non irrogato per giusta causa, rimane sospeso fino alla guarigione, per
acquisire efficacia solo da quel momento (3).
Applicando
tali principi al caso di specie, la Cassazione ha chiarito che il momento di sofferenza del procedimento di
licenziamento irrogato al lavoratore dovesse essere individuato non nella circostanza che
l’addebito fosse stato contestato durante lo stato di malattia, atteso che l’efficacia
della contestazione sarebbe a sua volta rimasta sospesa fino al momento della
guarigione, ma nella verifica dell’effettivo godimento delle garanzie
apprestate dalla legge e dalla norma contrattuale per l’esercizio di difesa del
lavoratore.
Con
riguardo alla menzionata disposizione contrattuale, la giurisprudenza di
legittimità ha già enunciato in passato
il principio in base al quale, qualora il Contratto Collettivo preveda termini
volti a scandire le fasi del procedimento disciplinare e un termine per la
conclusione di tale procedimento, solo quest’ultimo é perentorio, con
conseguente nullità della sanzione in caso di inosservanza, mentre i termini
interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della
sanzione solo nel caso in cui l’incolpato denunci, con concreto fondamento,
l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della sua difesa (4).
Il
Giudice di merito aveva accertato come la contestazione scritta dell’addebito
fosse stata ricevuta dal dipendente durante
il periodo in cui il diritto di recesso del datore di lavoro risultava sospeso,
ai sensi dell’art. 2110, c. 2, c.c.
Dall’istruttoria
era tuttavia emerso che il Comune di Viterbo avesse successivamente reiterato la convocazione scritta del lavoratore per l’esercizio
della sua difesa prevista dall’art. 24
del CCNL, già inviata in costanza del periodo di malattia.
Facendo
sempre riferimento ai principi sopra enunciati, gli ermellini hanno dunque rilevato
che la contestazione era stata validamente effettuata nel corso del periodo di
malattia, anche se - a seguito della sospensione di efficacia ex art. 2110 c.c.
– era divenuta operativa solo dal momento della guarigione del lavoratore.
Con
tale considerazione la Suprema Corte ha quindi chiarito che il lasso di tempo intercorso tra la
contestazione e l’irrogazione del licenziamento,
aveva largamente rispettato i termini massimi indicati dalla disposizione collettiva
(5).
La
Cassazione, pertanto, ha ritenuto
corretta la motivazione della sentenza del Giudice di Appello, attestando,
altresì, l’infondatezza dell’ulteriore doglianza sulla dedotta carenza
di motivazione per l’incoerente valutazione delle circostanze di fatto che
avevano determinato il licenziamento.
Le
circostanze di fatto che il lavoratore assumeva non fossero state prese in
considerazione erano state, invece, puntualmente valutate dal Giudice di
Appello e ritenute ininfluenti per la
giustificazione del comportamento disciplinare contestato.
La
Corte di Cassazione ha quindi concluso rigettando il ricorso del lavoratore, il
quale è stato condannato al pagamento
delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.500,00 € per compensi
professionali, 100 € per esborsi, oltre Iva e cpa.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., sentenza n.11674 del 1° giugno
2005; Cass., sentenza n.2209 del 27 febbraio 1998;
(2)
- Cass., sentenza n.23063 del 10 ottobre 2013; Cass., sentenza n.9037 del
4 luglio 2001;
(3)
- Cass., sentenza n.239
del 7 gennaio 2005; Cass., sentenza n.10881
del 6 agosto 2001;
(4)
-
Cass., sentenza n.6091 del 12 marzo 2010; Cass., sentenza n.23484
del 19 novembre 2010;
(5)
-
Cass., sentenza n.7848 del 4 aprile 2006;