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martedì 25 marzo 2014

Licenziamento per contrazione dell’attività commerciale

Nella sentenza n.902 del 17 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha negato la sussistenza della contrazione dell’attività commerciale addotta dal datore di lavoro come fondamento del licenziamento per giustificato motivo oggettivo irrogato ad un dipendente.

Il caso in commento è quello di un lavoratore, responsabile della qualità e del coordinamento delle risorse operative, licenziato per giustificato motivo oggettivo derivante dalla contrazione dell’attività commerciale.

Il Tribunale di Milano aveva dichiarato illegittimo il licenziamento, condannando la società a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro, nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra ed al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

Tale decisione era stata successivamente confermata dalla Corte di Appello di Milano che, con riguardo al recesso, aveva osservato che il dipendente, era stato dapprima demansionato e successivamente licenziato per soppressione del posto di lavoro.

Tale licenziamento doveva considerarsi illegittimo dal momento che il datore di lavoro non aveva fornito la prova né che il posto fosse stato soppresso, né della contrazione dell’attività commerciale. Le  mansioni affidate al dipendente erano infatti state attribuite ad altra persona e  la società aveva continuato ad assumere, anche se con contratti atipici, altro personale.

Rispetto alla   sentenza di primo grado, la Corte di merito aveva sottratto dalle retribuzioni spettanti al lavoratore  la somma di 2.515.00 €, equivalente ai redditi d’impresa  dallo stesso percepiti nelle more della declaratoria dell’illegittimità del recesso.

L’azienda aveva impugnato la sentenza di Appello dinnanzi alla Cassazione, sostenendo che la qualificazione professionale del lavoratore in seguito licenziato esulasse dalle mansioni assegnate  ad altra dipendente.

Le  mansioni di responsabile della qualità e del coordinamento delle risorse operative sarebbero state del tutto marginali, rispetto alla principale attività svolta dal lavoratore di ricerca e sviluppo della clientela di natura commerciale.

A differenza di quanto affermato dalla Corte di merito, l’azienda aveva poi sostenuto di aver fornito la prova documentale e testimoniale della soppressione del posto di lavoro del dipendente e della ristrutturazione del settore commerciale nell’ambito di un più ampio processo di razionalizzazione di tutte le strutture della società, finalizzato ad ottimizzare i costi.

Il datore di lavoro riteneva inoltre di aver provato come, dopo il licenziamento, le mansioni del lavoratore  ricorrente erano state ridistribuite tra il personale già in forza al momento del recesso.

La prova sarebbe stata fornita anche sulle seguenti altre circostanze:

-         effettiva contrazione dell’attività commerciale;
-         nessuno dei collaboratori di cui si era avvalsa la società dopo il licenziamento del lavoratore aveva svolto le mansioni commerciali di quest’ultimo;
-         le mansioni di carattere non commerciale assegnate al predetto dipendente, oltre ad avere carattere marginale, erano state assegnate ad altra dipendente su richiesta dello stesso lavoratore;
-        il distacco a Roma del medesimo era stato determinato dall’esigenza di sviluppare nuovi mercati nel centro Italia e, al contempo, di conservarne il più a lungo possibile il posto di lavoro.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte, dopo aver ricordato come il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia dettato da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa, ha  chiarito che la valutazione delle esigenze tecnico-economiche e delle ragioni di carattere produttivo-organizzativo compete esclusivamente al datore di lavoro, senza che il Giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta sia espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione.

La Cassazione ha però proseguito affermando  che l’accertamento della reale sussistenza delle anzidette esigenze  e ragioni spetta invece al Giudice. Al rigurardo, occorre tener conto del consolidato orientamento giurisprudenziale che impone al datore di lavoro di provare, anche attraverso elementi presuntivi o indiziari, l’impossibilità di adibire utilmente il lavoratore in mansioni diverse da quelle precedentemente svolte  o in posti di lavoro confacenti alle sue mansioni (1).

La Suprema Corte, con riguardo alle assunzioni di nuovo personale successivamente al licenziamento, ha poi affermato che il datore di lavoro è obbligato ad indicare e dimostrare le assunzioni effettuate, il relativo periodo, le qualifiche e le mansioni affidate ai nuovi assunti e le ragioni per cui tali mansioni non siano da ritenersi equivalenti a quelle svolte dal lavoratore licenziato, tenuto conto della professionalità raggiunta dal lavoratore medesimo.

Tali elementi debbono essere presi in considerazione nell’analisi valutativa compiuta dal Giudice che, se adeguatamente motivata, come nel caso di specie, è incensurabile in sede di legittimità.

La Corte di Appello aveva  correttamente accertato la mancata dimostrazione da parte del ricorrente della soppressione del posto di lavoro del dipendente licenziato

Nei confronti del lavoratore era stato attuato un progressivo demansionamento sino al momento del recesso ed anche le mansioni commerciali gli erano state sottratte con le motivazioni, del tutto generiche, relative all’esigenza di aprire nuovi mercati.

Le mansioni di responsabile della qualità e di coordinamento delle risorse operative erano state inoltre attribuite ad altra dipendente e l’azienda non aveva fornito alcuna prova della supposta contrazione dell’attività commerciale, posto che la società dal 2003 al 2005 aveva continuato ad assumere, anche se con contratti atipici, varie persone.

Alla stregua di tali accertamenti la Corte di legittimità ha ritenuto prive di fondamento le censure mosse alla impugnata sentenza, avendo il Giudice di Appello fornito esaurientemente conto delle ragioni del suo convincimento, con motivazione immune da vizi e senza incorrere in omissioni o contraddizioni.

Per tutte le ragione sopra riportate, la Cassazione ha rigettato il ricorso aziendale ed ha inoltre condannato il datore di lavoro al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 4.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass. 7381/10; Cass. 11720/09, Cass. 15500/09, Cass. 6552/09, Cass. 25885/08 e, più recentemente, Cass. 7474/12;

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