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giovedì 27 marzo 2014

Efficacia del licenziamento irrogato durante la malattia

Nella sentenza n.1777 del 28 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ricordato che l’efficacia del licenziamento irrogato durante la malattia del lavoratore dipende dalla tipologia di recesso.

Il caso in commento è quello di un  addetto all’ufficio legale  del Comune di Viterbo, licenziato con preavviso in seguito alla sua condotta assenteista.

Con ricorso per provvedimento di urgenza, il lavoratore aveva impugnato il licenziamento dinnanzi al Giudice del lavoro.

 
Con ordinanza ex art. 669 sexies c.p.c. il Tribunale di Viterbo, in accoglimento della domanda cautelare, aveva ordinato al Comune di non dare corso al licenziamento e di reintegrare l’istante nel posto di lavoro.

Il giudizio di merito aveva confermato l’illegittimità del recesso ed il Comune era ricorso in Appello, contestando alla sentenza di primo grado l’affermazione circa l’intempestività del licenziamento.

La Corte di Appello di Roma aveva accolto il ricorso, ritenendo tempestiva l’irrogazione della sanzione, con conseguente legittimità del recesso originato dall’atteggiamento assenteista del dipendente, la cui gravità era stata giudicata idonea per la   sanzione espulsiva.

Nell’adire la Cassazione, il ricorrente aveva sostenuto che la Corte di Appello avesse erroneamente valutato tanto le circostanze di fatto che avevano determinato il licenziamento, quanto le risultanze istruttorie acquisite a proposito degli addebiti contestati.

In particolare, il giudicante avrebbe erroneamente interpretato l’art. 24 del Contratto Collettivo del  personale del comparto regioni-enti locali, in base al quale "il procedimento disciplinare deve concludersi entro 120 giorni dalla data della contestazione d'addebito. Qualora non sia stato portato a termine entro tale data, il procedimento si estingue".

Atteso che tra la data di ricevimento della contestazione dell’addebito e quella di irrogazione del licenziamento era decorso un lasso di tempo superiore ai 120 giorni, la Corte di merito avrebbe  dovuto rilevare l’estinzione del procedimento disciplinare.

La pronuncia della Cassazione
Al riguardo, la Suprema Corte ha premesso  che l’art. 2110 del Codice Civile prevede che nel caso di malattia del lavoratore il datore può recedere dal rapporto  solo dopo il decorso del periodo di conservazione del posto di lavoro fissato dalla legge e dai Contratti Collettivi.

Le disposizioni della richiamata norma codicistica, impediscono al datore di lavoro di porre fine unilateralmente al rapporto sino al superamento del limite di tollerabilità dell'assenza (cosiddetto comporto), contemperando così  i confliggenti interessi del dell’azienda a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e produce e del lavoratore ad un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento e l'occupazione.

La giurisprudenza, tuttavia, coordinando tale principio con le varie fattispecie legali di recesso, da una parte esclude che lo stato di malattia possa precludere l’irrogazione del licenziamento per giusta causa, non avendo ragion d’essere la conservazione del posto  in presenza di un comportamento che non consente la prosecuzione neppure temporanea del rapporto (1), mentre, parallelamente, impone la sospensione dell’efficacia del licenziamento per giustificato motivo o il decorso del periodo di preavviso nel caso in cui  la malattia sia intervenuta durante tale periodo (2) . Ne consegue che il licenziamento durante lo stato di malattia, se non  irrogato per giusta causa,  rimane sospeso fino alla guarigione, per acquisire efficacia solo da quel momento (3).

Applicando tali principi al caso di specie, la Cassazione ha chiarito che  il momento di sofferenza del procedimento di licenziamento irrogato al lavoratore dovesse essere  individuato non nella circostanza che l’addebito fosse stato contestato durante lo stato di malattia, atteso che l’efficacia della contestazione sarebbe a sua volta rimasta sospesa fino al momento della guarigione, ma nella verifica dell’effettivo godimento delle garanzie apprestate dalla legge e dalla norma contrattuale per l’esercizio di difesa del lavoratore.

Con riguardo alla menzionata disposizione contrattuale, la giurisprudenza di legittimità  ha già enunciato in passato il principio in base al quale, qualora il Contratto Collettivo preveda termini volti a scandire le fasi del procedimento disciplinare e un termine per la conclusione di tale procedimento, solo quest’ultimo é perentorio, con conseguente nullità della sanzione in caso di inosservanza, mentre i termini interni sono ordinatori e la violazione di essi comporta la nullità della sanzione solo nel caso in cui l’incolpato denunci, con concreto fondamento, l’impossibilità o l’eccessiva difficoltà della sua difesa (4).

Il Giudice di merito aveva accertato come la contestazione scritta dell’addebito fosse stata ricevuta  dal dipendente durante il periodo in cui il diritto di recesso del datore di lavoro risultava sospeso, ai sensi dell’art. 2110, c. 2, c.c.

Dall’istruttoria era tuttavia emerso che il Comune di Viterbo avesse successivamente reiterato  la convocazione scritta del lavoratore per l’esercizio  della sua difesa prevista dall’art. 24 del CCNL, già inviata in costanza del periodo di malattia.

Facendo sempre riferimento ai principi sopra enunciati, gli ermellini hanno dunque rilevato che la contestazione era stata validamente effettuata nel corso del periodo di malattia, anche se - a seguito della sospensione di efficacia ex art. 2110 c.c. – era divenuta operativa solo dal momento della guarigione del lavoratore.

Con tale considerazione la Suprema Corte ha quindi chiarito  che il lasso di tempo intercorso tra la contestazione  e l’irrogazione del licenziamento, aveva largamente rispettato  i termini  massimi indicati dalla disposizione collettiva (5).

La Cassazione, pertanto, ha  ritenuto corretta la motivazione della sentenza del Giudice di Appello, attestando, altresì, l’infondatezza   dell’ulteriore doglianza sulla dedotta carenza di motivazione per l’incoerente valutazione delle circostanze di fatto che avevano determinato il licenziamento.

Le circostanze di fatto che il lavoratore assumeva non fossero state prese in considerazione erano state, invece, puntualmente valutate dal Giudice di Appello  e ritenute ininfluenti per la giustificazione del comportamento disciplinare contestato.

La Corte di Cassazione ha quindi concluso rigettando il ricorso del lavoratore, il quale è stato  condannato al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.500,00 € per compensi professionali, 100 € per esborsi, oltre Iva e cpa.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., sentenza  n.11674 del 1° giugno 2005; Cass., sentenza n.2209 del 27 febbraio 1998;
(2)    - Cass., sentenza  n.23063 del 10 ottobre 2013; Cass., sentenza  n.9037 del  4 luglio 2001;
(3)    - Cass., sentenza    n.239 del 7 gennaio 2005; Cass., sentenza    n.10881 del  6 agosto 2001;
(4)   - Cass., sentenza  n.6091 del  12 marzo 2010; Cass., sentenza     n.23484 del 19 novembre 2010;
(5)   - Cass., sentenza  n.7848 del 4 aprile 2006;

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