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mercoledì 7 maggio 2014

Legittimo il licenziamento dell’autista responsabile del sinistro stradale

Nella sentenza n.9597 del 5 maggio 2014 la Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento irrogato ad un autista che, a causa della sua imperizia, aveva procurato un incidente stradale.

Il caso giunto al vaglio della Suprema Corte è quello del licenziamento per giustificato motivo soggettivo irrogato da una ditta di trasporti ad un lavoratore che, nel condurre un autoarticolato di proprietà del datore di lavoro, aveva  causato un sinistro stradale con conseguenti danni  al carico trasportato.

Nel giudizio di Appello, la Corte del merito aveva ritenuto legittimo il recesso sulla base delle risultanze dell’istruttoria, che avevano dimostrato la colpa dell’autista nella determinazione dell’incidente. Il lavoratore aveva infatti perduto il controllo del mezzo a causa dell’alta velocità, del tutto inadeguata allo stato dei luoghi percorsi.

Per la Corte territoriale, siffatto comportamento aveva rivelato una violazione dei doveri di cautela e di attenzione pregiudizievoli del rapporto fiduciario, legittimante l’irrogazione del recesso.

Contro questa sentenza, l’autista aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo l’inattendibilità della pronuncia impugnata in merito alla colpa del lavoratore, deducendo che   dall’istruttoria non fosse emersa alcuna  prova che l’incidente fosse da ascriversi allo stesso.

A detta del ricorrente, l’evento sarebbe stato attinente ad un fatto esterno al rapporto di lavoro e comunque non avrebbe costituito un  inadempimento degli obblighi contrattuali così grave da imporre un licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

Per quanto concerne la statuizione relativa alla responsabilità del lavoratore nell’accadimento dell’evento, la Corte di Cassazione ha premesso come quello richiesto dal ricorrente fosse un accertamento di fatto sottratto al sindacato di legittimità, in quanto  sorretto da congrua e non illogica motivazione, fornita dalla Corte di Appello attraverso un coerente apprezzamento delle emergenze istruttorie.

Nel nostro ordinamento processuale la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (1).

Nel caso di specie, la Corte di Appello aveva fondato la propria decisione in base alle risultanze emergenti dal prontuario della Polstrada e dal cronotachimetro, che riportava una velocità pari ad 80 Km/orari, a fronte di un limite di velocità di 40 Km/orari.

La Cassazione ha poi  rimarcato come il fatto posto a base del licenziamento non fosse estraneo al rapporto di lavoro, come sostenuto invece dal ricorrente. Il sinistro si era infatti verificato nel pieno svolgimento delle mansioni di autista espletate dal lavoratore, la cui negligenza, nel causare l’incidente, poteva legittimamente essere punita dall’azienda con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La Suprema Corte ha quindi  concluso con il rigetto del ricorso e la  conseguente condanna del lavoratore al pagamento delle spese del processo di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali, 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza n.3267 del 12 febbraio 2008; Cass., Sentenza n.2049 del 27 luglio 2008;

lunedì 5 maggio 2014

Reintrodotto l'apprendistato stagionale

Gli emendamenti proposti dal Governo sul c.d. “Decreto Lavoro”, approvati dalla dedicata Commissione del Senato, modificano il contenuto dell’impianto normativo predisposto per l’istituto dell’apprendistato.

In particolare, è stato ripristinato l'apprendistato, anche a tempo determinato, per lo svolgimento di attività stagionali.

 
Quella dell’apprendistato stagionale è una fattispecie ritenuta di sicura utilità soprattutto per le aziende del commercio e del turismo.

L'emendamento del Governo limita però l’utilizzo di  questa specifica modalità, a tempo determinato,  alle sole aziende dislocate nelle Regioni o Province Autonome che abbiano definito un sistema di alternanza scuola-lavoro.

Con un altro emendamento, invece, il Ministero del Lavoro si è impegnato ad emanare una Circolare interpretativa che attenui la sanzione in base alla quale, in caso di   grave violazione dell'obbligo formativo, è prevista la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di apprendistato.

L’idea è quella di sostituire la richiamata sanzione con la più “morbida” conversione in contratto a tempo determinato.

Valerio Pollastrini

Sanzioni per le aziende che sforano il tetto del 20% dei contratti a termine

La Commissione Lavoro del Senato ha approvato l'emendamento proposto dal Governo che ridimensiona le conseguenze per le aziende che, attraverso le assunzioni con contratti a termine, sforino il limite del 20% dei lavoratori a tempo indeterminato impiegati in azienda.

Nel testo originario del Decreto Lavoro era prevista, a carico delle aziende inadempienti, la conversione degli eccedenti contratti  a tempo determinato in rapporti a tempo indeterminato.

Nella nuova formulazione della norma tale condotta verrà invece punita con una sanzione economica a carico del datore di lavoro.

L’emendamento in commento ha commisurato l’importo della sanzione  in relazione al numero dei contratti a termine stipulati in eccedenza rispetto alla soglia sopra riportata.

Se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale non sia superiore ad uno, la sanzione amministrativa sarà pari al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro.

Se il numero dei lavoratori assunti in violazione del limite percentuale risulti, invece, superiore ad  uno, la  sanzione sarà  pari al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro.

Valerio Pollastrini

Mancata restituzione della documentazione contabile – Reato di appropriazione indebita

Nella sentenza n.18027 del 30 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che la mancata restituzione al cliente della documentazione richiesta può comportare la reclusione del professionista incaricato all’assistenza.

Nel caso in commento, la sezione penale della Corte di Appello aveva confermato la sentenza con la quale  il Tribunale aveva giudicato colpevole di appropriazione indebita aggravata  un commercialista che si era rifiutato di restituire ad una società  i libri e le scritture contabili.

Il professionista  era stato condannato alla pena di tre mesi di reclusione e 500,00 € di multa, oltre al risarcimento del danno e alla rifusione delle spese in favore della parte civile.

L'imputato aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che per la sussistenza del reato sarebbe stato necessario che la condotta addebitatagli fosse connaturata dalla finalità dell' ingiusto profitto.

A suo dire, la mancata restituzione dei libri e delle scritture contabili non avrebbe avuto alcuna finalità lucrativa.

Rigettando il ricorso, la Suprema Corte  ha ribadito che il rifiuto del professionista di restituire al cliente la documentazione ricevuta integra il reato di appropriazione indebita. 

Si tratta, infatti, di un comportamento che  travalica i limiti del titolo del possesso e, in generale,  il delitto di appropriazione indebita  risulta configurato dal momento in cui il possessore compie un atto di dominio sulla "res" altrui,  manifestandone  l'intenzione di tenerla come propria.

Per quanto riguarda il caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto consumato il reato quando il commercialista, a seguito della prima richiesta di restituzione della documentazione contabile, aveva opposto alla società un netto rifiuto.

La sentenza di primo grado aveva inoltre accertato che, nonostante il professionista avesse ricevuto l’intero importo del compenso mensile pattuito con il cliente, oltre a trattenere la documentazione, era venuto meno ai propri obblighi, non presentando la dichiarazione dei redditi per conto della società.

Proprio tenendo celate le omesse prestazioni, il commercialista aveva posto il essere la finalità dell’ingiusto profitto, procurando un danno alla persona offesa che, per tale ragione,  era stata oggetto di  verifica tributaria, conclusasi con l’attribuzione di sanzioni economiche a carico della società.
                                                                                                         
Per le citate ragioni, la Suprema Corte ha concluso con la conferma di quanto disposto nella sentenza del merito.

Valerio Pollastrini

Il reato dell’omesso versamento di ritenute previdenziali

Nella sentenza n.18000 del 30 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che la mera disattenzione non assolve il datore di lavoro dal reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali, specialmente nel caso in cui abbia precedentemente ricevuto l’avviso di pagamento e la diffida al versamento.

Nel caso in commento il Gip aveva disatteso la richiesta di condanna formulata dal Pubblico Ministero, dichiarando il non luogo a procedere nei confronti dell’imputata in merito al reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali (1), in quanto il fatto non costituisce reato.

L'esiguità dell'importo delle somme non versate e la loro riconducibilità ad un breve periodo contributivo  avevano indotto il giudicante  a ritenere che l'omissione fosse stata causata da una mera disattenzione. Per tale ragione era stato escluso che l’imputata avesse posto in essere  una condotta consapevolmente orientata a lucrare l’importo non versato all’Inps.

Investita della questione, la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dal  Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di Appello.

La Suprema Corte ha richiamato il principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale il giudice per le indagini preliminari può prosciogliere la persona nei cui confronti il Pubblico Ministero abbia avanzato istanza di decreto penale di condanna, solo nel caso in cui risulti evidente la prova della sua innocenza.

Nella  sentenza impugnata era stato accertato l'omesso versamento di ritenute previdenziali. Ciò nonostante il Giudice del merito aveva assolto l’imputata attraverso una valutazione  sulla sussistenza dell’elemento psicologico basata sull'entità della somma e sulla probabilità di un disguido.

Per la Cassazione, il Giudice del merito avrebbe dovuto limitarsi ad una mera attività di constatazione, mentre, invece, si era spinto fino ad un  approfondito apprezzamento, non consentito  ai fini della pronuncia ex art.129 cod. proc. pen., delle circostanze sopra riportate.

Per tale ragione la Suprema Corte ha annullato l’impugnata sentenza.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – fattispecie di reato sancita dall’art.2, comma 1-bis, del D.L. n.463/1983, convertito dalla Legge n.638/1983;

domenica 4 maggio 2014

Se il recesso è per giusta causa al lavoratore a progetto non va riconosciuta la penale

Nella sentenza n.22396 del 1° ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto che, in presenza di una giusta causa di recesso, il lavoratore a progetto non ha diritto a riscuotere la penale pattuita in caso di cessazione anticipata del rapporto.

Nel caso di specie, un collaboratore a progetto si era rivolto al Tribunale di Trento lamentando l’illegittimità del recesso operato dalla società committente e chiedendo il  pagamento della somma complessiva di  68.500,00 € per quanto spettante con riferimento al compenso del mese di giugno 2005, all’indennità sostitutiva del preavviso ed alla penale contrattualmente precedentemente stabilita dalle parti  in caso di risoluzione anticipata dal contratto.

Il Tribunale adito aveva accolto pressoché integralmente la domanda del ricorrente, condannando la società al pagamento della somma richiesta, oltre gli accessori di legge.

In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Trento aveva successivamente condannato l’azienda a corrispondere in favore del lavoratore la somma di 3.425,00 €, a titolo di compenso per il mese di giugno 2005, con gli accessori di legge, ma, di contro, aveva disposto che   il lavoratore dovesse pagare alla società committente, la somma di 3.425,00 €  a titolo di danni non patrimoniali, così operando, di fatto, l’intera compensazione delle spettanze reciprocamente dovute.

La Corte di merito aveva escluso che la giusta causa di recesso fosse utile al riconoscimento in favore del lavoratore della  penale contrattualmente fissata dalle parti in 41.000,00 € in caso di cessazione anticipata della collaborazione.

Nella specie, la sussistenza della giusta causa era stata attestata attraverso l’analisi delle prove documentali e testimoniali che avevano evidenziato la natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte del lavoratore ed avevano escluso che una simile condotta fosse attribuibile ad un comportamento provocatorio della società.

Il Giudice di secondo grado, in sostanza, aveva riconosciuto in favore del lavoratore la retribuzione per il lavoro svolto nel mese di giugno 2005, pari a 3.425,00 €, ma aveva ritenuto fondata anche la domanda riconvenzionale proposta in primo grado dalla società, avente ad oggetto i danni all'immagine subiti a causa  della valenza diffamatoria della condotta posta in essere dal lavoratore.

La pronuncia della Cassazione
Impugnando la sentenza del merito dinnanzi alla Cassazione, il lavoratore aveva sostenuto che la  corretta interpretazione della relativa clausola contrattuale avrebbe confermato la spettanza della penale anche nell'ipotesi di recesso per giusta causa, posto che tale clausola, riferita agli eventuali recessi anticipati, sarebbe inclusiva di ogni ipotesi di recesso, senza distinzioni tra le varie causali.

Secondo il collaboratore, dal momento che  il contratto individuale configurerebbe, attraverso la penale,  una clausola più favorevole per il lavoratore rispetto alla disciplina legale del contratto a progetto, il pagamento della somma corrispondente sarebbe dovuta  in ogni caso di recesso anticipato.

Il lavoratore aveva inoltre rilevato come con e-mail del 10 giugno 2005, spedita dopo oltre una settimana dall'ultimo degli episodi richiamati nella lettera di recesso, la committente gli avesse impartito talune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana successiva. Ciò, a suo dire, dimostrerebbe come i contrasti insorti non fossero tali da impedire la prosecuzione del rapporto di collaborazione, palesando tale circostanza l’assoluta pretestuosità dell’asserita gravità dell'inadempimento addebitatogli e, conseguentemente, l’insussistenza della giusta causa ex articolo 2119 c.c..

Ai sensi della richiamata norma codicistica,  la giusta causa di recesso, in quanto lesiva del vincolo fiduciario posto alla base di ogni contratto di lavoro,  non  consente, neanche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto.  

Ricordando che, di fatto, il rapporto  fosse proseguito mediante l'attribuzione di nuovi incarichi, il ricorrente deduceva  l’illegittimità del recesso.

Quanto alle specifiche condotte addebitategli, il collaboratore aveva  rilevato che le stesse fossero state in realtà delle semplici manifestazioni di dissenso o  critiche, sia pure espresse con toni accesi e coloriti sulla gestione del rapporto, ma non idonee a ledere il vincolo fiduciario. Pertanto, il principio della necessaria proporzionalità tra la sanzione e la condotta contestata sarebbe stato violato dalla pronuncia impugnata.

Il ricorrente aveva inoltre lamentato il mancato riconoscimento da parte della Corte di Appello  del  comportamento provocatorio del datore di lavoro.

La prova di un simile comportamento sarebbe invece emersa dalle dichiarazioni del teste,  ma il giudicante avrebbe erroneamente imputato al   testimone adito un atteggiamento astioso nei confronti della società.

Il ricorrente, infine, aveva criticato la sentenza impugnata per avere accolto la domanda riconvenzionale proposta dalla società relativa al procurato danno all'immagine.

Le comunicazioni che avrebbero procurato alla committente un simile danno, erano state inviate dal lavoratore esclusivamente al legale rappresentante dell’azienda e, presupponendo che i comportamenti astrattamente lesivi dell'immagine siano solamente quelli portati a conoscenza dei soggetti estranei all'ambito sociale, in modo da incidere sul buon nome e sulla reputazione della società, non avrebbero in alcun modo causato nocumento alcuno.

Investita della questione, la Suprema Corte ha ricordato innanzitutto come il Giudice dell’Appello avesse escluso che, in presenza di una giusta causa di recesso, il datore di lavoro fosse comunque tenuto a corrispondere la penale prevista dalla clausola n. 4 del contratto individuale, in base alla quale: "gli eventuali recessi anticipati dal presente contratto da ambedue le parti dovranno essere comunicati per iscritto con anticipo di tre mesi, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, rispetto alla data della effettiva cessazione della collaborazione. In tale evenienza per entrambe le parti e' prevista un penale pari a 41.000,00 €".

Premesso che, per i contratti a progetto, l'ammissibilità del recesso per giusta causa dai contratti a progetto e' prevista dall’articolo 67, comma 2, del  Decreto Legislativo n. 276 del 2003, che testualmente recita: "Le parti possono recedere, prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale".

Attraverso la richiamata disposizione, il legislatore non ha inteso consentire alle parti di disciplinare in via derogatoria le ipotesi di recesso per giusta causa, motivo per cui il giudice di Appello aveva affermato che l'espresso richiamo della clausola n. 4 alla necessità del preavviso dimostrava come con tale clausola le parti avessero voluto regolamentare le sole ipotesi di recesso ad nutum, prevedendo per esse l'obbligo di corresponsione di una penale.

Facendo propria questa motivazione, la Cassazione ha confermato l'ammissibilità di un recesso per giusta causa senza che vi sia l'obbligo della corresponsione della penale in favore del lavoratore.

Al riguardo gli ermellini hanno osservato che, secondo un principio ricorrente nella giurisprudenza di legittimità,  l'interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile dalla Cassazione, se non nell'ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui all'articolo 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, mentre la mera contrapposizione fra l'interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata non rileva ai fini dell'annullamento di quest'ultima (1).

Nella specie, non è ravvisabile alcuna violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale. La clausola in questione, infatti, nel prevedere il recesso anticipato di una delle parti e l'obbligo della comunicazione di tale recesso con anticipo di tre mesi rispetto alla data di cessazione del rapporto di collaborazione, fa riferimento - come correttamente osservato dalla sentenza impugnata - alle sole ipotesi di recesso ad nutum, stabilendo, in tal caso, la corresponsione di una penale.
                                                                               
Tale clausola non interferisce in alcun modo sulla risoluzione del contratto per giusta causa, la quale, espressamente prevista per i contratti a progetto dal Decreto Legislativo n.276/2003,  resta regolata dai principi generali in materia, che consentono  al datore di lavoro  di risolvere  il rapporto senza preavviso al verificarsi di  una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, dello stesso a causa della lesione  dell'elemento fiduciario.

L'interpretazione fornita dalla sentenza impugnata, risulta inoltre  corretta anche sotto il profilo logico-sistematico. Infatti, la funzione assolta dalla clausola penale in oggetti è quella di rafforzare il vincolo contrattuale e, conseguentemente, di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria nell'ipotesi di inadempimento di una delle parti. Essa è dovuta alla parte adempiente, senza che questa debba fornire la prova dell'esistenza e dell'ammontare del danno.

Se tale clausola  fosse interpretata nel senso auspicato dal ricorrente, il beneficio della penale anche nel caso in cui  la risoluzione del rapporto sia stata determinata dal suo inadempimento agli obblighi contrattuali,  sovvertirebbe  i principi in materia, secondo i quali è  alla parte adempiente che deve essere assicurata la corrispondente indennità, attraverso una liquidazione forfettaria dei danni.

Quanto ad altro  motivo del ricorso, la Cassazione ha rilevato come la Corte territoriale avesse ritenuto che dalla lettura della e-mail del 10 giugno 2005, con la quale vennero impartite al ricorrente alcune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana successiva, non era possibile affermare che la società avesse inteso rinunciare al suo potere di recesso, essendosi la medesima limitata a specificare le attività che il collaboratore avrebbe dovuto porre in essere a partire dal lunedì successivo.

Si tratta di una motivazione  logica, ove si consideri che, in attesa delle determinazioni da assumere in merito alle reiterate condotte tenute dal ricorrente, anche nel periodo immediatamente antecedente a tale comunicazione, fosse  del tutto normale che il ricorrente continuasse ad espletare la propria attività in base alle istruzioni fornitegli dal legale rappresentante della società, non essendovi incompatibilità tra la comunicazione delle suddette istruzioni ed il successivo recesso disposto all'esito della valutazione del comportamento tenuto dal collaboratore.

Parimenti infondate, per la Suprema Corte,  le contestazioni relative alla sussistenza della  giusta causa del recesso e alla presunta  erronea valutazione delle dichiarazioni dei testi, in relazione al comportamento asseritamente provocatorio tenuto dal datore di lavoro.

La Cassazione ha più volte precisato, in tema di licenziamento, i cui principi sono  applicabili anche in caso di recesso per giusta causa del lavoratore a progetto, che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (2).

E' stato altresì precisato che il controllo sulla congruità e sufficienza della motivazione, consentito dall'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non deve risolversi in un nuovo giudizio di merito attraverso una autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, risultando ciò estraneo alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità (3).

Nella specie, la Corte territoriale aveva attentamente esaminato il contenuto delle e-mail nelle quali il collaboratore si era rivolto alla legale rappresentante della società proferende espressioni del tipo:  "mentecatta e pazzoide", apostrofando la stessa, dicendole di vergognarsi di lei e che non si sarebbe più fatto vedere in giro con la stessa, accusandola di aver creato una "atmosfera puzzolente". Il lavoratore aveva inoltre  accusato l’azienda di essere una "ditta di m......dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene".

Il Giudice del merito aveva quindi  affermato che "la natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte" appariva "talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti", escludendo ogni possibile giustificazione per  il comportamento del lavoratore.

La Corte di Appello aveva poi negato che vi fosse stato un comportamento provocatorio della società, decidendo quindi per la legittimità del recesso.

Per la Cassazione, si tratta di una  motivazione congrua, sufficiente e non contraddittoria, conseguente ad una corretta valutazione delle risultanze processuali, non censurabile in  sede di legittimità. Da qui l'inidoneità delle censure formulate dal ricorrente ad inficiare la decisione impugnata.

La Suprema Corte ha però  ritenuto fondata la censura con la quale il ricorrente aveva contestato il riconoscimento del danno subito dalla società.

La Cassazione in più occasioni ha  affermato che nei confronti della persona giuridica ed in genere dell'ente collettivo la risarcibilità del danno non patrimoniale è configurabile allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della società o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra quello relativo all'immagine, allorquando si verifichi la sua lesione.

In tali casi, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, è risarcibile anche il danno non patrimoniale, costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca (4).

Nella specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che l'immagine della società fosse stata lesa da un’affermazione contenuta nella e-mail del ricorrente, trasmessa al legale rappresentante dell’azienda, nella quale così aveva affermato: "in nessuna azienda sana un responsabile commerciale deve fare sottoscrivere alla mamma le offerte che va a redigere"; ed altresì: la società  è "una ditta di m....... dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene".

Ad avviso della Suprema Corte, poiché non esternate al di fuori dell'ambito aziendale, tali affermazioni non risultano idonee ad incidere sulla reputazione, sul prestigio e sul buon nome della società, nè tanto meno a provocarne la caduta dell'immagine.

Per tali ragioni, la domanda risarcitoria non poteva essere accolta.

Secondo la Corte di Legittimità la sentenza impugnata va dunque cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sul punto la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda riconvenzionale.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza  n.10554 del 30 aprile 2010; Cass., Sentenza n.13242 del 31 maggio 2010; Cass., Sentenza n.23635 del 22 novembre 2010; Cass., Sentenza n.6641 del 2 maggio 2012;
(2)   - Cass., Sentenza  n.8293 del 25 maggio 2012; Cass., Sentenza  n.7948 del 7 aprile 2011; Cass., Sentenza n.24349 del 15 novembre 2006;
(3)   - Cass., Sentenza n.17514 del 26 luglio 2010; Cass., Sentenza n.4369 del 23 febbraio 2009; Cass., Sentenza n.25743 del 10 dicembre 2007; Cass., Sentenza n.11789 del 7 giugno 2005;
(4)   - Cass., Sentenza n.12929/2007; Cass., Sentenza n.4542/12;

venerdì 2 maggio 2014

Le ipotesi in cui la modifica dell’inquadramento previdenziale assume efficacia retroattiva

Nella sentenza n.8558 dell’11 aprile 2014  la Corte di Cassazione è intervenuta sulla controversa questione della retroattività, nei limiti della prescrizione quinquennale, del diverso inquadramento  di un’impresa disposto dall’Inps ai fini contributivi.

Nella sentenza in commento la Suprema Corte ha ricordato la normativa di riferimento, richiamando  la disposizione di cui all’art.3, comma 8, della Legge n.335/1995, in base alla quale i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro, adottati d’ufficio dall’Inps o su richiesta  dell’azienda, producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione o della richiesta dell’interessato, con esclusione dei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.

In merito alla richiamata disposizione di legge, la Cassazione ha fatto ricorso all’indirizzo ormai consolidato che attribuisce una valenza generale  alla citata norma, nella parte in cui dispone  l’efficacia dei provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro dal periodo di paga in corso. Conseguentemente, tale limite risulta  applicabile ad ogni ipotesi di rettifica di precedenti inquadramenti operata dall’Istituto Previdenziale.

L’efficacia delle stesse variazioni dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento di variazione, anche per quanto riguarda le variazioni disposte a seguito di richiesta dell’azienda, risulta funzionale all’esigenza di non far ricadere sui datori di lavoro le conseguenze di eventuali ritardi dell’Ente Previdenziale nell’adeguamento della classificazione all’effettiva attività svolta dall’azienda.

La norma esclude espressamente  l’efficacia ex nunc  nei casi in cui l’inquadramento iniziale sia stato determinato da inesatte dichiarazioni del datore di lavoro.

La ragione di una simile esclusione risiede nell’imputabilità del mancato adeguamento della posizione contributiva alla responsabilità del datore di lavoro, condizione dalla quale deriva l’estensione della deroga anche alle ipotesi  di omessa comunicazione agli Enti Previdenziali delle variazioni dell’attività aziendale.

Si tratta di una  conclusione che risulta conforme alla precedente pronuncia della Corte di legittimità (1), nella quale è stato affermato che il caso della mancata comunicazione dell’azienda che  abbia assunto caratteristiche tali da comportare una diversa classificazione ai fini previdenziali, deve  essere  equiparato alle ipotesi delle dichiarazioni inesatte, in quanto una simile condotta si traduce in  una discrasia tra l’effettività della situazione e le dichiarazioni sulle quali era stata assegnata la classificazione iniziale.

La soluzione adottata dalla Suprema Corte appare imposta dall’interpretazione della richiamata  normativa, orientata al rispetto dei principi affermati dalla Corte Costituzionale in merito alle generali caratteristiche del nostro sistema previdenziale, per il quale il legislatore, a garanzia del  rispetto dei principi  di uguaglianza e di solidarietà, deve  operare le scelte politiche di propria competenza,tenendo conto dei vincoli che l’art.81 della Costituzione  ha predisposto al fine di procurare agli Enti Previdenziali la disponibilità dei mezzi finanziari occorrenti all’erogazione delle prestazioni di competenza.

Proprio per far fronte a  queste esigenze, gli Enti Previdenziali  sono stati infatti dotati dei poteri di indagine e di certificazione, che  devono essere esercitati nel rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, così come risulta dall’art. 3, comma 8, in oggetto che, nello stabilire che  le disposte variazioni di classificazione dei datori di lavoro hanno efficacia ex nunc, vuole evitare di imporre ai datori di lavoro le conseguenze di eventuali ritardi imputabili all’Ente  sulla corrispondenza della classificazione previdenziale alla effettiva attività esercitata.

La Cassazione ha concluso ribadendo come le due condotte delle inesatte dichiarazioni del datore di lavoro sull’attività svolta e dell’omessa comunicazione dei mutamenti intervenuti nell’attività stessa,  debbano necessariamente essere equiparate, sia sotto il profilo sanzionatorio, che in merito alla efficacia retroattiva della variazione della classificazione conseguentemente disposta dall’Inps.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza  n.1338 del 17 febbraio 1999;

Decreto Lavoro – Gli emendamenti presentati in Senato

Oggi la Commissione Lavoro del Senato ha ricevuto dal Governo  otto  emendamenti al Decreto Lavoro.

La conversione in legge dovrà avvenire entro il prossimo 19 maggio e non è escluso che per accelerare i tempi l’esecutivo decida di porre nuovamente la fiducia.

Contratti a termine
Lo sforamento della soglia del 20%, invece che con la conversione dei rapporti in contratti a tempo indeterminato, verrà sanzionato con una multa che l'impresa dovrà versare al fisco, il cui ammontare  sarà pari al 20 % della retribuzione per il ventunesimo lavoratore ed al 50 % dal ventiduesimo in poi.

Apprendistato
La possibilità di utilizzare questa tipologia contrattuale è stata estesa anche alle attività stagionali, mentre solamente le aziende con più di 50 dipendente saranno gravate dall’obbligo di  stabilizzare un determinato numero di apprendisti per la stipulazione di altri contratti della stessa natura. Nel testo approvato alla Camera il suddetto onere riguardava solamente i datori di lavoro con più di 30 dipendenti.

Rimodulata la formazione pubblica, che potrà essere svolta anche dalle imprese e dalle loro associazioni.

Contratto a tutele crescenti
All’interno del Decreto Lavoro è stata inserita anche una norma programmatica sul contratto a tempo indeterminato a protezioni crescenti.

Un emendamento al Decreto, infatti,  chiarisce la natura sperimentale di questa nuova fattispecie contrattuale  che, in attesa della prossima emanazione del Testo Unico semplificato della disciplina dei rapporti di lavoro, dovrà essere regolamentata nella delega sul lavoro.

Altri emendamenti
Tra gli altri emendamenti si segnala la proposta dell’esonero dal versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per le imprese che assumono a tempo pieno ed indeterminato soggetti inoccupati e disoccupati di lunga data.

Valerio Pollastrini

giovedì 1 maggio 2014

Dal Senato in arrivo nuove modifiche su contratti a termine, apprendistato e rapporto a tutele crescenti

Dopo gli stravolgimenti emersi successivamente all’approvazione della Camera, sembrano profilarsi nuovi cambiamenti per il “Decreto Lavoro”.

La Commissione Lavoro di Palazzo Madama  sta stringendo i tempi in vista della scadenza del 2 maggio per la presentazione degli emendamenti da votare in Senato entro lunedì.

L’obiettivo è quello di  portare il testo in Aula all'inizio della prossima settimana, votarlo e rispedirlo alla Camera per la conversione in legge prima della scadenza del 19 maggio.

In questa fase è emersa la volontà di apportare ulteriori modifiche al Decreto, relative ai contratti a termine, all’apprendistato ed al c.d. contratto a tutele crescenti.

Contratti a termine
La modifica dovrebbe riguardare la norma votata dalla Camera  che stabilisce la conversione in contratto a tempo indeterminato  ai danni delle aziende che superino la soglia del 20% di contratti a termine.

L’idea è quella di trasformare la richiamata  sanzione  in un semplice esborso economico a favore del lavoratore, la cui entità dovrà essere definita.

Risulta inoltre al vaglio l’ipotesi di esentare gli Enti di ricerca dal tetto del 20%.

Apprendistato
A proposito di questo istituto, si ricorda che il testo approvato dalla Camera ha reintrodotto l’obbligo della formazione pubblica “esterna” per l’apprendista, soppresso  nella versione originaria del Decreto Legge.

La nuova norma ha apposto  la condizione che la Regione, entro 45 giorni dall'avvio del rapporto di apprendistato, comunichi al datore di lavoro le modalità di erogazione della formazione di competenza pubblica.

E’ attualmente oggetto di valutazione la compatibilità di questa clausola con la normativa europea. In caso di inadempienza della Regione, infatti, la formazione pubblica diverrebbe facoltativa, esponendo lo Stato italiano a possibili sanzioni, come avvenne nel caso dei contratti di formazione lavoro.

Si sta valutando l'opportunità che possa essere la stessa azienda, a patto che risulti adeguatamente attrezzata, ad impartire la formazione “on the job”.

Il contratto a tutele crescenti
Verrà presentato un emendamento che prevede la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro a tempo indeterminato entro i primi 36 mesi, attraverso  il versamento di una indennità economica.

Valerio Pollastrini

Al via la Garanzia Giovani

Al via dal primo maggio 2014 il piano nazionale “Garanzia Giovani”, predisposto in favore dei   ragazzi con un’età compresa fra i 15 ed i 29 anni,  privi di un lavoro e che non siano impegnati in attività di studio.

Ad annunciarlo è un comunicato stampa apparso sul sito istituzionale del Ministero del Lavoro.

Il progetto, frutto della cooperazione tra Governo,  Pubbliche Amministrazioni, imprese ed  organizzazioni sociali e del terzo settore, è stato approntato allo scopo di favorire ed orientare l’inserimento lavorativo o il recupero formativo dei giovani, anche attraverso la promozione di iniziative innovative.

Il piano  prevede l’investimento da parte dello Stato di circa 1,5 miliardi di euro, in buona parte finanziati dalla Comunità Europea (1), per garantire a tutti i giovani in possesso dei richiamati  requisiti, un’offerta qualitativamente valida di lavoro, proseguimento degli studi, apprendistato, tirocinio, altra misura di formazione o inserimento nel servizio civile.

Entro il 31 dicembre 2015, i soggetti interessati  potranno presentare la domanda di adesione sul sito www.garanziagiovani.gov.it, ancora in fase di attivazione, o utilizzando i vari portali regionali che verranno predisposti prossimamente.

Sarà il candidato a decidere in quale Regione partecipare alle iniziative richieste, che, dunque, non sarà  necessariamente quella di residenza.

I Servizi per l’Impiego, o le Agenzie private accreditate, avranno il compito di smistare le domande per la profilazione, la registrazione al programma  e le fasi successive di orientamento.

In base al profilo del richiedente e alle disponibilità territoriali, i giovani stipuleranno con gli operatori  il c.d. “Patto di servizio” e, entro i quattro mesi successivi, avranno la possibilità di ricevere una o più tra le seguenti opportunità:

-         Inserimento al lavoro;
-         Apprendistato;
-         Tirocinio;
-         Istruzione e Formazione;
-         Autoimprenditorialità;
-         Servizio civile.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – 567 milioni di euro dalla Youth Employment Initiative, 567 milioni di euro dal Fondo Sociale Europeo e 379 milioni di euro con il cofinanziamento nazionale;

Solo a dicembre 2015 il bonus di 80 euro per colf, badanti e soggetti che hanno perso il lavoro

Colf  e  badanti, nonché coloro che hanno perso il lavoro nei primi mesi del 2014, riceveranno il bonus di 80,00 € (1)  in un’unica soluzione, che verrà erogata a dicembre 2015.

Salvo prossime smentite, i soggetti sopraindicati potranno ottenere il beneficio fiscale in commento, attraverso il Modello 730 “situazioni particolari”, la  dichiarazione dei redditi (2) introdotta lo scorso anno in favore di tutti  i lavoratori che hanno cessato il rapporto di lavoro e che non siano riusciti a trovare un nuovo impiego.

Se, dunque, i soggetti alle dipendenze di un datore di lavoro che riveste anche la funzione di sostituto d’imposta riceveranno il bonus a partire dalle buste paga relative alle competenze di maggio 2014, chi è senza sostituto dovrà invece attendere la dichiarazione 2015, relativa ai redditi prodotti quest’anno.

Nel merito della questione, sarebbe opportuno che l’Agenzie delle Entrate intervenisse al più presto con una nota di chiarimento.

Valerio Pollastrini


(1)   – Introdotto dal Decreto Legge n.66/2014;
(2)   - Introdotto dal Decreto Legge n.69/2013;

Il dirigente pubblico, se licenziato illegittimamente, ha diritto alla reintegrazione

Nella sentenza n.8077 del 7 aprile 2014 la Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di licenziamento illegittimo,  la tutela reintegratoria prevista dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori trovi applicazione anche in favore dei dirigenti della Pubblica Amministrazione.

Il caso di specie è quello di un dirigente della Provincia di Gorizia che era  stato licenziato  dopo aver presentato una denuncia penale a carico della Giunta Provinciale, alla quale la  stampa locale aveva dato ampio risalto, avente ad oggetto fatti risultati privi di riscontro e conclusasi con  l’assoluzione degli imputati per insussistenza del fatto.

Il lavoratore si era rivolto  al Tribunale di Gorizia chiedendo la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno in base all'art.18 dello  Statuto dei  Lavoratori.

Ritenuto il recesso ingiustificato,  il Tribunale aveva però  negato la tutela reintegratoria ed aveva  condannato la Provincia a corrispondere al ricorrente l'indennità sostitutiva del preavviso e l'indennità supplementare, in applicazione dell'art. 30 del C.C.N.L. dei  dirigenti degli  Enti Locali.

Successivamente, la Corte di Appello di Trieste aveva confermato la decisione del Tribunale, affermando che la presentazione della denuncia penale non poteva configurare una atto illegittimo, costituendo manifestazione dei diritti riconosciuti dagli artt. 21 e 24 della Costituzione.

La Corte del merito aveva ritenuto privo di rilevanza l'esito del giudizio penale, atteso che avverso la sentenza del Tribunale, che aveva assolto gli imputati “perché il fatto non sussiste", era stato proposto Appello da parte del Pubblico Ministero e che l'Amministrazione non aveva dimostrato di aver subito un danno all'immagine e alla credibilità dell'istituzione.

Il Giudice del secondo grado aveva poi ribadito  l'inapplicabilità della c.d. tutela reale. Diversamente, si sarebbe verificata una tutela rafforzata del dirigente pubblico rispetto a quello privato, circostanza palesemente  in contrasto con la previsione degli artt. 27 e 30 del CCNL di settore, che,  in caso  di licenziamento illegittimo, prevedono, in favore del lavoratore, la corresponsione di un'indennità supplementare.

A questo punto, la Provincia aveva  adito la Cassazione, alla quale anche il lavoratore si era rivolto presentando  ricorso incidentale per la mancata applicazione  della tutela reitegratoria prevista dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso della Provincia, osservando  che la risonanza mediatica di una  denuncia a carico di amministratori pubblici  di per sé prescinde dalla condotta del denunciante e deriva dal ruolo pubblico degli imputati.

Si tratta, pertanto, di una circostanza che non può essere addebitata al dipendente ai fini disciplinari, a meno che la risonanza sia provocata artatamente dalla condotta del dipendente, o quando il contenuto della notizia sia falsato per effetto del suo intervento, circostanza questa esclusa nel caso in oggetto.

La Cassazione ha invece accolto il ricorso del lavoratore, richiamando il consolidato indirizzo giurisprudenziale in base al quale l'illegittimità del recesso dal rapporto di lavoro di una Pubblica Amministrazione con un dirigente comporta l'applicazione della disciplina di cui all'art.18 della legge n.300 del 1970, con le conseguenze reintegratorie.

Tale decisione, a detta della Suprema Corte, risulta conforme all’applicazione della previsione dell'art.51 del D.Lgs. n.165 del 2001 che, dopo avere affermato come il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici è disciplinato dalle disposizioni dell'art.2, commi 2 e 3, e dell'art.3, comma 1, riferibili anche ai dirigenti, prevede, al comma 2, che lo Statuto dei Lavoratori si applica alle Pubbliche Amministrazioni, a prescindere dal numero dei dipendenti.

Al riguardo, gli ermellini hanno inoltre affermato che, poiché il rapporto stabile dei dipendenti pubblici con attitudine dirigenziale è assimilabile a quello della categoria impiegatizia e, poiché la normativa sui licenziamenti individuali (1) si  riferisce ai dirigenti privati, la disciplina contenuta nello Statuto dei Lavoratori si riferisce anche al rapporto fondamentale di lavoro dei dirigenti pubblici (2).

La Corte di legittimità ha escluso che in tal modo possa configurarsi  un trattamento preferenziale del dirigente pubblico rispetto a quello privato, considerato che la disciplina delle due dirigenze non è sovrapponibile, in quanto, nel settore pubblico, il procedimento qualificatorio della categoria dirigenziale si basa sulla ricorrenza di presupposti formali, mentre alcun rilievo assume l'esercizio delle mansioni effettivamente svolte, con una evidente  scissione, estranea al diritto privato, fra l'acquisto della qualifica di dirigente con rapporto di lavoro a tempo indeterminato ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali a termine.

La Cassazione ha poi concluso osservando  che il riconoscimento della tutela reintegratoria  ai dirigenti pubblici risulta coerente con i principi di imparzialità e di buon andamento della Pubblica Amministrazione, dal momento che tale diritto sarebbe in grado di garantirne la fisiologica organizzazione, costituendo un adeguato rimedio alla disfunzione conseguente al licenziamento illegittimo.

Valerio Pollastrini

(1)   – Art.10 della Legge n.604 del 15 luglio 1966;
(2)   – Per via dell'estensione operata dall'art.51, comma 2, del D.Lgs. n.165/2001;