Nel
caso in commento, la sezione penale della Corte di Appello aveva confermato la
sentenza con la quale il Tribunale aveva
giudicato colpevole di appropriazione indebita aggravata un commercialista che si era rifiutato di
restituire ad una società i libri e le
scritture contabili.
Il
professionista era stato condannato alla
pena di tre mesi di reclusione e 500,00 € di multa, oltre al risarcimento del
danno e alla rifusione delle spese in favore della parte civile.
L'imputato
aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che per la sussistenza del reato
sarebbe stato necessario che la condotta addebitatagli fosse connaturata dalla
finalità dell' ingiusto profitto.
A
suo dire, la mancata restituzione dei libri e delle scritture contabili non
avrebbe avuto alcuna finalità lucrativa.
Rigettando
il ricorso, la Suprema Corte ha ribadito
che il rifiuto del professionista di restituire al cliente la documentazione
ricevuta integra il reato di appropriazione indebita.
Si
tratta, infatti, di un comportamento che travalica i limiti del titolo del possesso e,
in generale, il delitto di appropriazione
indebita risulta configurato dal momento
in cui il possessore compie un atto di dominio sulla "res" altrui, manifestandone
l'intenzione di tenerla come propria.
Per
quanto riguarda il caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto
consumato il reato quando il commercialista, a seguito della prima richiesta di
restituzione della documentazione contabile, aveva opposto alla società un
netto rifiuto.
La
sentenza di primo grado aveva inoltre accertato che, nonostante il
professionista avesse ricevuto l’intero importo del compenso mensile pattuito
con il cliente, oltre a trattenere la documentazione, era venuto meno ai propri
obblighi, non presentando la dichiarazione dei redditi per conto della società.
Proprio
tenendo celate le omesse prestazioni, il commercialista aveva posto il essere
la finalità dell’ingiusto profitto, procurando un danno alla persona offesa
che, per tale ragione, era stata oggetto
di verifica tributaria, conclusasi con l’attribuzione
di sanzioni economiche a carico della società.
Per
le citate ragioni, la Suprema Corte ha concluso con la conferma di quanto disposto
nella sentenza del merito.
Valerio
Pollastrini
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