Nel
caso di specie, un collaboratore a progetto si era rivolto al Tribunale di
Trento lamentando l’illegittimità del recesso operato dalla società committente
e chiedendo il pagamento della somma
complessiva di 68.500,00 € per quanto
spettante con riferimento al compenso del mese di giugno 2005, all’indennità
sostitutiva del preavviso ed alla penale contrattualmente precedentemente stabilita
dalle parti in caso di risoluzione
anticipata dal contratto.
Il
Tribunale adito aveva accolto pressoché integralmente la domanda del ricorrente,
condannando la società al pagamento della somma richiesta, oltre gli accessori
di legge.
In
parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Trento aveva
successivamente condannato l’azienda a corrispondere in favore del lavoratore la
somma di 3.425,00 €, a titolo di compenso per il mese di giugno 2005, con gli
accessori di legge, ma, di contro, aveva disposto che il
lavoratore dovesse pagare alla società committente, la somma di 3.425,00 € a titolo di danni non patrimoniali, così
operando, di fatto, l’intera compensazione delle spettanze reciprocamente
dovute.
La
Corte di merito aveva escluso che la giusta causa di recesso fosse utile al
riconoscimento in favore del lavoratore della penale contrattualmente fissata dalle parti in
41.000,00 € in caso di cessazione anticipata della collaborazione.
Nella
specie, la sussistenza della giusta causa era stata attestata attraverso l’analisi
delle prove documentali e testimoniali che avevano evidenziato la natura
gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte del lavoratore ed
avevano escluso che una simile condotta fosse attribuibile ad un comportamento
provocatorio della società.
Il
Giudice di secondo grado, in sostanza, aveva riconosciuto in favore del lavoratore
la retribuzione per il lavoro svolto nel mese di
giugno 2005, pari a 3.425,00 €, ma aveva ritenuto fondata anche la domanda
riconvenzionale proposta in primo grado dalla società, avente ad oggetto i danni
all'immagine subiti a causa della
valenza diffamatoria della condotta posta in essere dal lavoratore.
La pronuncia
della Cassazione
Impugnando
la sentenza del merito dinnanzi alla Cassazione, il lavoratore aveva sostenuto
che la corretta interpretazione della
relativa clausola contrattuale avrebbe confermato la spettanza della penale anche
nell'ipotesi di recesso per giusta causa, posto che tale clausola, riferita
agli eventuali recessi anticipati, sarebbe inclusiva di ogni ipotesi di
recesso, senza distinzioni tra le varie causali.
Secondo
il collaboratore, dal momento che il
contratto individuale configurerebbe, attraverso la penale, una clausola più favorevole per il lavoratore
rispetto alla disciplina legale del contratto a progetto, il pagamento della
somma corrispondente sarebbe dovuta in
ogni caso di recesso anticipato.
Il
lavoratore aveva inoltre rilevato come con e-mail del 10 giugno 2005, spedita
dopo oltre una settimana dall'ultimo degli episodi richiamati nella lettera di
recesso, la committente gli avesse impartito talune disposizioni in ordine alle
prestazioni da svolgersi nella settimana successiva. Ciò, a suo dire,
dimostrerebbe come i contrasti insorti non fossero tali da impedire la
prosecuzione del rapporto di collaborazione, palesando tale circostanza l’assoluta
pretestuosità dell’asserita gravità dell'inadempimento addebitatogli e, conseguentemente,
l’insussistenza della giusta causa ex articolo 2119 c.c..
Ai
sensi della richiamata norma codicistica,
la giusta causa di recesso, in quanto lesiva del vincolo fiduciario posto
alla base di ogni contratto di lavoro, non consente,
neanche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto.
Ricordando
che, di fatto, il rapporto fosse
proseguito mediante l'attribuzione di nuovi incarichi, il ricorrente deduceva l’illegittimità del recesso.
Quanto
alle specifiche condotte addebitategli, il collaboratore aveva rilevato che le stesse fossero state in realtà
delle semplici manifestazioni di dissenso o critiche, sia pure espresse con toni accesi e
coloriti sulla gestione del rapporto, ma non idonee a ledere il vincolo fiduciario.
Pertanto, il principio della necessaria proporzionalità tra la sanzione e la
condotta contestata sarebbe stato violato dalla pronuncia impugnata.
Il
ricorrente aveva inoltre lamentato il mancato riconoscimento da parte della
Corte di Appello del comportamento provocatorio del datore di
lavoro.
La
prova di un simile comportamento sarebbe invece emersa dalle dichiarazioni del
teste, ma il giudicante avrebbe erroneamente
imputato al testimone adito un atteggiamento astioso nei
confronti della società.
Il
ricorrente, infine, aveva criticato la sentenza impugnata per avere accolto la domanda
riconvenzionale proposta dalla società relativa al procurato danno all'immagine.
Le
comunicazioni che avrebbero procurato alla committente un simile danno, erano
state inviate dal lavoratore esclusivamente al legale rappresentante dell’azienda
e, presupponendo che i comportamenti astrattamente lesivi dell'immagine siano solamente
quelli portati a conoscenza dei soggetti estranei all'ambito sociale, in modo
da incidere sul buon nome e sulla reputazione della società, non avrebbero in
alcun modo causato nocumento alcuno.
Investita
della questione, la Suprema Corte ha ricordato innanzitutto come il Giudice
dell’Appello avesse escluso che, in presenza di una giusta causa di recesso, il
datore di lavoro fosse comunque tenuto a corrispondere la penale prevista dalla
clausola n. 4 del contratto individuale, in base alla quale: "gli eventuali
recessi anticipati dal presente contratto da ambedue le parti dovranno essere
comunicati per iscritto con anticipo di tre mesi, a mezzo raccomandata con
ricevuta di ritorno, rispetto alla data della effettiva cessazione della
collaborazione. In tale evenienza per entrambe le parti e' prevista un penale
pari a 41.000,00 €".
Premesso
che, per i contratti a progetto, l'ammissibilità del recesso per giusta causa
dai contratti a progetto e' prevista dall’articolo 67, comma 2, del Decreto Legislativo n. 276 del 2003, che testualmente
recita: "Le parti possono recedere,
prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse
causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto
di lavoro individuale".
Attraverso
la richiamata disposizione, il legislatore non ha inteso consentire alle parti
di disciplinare in via derogatoria le ipotesi di recesso per giusta causa,
motivo per cui il giudice di Appello aveva affermato che l'espresso richiamo
della clausola n. 4 alla necessità del preavviso dimostrava come con tale
clausola le parti avessero voluto regolamentare le sole ipotesi di recesso ad nutum, prevedendo per esse l'obbligo
di corresponsione di una penale.
Facendo
propria questa motivazione, la Cassazione ha confermato l'ammissibilità di un
recesso per giusta causa senza che vi sia l'obbligo della corresponsione della
penale in favore del lavoratore.
Al
riguardo gli ermellini hanno osservato che, secondo un principio ricorrente
nella giurisprudenza di legittimità, l'interpretazione di un atto negoziale è
tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile
dalla Cassazione, se non nell'ipotesi di violazione dei canoni legali di
ermeneutica contrattuale di cui all'articolo 1362 c.c. e segg., o di
motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione
dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, mentre la mera
contrapposizione fra l'interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta
nella sentenza impugnata non rileva ai fini dell'annullamento di quest'ultima (1).
Nella
specie, non è ravvisabile alcuna violazione dei canoni legali di ermeneutica
contrattuale. La clausola in questione, infatti, nel prevedere il recesso
anticipato di una delle parti e l'obbligo della comunicazione di tale recesso
con anticipo di tre mesi rispetto alla data di cessazione del rapporto di
collaborazione, fa riferimento - come correttamente osservato dalla sentenza
impugnata - alle sole ipotesi di recesso ad
nutum, stabilendo, in tal caso, la corresponsione di una penale.
Tale
clausola non interferisce in alcun modo sulla risoluzione del contratto per
giusta causa, la quale, espressamente prevista per i contratti a progetto dal
Decreto Legislativo n.276/2003, resta
regolata dai principi generali in materia, che consentono al
datore di lavoro di risolvere il rapporto senza preavviso al verificarsi di una causa che non consenta la prosecuzione,
anche provvisoria, dello stesso a causa della lesione dell'elemento fiduciario.
L'interpretazione
fornita dalla sentenza impugnata, risulta inoltre corretta anche sotto il profilo
logico-sistematico. Infatti, la funzione assolta dalla clausola penale in
oggetti è quella di rafforzare il vincolo contrattuale e, conseguentemente, di
liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria nell'ipotesi di inadempimento
di una delle parti. Essa è dovuta alla parte adempiente, senza che questa debba
fornire la prova dell'esistenza e dell'ammontare del danno.
Se
tale clausola fosse interpretata nel
senso auspicato dal ricorrente, il beneficio della penale anche nel caso in cui
la risoluzione del rapporto sia stata
determinata dal suo inadempimento agli
obblighi contrattuali, sovvertirebbe i principi in materia, secondo i quali è alla parte adempiente che deve essere
assicurata la corrispondente indennità, attraverso una liquidazione forfettaria
dei danni.
Quanto
ad altro motivo del ricorso, la
Cassazione ha rilevato come la Corte territoriale avesse ritenuto che dalla
lettura della e-mail del 10 giugno 2005, con la quale vennero impartite al
ricorrente alcune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana
successiva, non era possibile affermare che la società avesse inteso rinunciare
al suo potere di recesso, essendosi la medesima limitata a specificare le attività
che il collaboratore avrebbe dovuto porre in essere a partire dal lunedì
successivo.
Si
tratta di una motivazione logica, ove si
consideri che, in attesa delle determinazioni da assumere in merito alle reiterate
condotte tenute dal ricorrente, anche nel periodo immediatamente antecedente a
tale comunicazione, fosse del tutto
normale che il ricorrente continuasse ad espletare la propria attività in base
alle istruzioni fornitegli dal legale rappresentante della società, non
essendovi incompatibilità tra la comunicazione delle suddette istruzioni ed il
successivo recesso disposto all'esito della valutazione del comportamento
tenuto dal collaboratore.
Parimenti
infondate, per la Suprema Corte, le
contestazioni relative alla sussistenza della giusta causa del recesso e alla presunta erronea valutazione delle dichiarazioni dei
testi, in relazione al comportamento asseritamente provocatorio tenuto dal
datore di lavoro.
La
Cassazione ha più volte precisato, in tema di licenziamento, i cui principi
sono applicabili anche in caso di recesso per
giusta causa del lavoratore a progetto, che il giudizio di proporzionalità tra
licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito,
la cui valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da
motivazione sufficiente e non contraddittoria (2).
E'
stato altresì precisato che il controllo sulla congruità e sufficienza della
motivazione, consentito dall'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non deve
risolversi in un nuovo giudizio di merito attraverso una autonoma, propria
valutazione delle risultanze degli atti di causa, risultando ciò estraneo alla
funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità (3).
Nella
specie, la Corte territoriale aveva attentamente esaminato il contenuto delle
e-mail nelle quali il collaboratore si era rivolto alla legale rappresentante
della società proferende espressioni del tipo: "mentecatta e pazzoide",
apostrofando la stessa, dicendole di vergognarsi di lei e che non si sarebbe
più fatto vedere in giro con la stessa, accusandola di aver creato una
"atmosfera puzzolente". Il lavoratore aveva inoltre accusato l’azienda di essere una "ditta
di m......dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene".
Il
Giudice del merito aveva quindi affermato che "la natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte"
appariva "talmente evidente da non
richiedere ulteriori commenti", escludendo ogni possibile
giustificazione per il comportamento del
lavoratore.
La
Corte di Appello aveva poi negato che vi fosse stato un comportamento provocatorio
della società, decidendo quindi per la legittimità del recesso.
Per
la Cassazione, si tratta di una motivazione congrua, sufficiente e non
contraddittoria, conseguente ad una corretta valutazione delle risultanze
processuali, non censurabile in sede di
legittimità. Da qui l'inidoneità delle censure formulate dal ricorrente ad
inficiare la decisione impugnata.
La
Suprema Corte ha però ritenuto fondata
la censura con la quale il ricorrente aveva contestato il riconoscimento del danno
subito dalla società.
La
Cassazione in più occasioni ha affermato
che nei confronti della persona giuridica ed in genere dell'ente collettivo la
risarcibilità del danno non patrimoniale è configurabile allorquando il fatto
lesivo incida su una situazione giuridica della società o dell'ente che sia
equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla
Costituzione, e fra tali diritti rientra quello relativo all'immagine,
allorquando si verifichi la sua lesione.
In
tali casi, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, è
risarcibile anche il danno non patrimoniale, costituito dalla diminuzione della
considerazione della persona giuridica o dell'ente, sia sotto il profilo della
incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della
diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori
o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma
interagisca (4).
Nella
specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che l'immagine della società fosse
stata lesa da un’affermazione contenuta nella e-mail del ricorrente, trasmessa
al legale rappresentante dell’azienda, nella quale così aveva affermato:
"in nessuna azienda sana un responsabile commerciale deve fare
sottoscrivere alla mamma le offerte che va a redigere"; ed altresì: la
società è "una ditta di m.......
dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene".
Ad
avviso della Suprema Corte, poiché non esternate al di fuori dell'ambito
aziendale, tali affermazioni non risultano idonee ad incidere sulla
reputazione, sul prestigio e sul buon nome della società, nè tanto meno a
provocarne la caduta dell'immagine.
Per
tali ragioni, la domanda risarcitoria non poteva essere accolta.
Secondo
la Corte di Legittimità la sentenza impugnata va dunque cassata e, non essendo
necessari ulteriori accertamenti di fatto, sul punto la causa va decisa nel
merito con il rigetto della domanda riconvenzionale.
Valerio
Pollastrini
(1)
-
Cass., Sentenza n.10554 del 30 aprile
2010; Cass., Sentenza n.13242 del 31 maggio 2010; Cass., Sentenza n.23635 del 22
novembre 2010; Cass., Sentenza n.6641 del 2 maggio 2012;
(2)
-
Cass., Sentenza n.8293 del 25 maggio
2012; Cass., Sentenza n.7948 del 7
aprile 2011; Cass., Sentenza n.24349 del 15 novembre 2006;
(3)
-
Cass., Sentenza n.17514 del 26 luglio 2010; Cass., Sentenza n.4369 del 23
febbraio 2009; Cass., Sentenza n.25743 del 10 dicembre 2007; Cass., Sentenza n.11789
del 7 giugno 2005;
(4)
-
Cass., Sentenza n.12929/2007; Cass., Sentenza n.4542/12;
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