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domenica 4 maggio 2014

Se il recesso è per giusta causa al lavoratore a progetto non va riconosciuta la penale

Nella sentenza n.22396 del 1° ottobre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto che, in presenza di una giusta causa di recesso, il lavoratore a progetto non ha diritto a riscuotere la penale pattuita in caso di cessazione anticipata del rapporto.

Nel caso di specie, un collaboratore a progetto si era rivolto al Tribunale di Trento lamentando l’illegittimità del recesso operato dalla società committente e chiedendo il  pagamento della somma complessiva di  68.500,00 € per quanto spettante con riferimento al compenso del mese di giugno 2005, all’indennità sostitutiva del preavviso ed alla penale contrattualmente precedentemente stabilita dalle parti  in caso di risoluzione anticipata dal contratto.

Il Tribunale adito aveva accolto pressoché integralmente la domanda del ricorrente, condannando la società al pagamento della somma richiesta, oltre gli accessori di legge.

In parziale riforma della sentenza di primo grado, la Corte di Appello di Trento aveva successivamente condannato l’azienda a corrispondere in favore del lavoratore la somma di 3.425,00 €, a titolo di compenso per il mese di giugno 2005, con gli accessori di legge, ma, di contro, aveva disposto che   il lavoratore dovesse pagare alla società committente, la somma di 3.425,00 €  a titolo di danni non patrimoniali, così operando, di fatto, l’intera compensazione delle spettanze reciprocamente dovute.

La Corte di merito aveva escluso che la giusta causa di recesso fosse utile al riconoscimento in favore del lavoratore della  penale contrattualmente fissata dalle parti in 41.000,00 € in caso di cessazione anticipata della collaborazione.

Nella specie, la sussistenza della giusta causa era stata attestata attraverso l’analisi delle prove documentali e testimoniali che avevano evidenziato la natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte del lavoratore ed avevano escluso che una simile condotta fosse attribuibile ad un comportamento provocatorio della società.

Il Giudice di secondo grado, in sostanza, aveva riconosciuto in favore del lavoratore la retribuzione per il lavoro svolto nel mese di giugno 2005, pari a 3.425,00 €, ma aveva ritenuto fondata anche la domanda riconvenzionale proposta in primo grado dalla società, avente ad oggetto i danni all'immagine subiti a causa  della valenza diffamatoria della condotta posta in essere dal lavoratore.

La pronuncia della Cassazione
Impugnando la sentenza del merito dinnanzi alla Cassazione, il lavoratore aveva sostenuto che la  corretta interpretazione della relativa clausola contrattuale avrebbe confermato la spettanza della penale anche nell'ipotesi di recesso per giusta causa, posto che tale clausola, riferita agli eventuali recessi anticipati, sarebbe inclusiva di ogni ipotesi di recesso, senza distinzioni tra le varie causali.

Secondo il collaboratore, dal momento che  il contratto individuale configurerebbe, attraverso la penale,  una clausola più favorevole per il lavoratore rispetto alla disciplina legale del contratto a progetto, il pagamento della somma corrispondente sarebbe dovuta  in ogni caso di recesso anticipato.

Il lavoratore aveva inoltre rilevato come con e-mail del 10 giugno 2005, spedita dopo oltre una settimana dall'ultimo degli episodi richiamati nella lettera di recesso, la committente gli avesse impartito talune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana successiva. Ciò, a suo dire, dimostrerebbe come i contrasti insorti non fossero tali da impedire la prosecuzione del rapporto di collaborazione, palesando tale circostanza l’assoluta pretestuosità dell’asserita gravità dell'inadempimento addebitatogli e, conseguentemente, l’insussistenza della giusta causa ex articolo 2119 c.c..

Ai sensi della richiamata norma codicistica,  la giusta causa di recesso, in quanto lesiva del vincolo fiduciario posto alla base di ogni contratto di lavoro,  non  consente, neanche in via provvisoria, la prosecuzione del rapporto.  

Ricordando che, di fatto, il rapporto  fosse proseguito mediante l'attribuzione di nuovi incarichi, il ricorrente deduceva  l’illegittimità del recesso.

Quanto alle specifiche condotte addebitategli, il collaboratore aveva  rilevato che le stesse fossero state in realtà delle semplici manifestazioni di dissenso o  critiche, sia pure espresse con toni accesi e coloriti sulla gestione del rapporto, ma non idonee a ledere il vincolo fiduciario. Pertanto, il principio della necessaria proporzionalità tra la sanzione e la condotta contestata sarebbe stato violato dalla pronuncia impugnata.

Il ricorrente aveva inoltre lamentato il mancato riconoscimento da parte della Corte di Appello  del  comportamento provocatorio del datore di lavoro.

La prova di un simile comportamento sarebbe invece emersa dalle dichiarazioni del teste,  ma il giudicante avrebbe erroneamente imputato al   testimone adito un atteggiamento astioso nei confronti della società.

Il ricorrente, infine, aveva criticato la sentenza impugnata per avere accolto la domanda riconvenzionale proposta dalla società relativa al procurato danno all'immagine.

Le comunicazioni che avrebbero procurato alla committente un simile danno, erano state inviate dal lavoratore esclusivamente al legale rappresentante dell’azienda e, presupponendo che i comportamenti astrattamente lesivi dell'immagine siano solamente quelli portati a conoscenza dei soggetti estranei all'ambito sociale, in modo da incidere sul buon nome e sulla reputazione della società, non avrebbero in alcun modo causato nocumento alcuno.

Investita della questione, la Suprema Corte ha ricordato innanzitutto come il Giudice dell’Appello avesse escluso che, in presenza di una giusta causa di recesso, il datore di lavoro fosse comunque tenuto a corrispondere la penale prevista dalla clausola n. 4 del contratto individuale, in base alla quale: "gli eventuali recessi anticipati dal presente contratto da ambedue le parti dovranno essere comunicati per iscritto con anticipo di tre mesi, a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, rispetto alla data della effettiva cessazione della collaborazione. In tale evenienza per entrambe le parti e' prevista un penale pari a 41.000,00 €".

Premesso che, per i contratti a progetto, l'ammissibilità del recesso per giusta causa dai contratti a progetto e' prevista dall’articolo 67, comma 2, del  Decreto Legislativo n. 276 del 2003, che testualmente recita: "Le parti possono recedere, prima della scadenza del termine per giusta causa ovvero secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale".

Attraverso la richiamata disposizione, il legislatore non ha inteso consentire alle parti di disciplinare in via derogatoria le ipotesi di recesso per giusta causa, motivo per cui il giudice di Appello aveva affermato che l'espresso richiamo della clausola n. 4 alla necessità del preavviso dimostrava come con tale clausola le parti avessero voluto regolamentare le sole ipotesi di recesso ad nutum, prevedendo per esse l'obbligo di corresponsione di una penale.

Facendo propria questa motivazione, la Cassazione ha confermato l'ammissibilità di un recesso per giusta causa senza che vi sia l'obbligo della corresponsione della penale in favore del lavoratore.

Al riguardo gli ermellini hanno osservato che, secondo un principio ricorrente nella giurisprudenza di legittimità,  l'interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, incensurabile dalla Cassazione, se non nell'ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui all'articolo 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'iter logico seguito per giungere alla decisione, mentre la mera contrapposizione fra l'interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata non rileva ai fini dell'annullamento di quest'ultima (1).

Nella specie, non è ravvisabile alcuna violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale. La clausola in questione, infatti, nel prevedere il recesso anticipato di una delle parti e l'obbligo della comunicazione di tale recesso con anticipo di tre mesi rispetto alla data di cessazione del rapporto di collaborazione, fa riferimento - come correttamente osservato dalla sentenza impugnata - alle sole ipotesi di recesso ad nutum, stabilendo, in tal caso, la corresponsione di una penale.
                                                                               
Tale clausola non interferisce in alcun modo sulla risoluzione del contratto per giusta causa, la quale, espressamente prevista per i contratti a progetto dal Decreto Legislativo n.276/2003,  resta regolata dai principi generali in materia, che consentono  al datore di lavoro  di risolvere  il rapporto senza preavviso al verificarsi di  una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, dello stesso a causa della lesione  dell'elemento fiduciario.

L'interpretazione fornita dalla sentenza impugnata, risulta inoltre  corretta anche sotto il profilo logico-sistematico. Infatti, la funzione assolta dalla clausola penale in oggetti è quella di rafforzare il vincolo contrattuale e, conseguentemente, di liquidare preventivamente la prestazione risarcitoria nell'ipotesi di inadempimento di una delle parti. Essa è dovuta alla parte adempiente, senza che questa debba fornire la prova dell'esistenza e dell'ammontare del danno.

Se tale clausola  fosse interpretata nel senso auspicato dal ricorrente, il beneficio della penale anche nel caso in cui  la risoluzione del rapporto sia stata determinata dal suo inadempimento agli obblighi contrattuali,  sovvertirebbe  i principi in materia, secondo i quali è  alla parte adempiente che deve essere assicurata la corrispondente indennità, attraverso una liquidazione forfettaria dei danni.

Quanto ad altro  motivo del ricorso, la Cassazione ha rilevato come la Corte territoriale avesse ritenuto che dalla lettura della e-mail del 10 giugno 2005, con la quale vennero impartite al ricorrente alcune disposizioni in ordine alle prestazioni da svolgersi nella settimana successiva, non era possibile affermare che la società avesse inteso rinunciare al suo potere di recesso, essendosi la medesima limitata a specificare le attività che il collaboratore avrebbe dovuto porre in essere a partire dal lunedì successivo.

Si tratta di una motivazione  logica, ove si consideri che, in attesa delle determinazioni da assumere in merito alle reiterate condotte tenute dal ricorrente, anche nel periodo immediatamente antecedente a tale comunicazione, fosse  del tutto normale che il ricorrente continuasse ad espletare la propria attività in base alle istruzioni fornitegli dal legale rappresentante della società, non essendovi incompatibilità tra la comunicazione delle suddette istruzioni ed il successivo recesso disposto all'esito della valutazione del comportamento tenuto dal collaboratore.

Parimenti infondate, per la Suprema Corte,  le contestazioni relative alla sussistenza della  giusta causa del recesso e alla presunta  erronea valutazione delle dichiarazioni dei testi, in relazione al comportamento asseritamente provocatorio tenuto dal datore di lavoro.

La Cassazione ha più volte precisato, in tema di licenziamento, i cui principi sono  applicabili anche in caso di recesso per giusta causa del lavoratore a progetto, che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione è incensurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (2).

E' stato altresì precisato che il controllo sulla congruità e sufficienza della motivazione, consentito dall'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non deve risolversi in un nuovo giudizio di merito attraverso una autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa, risultando ciò estraneo alla funzione assegnata dall'ordinamento al giudice di legittimità (3).

Nella specie, la Corte territoriale aveva attentamente esaminato il contenuto delle e-mail nelle quali il collaboratore si era rivolto alla legale rappresentante della società proferende espressioni del tipo:  "mentecatta e pazzoide", apostrofando la stessa, dicendole di vergognarsi di lei e che non si sarebbe più fatto vedere in giro con la stessa, accusandola di aver creato una "atmosfera puzzolente". Il lavoratore aveva inoltre  accusato l’azienda di essere una "ditta di m......dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene".

Il Giudice del merito aveva quindi  affermato che "la natura gravemente offensiva delle esternazioni verbali e scritte" appariva "talmente evidente da non richiedere ulteriori commenti", escludendo ogni possibile giustificazione per  il comportamento del lavoratore.

La Corte di Appello aveva poi negato che vi fosse stato un comportamento provocatorio della società, decidendo quindi per la legittimità del recesso.

Per la Cassazione, si tratta di una  motivazione congrua, sufficiente e non contraddittoria, conseguente ad una corretta valutazione delle risultanze processuali, non censurabile in  sede di legittimità. Da qui l'inidoneità delle censure formulate dal ricorrente ad inficiare la decisione impugnata.

La Suprema Corte ha però  ritenuto fondata la censura con la quale il ricorrente aveva contestato il riconoscimento del danno subito dalla società.

La Cassazione in più occasioni ha  affermato che nei confronti della persona giuridica ed in genere dell'ente collettivo la risarcibilità del danno non patrimoniale è configurabile allorquando il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della società o dell'ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione, e fra tali diritti rientra quello relativo all'immagine, allorquando si verifichi la sua lesione.

In tali casi, oltre al danno patrimoniale, se verificatosi, e se dimostrato, è risarcibile anche il danno non patrimoniale, costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell'ente, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l'ente di norma interagisca (4).

Nella specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che l'immagine della società fosse stata lesa da un’affermazione contenuta nella e-mail del ricorrente, trasmessa al legale rappresentante dell’azienda, nella quale così aveva affermato: "in nessuna azienda sana un responsabile commerciale deve fare sottoscrivere alla mamma le offerte che va a redigere"; ed altresì: la società  è "una ditta di m....... dalla quale tutti i dipendenti fanno a gara per andarsene".

Ad avviso della Suprema Corte, poiché non esternate al di fuori dell'ambito aziendale, tali affermazioni non risultano idonee ad incidere sulla reputazione, sul prestigio e sul buon nome della società, nè tanto meno a provocarne la caduta dell'immagine.

Per tali ragioni, la domanda risarcitoria non poteva essere accolta.

Secondo la Corte di Legittimità la sentenza impugnata va dunque cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, sul punto la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda riconvenzionale.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - Cass., Sentenza  n.10554 del 30 aprile 2010; Cass., Sentenza n.13242 del 31 maggio 2010; Cass., Sentenza n.23635 del 22 novembre 2010; Cass., Sentenza n.6641 del 2 maggio 2012;
(2)   - Cass., Sentenza  n.8293 del 25 maggio 2012; Cass., Sentenza  n.7948 del 7 aprile 2011; Cass., Sentenza n.24349 del 15 novembre 2006;
(3)   - Cass., Sentenza n.17514 del 26 luglio 2010; Cass., Sentenza n.4369 del 23 febbraio 2009; Cass., Sentenza n.25743 del 10 dicembre 2007; Cass., Sentenza n.11789 del 7 giugno 2005;
(4)   - Cass., Sentenza n.12929/2007; Cass., Sentenza n.4542/12;

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