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domenica 13 aprile 2014

Pubblico Impiego – Diritto al compenso aggiuntivo per le festività coincidenti con la domenica

Nella sentenza n.1040 del 5 novembre 2013-20 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto manifestamente fondata la questione costituzionale sollevata da alcuni lavoratori del Ministero della Giustizia, in riferimento alla norma che nega ai dipendenti pubblici un compenso aggiuntivo per le festività coincidenti con la domenica.

Il caso prende le mosse dalla pronuncia con la quale la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo, aveva accolto le opposizioni proposte dal Ministero  avverso i decreti ingiuntivi emessi a favore di alcuni dipendenti, ritenendo infondata la pretesa di ottenere il compenso  relativo alle festività coincise con la domenica.

La Corte territoriale aveva infatti rilevato che la gravata sentenza avesse accolto la domanda alla luce dell'art. 5, terzo comma, della legge n. 260/1949 (1) ma che, sul punto, fosse intervenuta la Legge n.266/2005 (2) che, all’art. 1, comma 224, di interpretazione autentica, aveva elencato il citato art.5 tra le disposizioni inapplicabili al Pubblico Impiego, una volta stipulati i CCNL per il quadriennio 98/01.

A seguito di detto intervento legislativo, stante la natura interpretativa della norma o comunque il suo contenuto innovativo ma con efficacia retroattiva, la Corte del merito aveva quindi stabilito che, una volta stipulati i contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 o, al più tardi, dal momento della sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1998/2001, fosse inevitabile il rigetto delle domande dei lavoratori.

Contro questa sentenza, i lavoratori avevano adito la Corte di Cassazione, lamentando la violazione dell'art.1, comma 224, della  Legge  n.266 del 23 dicembre 2005. Essi notavano come la sentenza impugnata avesse rigettato le loro domande in applicazione del comma 224 ora cit., il quale ha negato ai pubblici impiegati  il compenso per le festività civili nazionali ricadenti di domenica.

I ricorrenti avevano però osservato  che tale disposizione, per il contenuto letterale della sua seconda parte, avesse efficacia retroattiva,  "salva l'esecuzione dei giudicati", formatisi appunto fino alla data dell’entrata in vigore della stessa.

Secondo i lavoratori, sul piano costituzionale questa efficacia retroattiva non sarebbe giustificata da una finalità realmente interpretativa della disposizione, la quale attribuisce alla norma interpretata,  non già uno dei significati possibili, bensì un significato del tutto nuovo.

Il fatto che   la Corte costituzionale (3) abbia  escluso ogni illegittima disparità di trattamento tra dipendenti pubblici e privati, costituirebbe, inoltre, una circostanza certamente influente sulla giustificazione  della detta retroattività.

I ricorrenti avevano quindi sollevato la  questione di legittimità costituzionale del comma 224 cit., poiché la prevista retroattività violerebbe il divieto di ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia, ossia influirebbe sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso, ledendo l'autonomia e l’indipendenza della magistratura,  nonché il principio di imparzialità della pubblica amministrazione.

La Suprema Corte ha ritenuto fondata la questione avente ad oggetto l'art.1, comma 224,  della Legge n.266/2005, questione consistente nello stabilire se l'efficacia che il citato comma 224 debba esplicare sui processi pendenti violi il diritto dei lavoratori, parti private, all'equo processo, tutelato dall'art.6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) e, indirettamente, dall'art.117, primo comma, della Costituzione italiana.

La rilevanza, a detta della Cassazione, risulta evidente dalla necessità della diretta applicazione della disposizione richiamata nella presente controversia.

Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte ha riepilogato l'intero contenuto della disposizione: "Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 è ricompreso l'articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260 in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. È fatta salva l'esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge".

Il citato art. 69 recita a sua volta " gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all'articolo 2, comma 2. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Tali disposizioni cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001".

Per la Cassazione, l'espressa applicazione della legge n.266 del 2005  ai processi ancora pendenti alla data della sua entrata in vigore, esclude ogni possibilità di negare l'efficacia retroattiva della norma.

La cosiddetta interpretazione adeguatrice, pertanto, trova il suo limite nell’analisi letterale della disposizione in commento.

Del resto, in passato, anche la giurisprudenza aveva  affermato l'efficacia retroattiva del comma 224 (4).

Gli ermellini hanno aggiunto l’irrilevanza sulla presente questione della sentenza con la quale la Corte Costituzionale  aveva negato il contrasto del comma 224 con il principio di eguaglianza, nella specie tra lavoratori dipendenti pubblici e privati.

Per la Cassazione, sono gli stessi precedenti della Corte Costituzionale a confermare che la questione debba essere risolta dal vaglio di costituzionalità.

A partire dalle sentenze n.348 e n.349 del 2007, è stato ritenuto costantemente che  le norme della CEDU - nel significato ad esse attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per darne interpretazione ed applicazione (5) - integrano, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art.117 Cost., comma 1, nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali.

La Corte costituzionale ha affermato che nel caso in cui una norma interna contrasti con una norma della CEDU, il giudice nazionale comune, ricorrendo a tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica (6), debba preventivamente verificare la praticabilità di un'interpretazione della prima conforme alla norma convenzionale.

Qualora da questa verifica emergesse un esito negativo e, dunque  il contrasto non possa essere risolto in via interpretativa, il giudice comune, non potendo disapplicare la norma interna, né farne applicazione per via del  contrasto con la CEDU e pertanto con la Costituzione, deve denunciare la rilevata incompatibilità proponendo questione di legittimità costituzionale.

Sempre il Giudice delle leggi ha affermato che, sollevata la questione di legittimità costituzionale, il giudice comune - dopo aver accertato che il denunciato contrasto tra norma interna e norma della CEDU sussista e non possa essere risolto in via interpretativa - è chiamato a verificare se la norma della Convenzione - norma che si colloca pur sempre ad un livello sub-costituzionale - si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione. In questa ipotesi, deve essere esclusa l'idoneità della norma convenzionale ad integrare il parametro costituzionale considerato.

Più precisamente, secondo la Corte Costituzionale (7), la verifica del contrasto fra norma interna e norma CEDU non può portare ad una violazione di norme costituzionali interne, con la conseguenza che la norma CEDU, nel momento in cui integri il primo comma dell’art. 117 Cost. come norma interposta, debba formare oggetto di bilanciamento secondo le valutazioni di costituzionalità svolte ordinariamente dalla stessa Corte.

Ciò induce a prospettare la possibilità di un bilanciamento tra il sacrificio economico imposto al lavoratore, anche con efficacia retroattiva ossia anche con lesione della posizione processuale e necessità di equilibrio del bilancio dello Stato, da assicurare tenendo conto della fase avversa del ciclo economico.

Secondo la Cassazione, tale questione di bilanciamento, nel caso di specie,  appare tuttavia di dubbio esito,  non risultando  neppure approssimativamente la complessiva spesa necessaria a soddisfare quei crediti dei pubblici impiegati. Ulteriore ragione per richiedere il giudizio della Corte costituzionale.

Nella già citata pronuncia n.264 del 2012 la Corte Costituzionale ha rilevato che l'impostazione della giurisprudenza ECU risulta sostanzialmente coincidente con i principi enunciati dalla stessa Corte con riguardo al divieto di retroattività della legge, che, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25 Cost..

Il legislatore, nel rispetto di tale previsione, può dunque  emanare disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale. La richiamata disposizione convenzionale, come applicata dalla Corte Europea, integra, quindi, pianamente il parametro dell'articolo 117, primo comma, della Costituzione.

Alla luce dei citati principi, elaborati dalla giurisprudenza CEDU in riferimento all'interpretazione dell'art.6 della Convenzione, la Cassazione ha ritenuto sussistente il dubbio di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 224, della Legge n.266/2005, stante l’impossibilità di adottare un'interpretazione della disposizione in esame conforme alla Convenzione.

Intervenuta nel corso del giudizio, la norma ne aveva infatti determinato la modifica dell'esito  favorevole ai ricorrenti in base alla giurisprudenza consolidata favorevole al riconoscimento in favore  dei dipendenti pubblici del diritto ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza della festività con la domenica.

L'applicazione della legge in questione si è tradotta nel privare i ricorrenti di un emolumento che avrebbero potuto pretendere, risultando così decisiva sull'esito dei processi in corso.

Per tutti i richiamati motivi, la Corte di legittimità ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata  la questione di legittimità costituzionale dell’art.1, comma 224, della Legge n.266/2005.

Conseguentemente, la Cassazione ha disposto la sospensione del procedimento, ordinando l'immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale.

Valerio Pollastrini

 

(1)   - come modificato dall'art.1 della Legge n.90/1954;
(2)   - legge finanziaria 2006;
(3)   – Corte Costituzionale, Sentenza n.146/2008;
(4)   - Cass., Sentenza n.6736/2010; Cass., Sentenza n.14048/2009; Cass., Sentenza n.4667/2008;
(5)   - art.32, par.1, della Convenzione;
(6)   – Corte Costituzionale, Sentenze n.93/2010,  n.113/2011, n.311/2009  e n.239/2009;
(7)   - Corte Costituzionale, Sentenza n.264/2012;

L’ex moglie che abbia rinunciato alla carriera per la cura della famiglia ha diritto ad un assegno di mantenimento maggiorato

Nella determinazione dell'assegno di mantenimento, il giudice  è chiamato   ad effettuare una valutazione che miri a garantire all’ex-coniuge un tenore di vita analogo a quello tenuto in costanza del matrimonio.

Nella sentenza n.7485 del 31 marzo 2014 la Cassazione ha però affermato che, in fase di determinazione dell’assegno  in favore della ex-moglie che per assistere i figli abbia precedentemente rinunciato alla carriera professionale, è necessario considerare anche le sue oggettive difficoltà di trovare una nuova occupazione.

In sostanza, la Suprema Corte ha aggiunto tra i criteri di valutazione del giudicante quello dell’eventuale perdita di chanche occupazionale da parte della madre che per la famiglia abbia rinunciato alla carriera.

Valerio Pollastrini

La condotta imprudente del lavoratore esclude la responsabilità penale dell’imprenditore

Nella sentenza n. 15490 del 7 aprile 2014, la Corte di Cassazione ha escluso che, ai fini penali, sussista un’automatica responsabilità dell’imprenditore per “culpa in vigilando” in caso di decesso sul lavoro di un proprio dipendente, dovendosi invece accertare se l’evento possa essere stato causato da una condotta imprudente, con la quale il lavoratore abbia, di fatto, reso inutili le misure di sicurezza adottate in azienda.

Il caso al vaglio della Suprema Corte è quello del decesso di un lavoratore, causato dalle gravi ustioni riportate dopo essere stato investito dalle fiamme improvvisamente sviluppatesi dai vapori di carburante, ancora presenti all'interno di autoveicolo, non bonificato, che il predetto era intento a demolire, mediante l'uso di cannello ossipropanico, senza che il medesimo indossasse gli indumenti ignifughi di protezione e seguisse le procedure di cautela del caso.

La Corte di Appello aveva confermato la sentenza con la quale il GIP aveva condannato penalmente il datore di lavoro, ritenuto responsabile dell’accaduto.

Per la Corte territoriale il datore di lavoro aveva violato  l’obbligo di vigilanza  in merito al rispetto da parte del dipendente delle misure prevenzionali.

Il Giudice del merito aveva ricordato, inoltre,  come, l’imprenditore, qualora le  notevoli dimensioni aziendali lo avessero richiesto, avrebbe potuto delegare le responsabilità in materia di sicurezza ad altro soggetto  incaricato, purché dotato dei necessari poteri ed in possesso delle specifiche competenze.

Successivamente investita della questione, la Cassazione ha sconfessato la pronuncia del merito, contestando alla Corte di Appello di avere ignorato la circostanza che all’interno dell’organigramma aziendale vi fosse un dipendente preposto alle attività che avevano causato il decesso del lavoratore.

Secondo la Suprema Corte non era inoltre possibile  pretendere dal datore di lavoro la nomina di un soggetto delegato preposto al controllo, né all’imprenditore poteva essere richiesta  un’assillante vigilanza sul rispetto delle procedure di sicurezza da parte dei dipendenti.

Decisivo, ai fini dell’accoglimento del ricorso da parte della Suprema Corte, è stata la mancata indagine, da parte della Giudice del merito, in merito alle competenze ed abilità del lavoratore rimasto vittima dell'incidente.

Gli ermellini hanno affermato che, per individuare la responsabilità dell’evento, fosse indispensabile accertare se il sinistro, oltre che dalla mancata adozione della vittima delle prescritte misure di sicurezza, potesse essere stato causato da una condotta imprudente del lavoratore.

Sulla base delle richiamate motivazioni, la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza impugnata, rinviandola alla Corte di Appello per nuovo esame.
 
Valerio Pollastrini

venerdì 11 aprile 2014

Le istruzioni impartite giorno per giorno costituiscono un indice della subordinazione

Nella sentenza n.8364 del 9 aprile 2014, la Corte di Cassazione ha ritenuto che le prestazioni svolte da un fisioterapista in favore di una struttura sanitaria fossero riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato.

La Corte di Appello aveva riscontrato la subordinazione, nonostante l’attività svolta dal lavoratore  fosse caratterizzata dalla presenza di alcuni  elementi tipici dei rapporti  autonomi, come  l’elevato grado di professionalità, il compenso erogato su parametri orari e la contemporanea attività svolta dal fisioterapista in favore di altri studi medici.

Rilevato, parimenti, l’assoggettamento del lavoratore alle direttive altrui, il Giudice di Appello aveva  considerato sussistente  la subordinazione, precisando che il potere direttivo del datore di lavoro potesse rinvenirsi nelle istruzioni impartite,  di giorno in giorno, dalla struttura sanitaria.

Investita della questione, la Corte di  Cassazione ha ritenuto corretta la valutazione compiuta  dai  Giudici del gravame  circa l’incompatibilità delle prestazioni rese dal fisioterapista con l’autonomia gestionale prospettata dall’azienda.

Le direttive con le quali, giornalmente, la struttura sanitaria era solita  predisporre l'agenda degli impegni, gli orari di lavoro, l'attribuzione dei pazienti, il tipo di prestazione da eseguire, senza che gli interessati avessero la possibilità di discuterle o di rifiutarle, attestavano invece, sufficientemente, la  sottoposizione del fisioterapista al potere organizzativo e decisionale dell'impresa.

A proposito dell’accertamento sulla natura del rapporto, la Suprema Corte ha ricordato come, affinché possa dirsi configurata la subordinazione, la condizione decisiva consiste nella riscontrata  soggezione del prestatore di lavoro al potere direttivo dell’imprenditore.

Secondo l’ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’osservanza di un determinato orario, la continuità della prestazione lavorativa, l’inserimento della stessa nell'organizzazione aziendale, il coordinamento con l'attività imprenditoriale, l’assenza di rischio per il lavoratore e la forma della retribuzione, costituiscono invece degli elementi puramente  sussidiari nella valutazione  della natura del rapporto.

Si tratta di indici il cui carattere risulta  meramente indiziario e che, quindi, da soli, non possono assumere valore decisivo per una corretta qualificazione giuridica delle prestazioni.

Valutati globalmente, gli stessi possono rappresentare, altresì, degli indizi di subordinazione, tutte le volte che, a causa delle peculiarità, non sia agevole l’apprezzamento diretto delle mansioni che incidano sull'atteggiarsi del rapporto.

Valerio Pollastrini

Se in azienda vi sono minori, per ogni nuovo assunto va richiesto il certificato penale

Il D.Lgs. n.39/2014 ha recentemente  introdotto, per i datori di lavoro che occupino dipendenti in attività a contatto con  minori, l’obbligo  di richiedere ad ogni nuovo assunto il certificato penale del casellario giudiziale.

Il Decreto in commento ha recepito  la Direttiva 2011/93/UE, relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografica minorile.

Con la Circolare del 3 aprile 2014, il Ministero della Giustizia ha fornito i primi chiarimenti operativi.

I soggetti interessati
L’obbligo riguarda tutti i datori di lavoro, pubblici e privati, che intendano assumere personale impiegato professionalmente a contatto diretto e regolare con minori.

Da una prima lettura del testo della norma, sembrava  che il nuovo adempimento fosse richiesto anche  ai committenti nelle medesime condizioni di attività, comportanti un contatto diretto e regolare con minori, da parte dei collaboratori coordinati e continuativi anche a progetto, lavoratori autonomi, lavoratori occupati con rapporto accessorio, tirocinanti.

Sul punto, però, è intervenuto il Ministero della Giustizia, che ha   chiarito come l’obbligazione   sorga soltanto nel caso in cui il soggetto che intenda avvalersi dell’opera di terzi voglia stipulare un nuovo contratto di lavoro. Locuzione che sembra escludere  dall’ambito di applicazione della norma chi  si avvalga di forme di collaborazione estranee ad un definito rapporto di lavoro.

Finalità
La ratio della norma è quella di consentire ai titolari delle aziende di accertare l’esistenza, a carico dei soggetti da impiegare, di sanzioni interdittive all’esercizio di attività che comportino contatti diretti e regolari con minori o di condanne per i reati di prostituzione minorile, pornografia minorile, detenzione di materiale pornografico, iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile o adescamento di minori.

Sistema sanzionatorio
Particolarmente pesanti le sanzioni previste.

Il datore di lavoro inadempiente rischia infatti un’ammenda variabile tra i 10mila ed i 15mila euro.

Durata del certificato
L’obbligo in commento sorge in occasione di ogni nuova assunzione. Da una prima lettura si era ritenuto che la richiesta del certificato, la cui validità è di 180 giorni, dovesse essere reiterata ogni sei mesi.  Nel corso del “Question Time”, tenuto  presso la Camera il 9 aprile, il Ministro del Lavoro Poletti ha però escluso l’obbligo della reitera periodica della richiesta.

La richiesta del certificato all’ufficio del casellario centrale
L’ufficio del casellario centrale è occupato in questi giorni nell’aggiornamento del  sistema informativo,  che consentirà di fornire ai datori di lavoro un certificato contenente solamente le iscrizioni di provvedimenti riferiti ai reati espressamente indicati dal decreto.

In attesa del nuovo modello, presso ogni Procura della Repubblica, gli uffici locali del casellario forniranno al datore di lavoro l’attuale certificato, denominato “certificato penale del casellario giudiziale”.

Per la richiesta, i datori di lavoro dovranno presentare  l’apposito modulo messo a disposizione dal Ministero, al quale dovrà essere allegata una dichiarazione attestante il consenso del lavoratore interessato.

In attesa dell’acquisizione del certificato del casellario, i datori di lavoro, purché ne abbiano presentato richiesta nei tempi stabiliti dalla norma, potranno ugualmente procedere all’assunzione se in possesso di una dichiarazione del lavoratore, sostitutiva dell’atto di notorietà, avente il medesimo contenuto della dichiarazione sostitutiva di certificazione.

Per eventuali chiarimenti o informazioni, gli utenti potranno comunque  contattare il servizio di “help desk”, al numero telefonico 06-97996200.

Costi
Per ottenere il certificato, i soggetti interessati dovranno spendere 16,00 € per la marca da bollo e 3,54,00 € per diritti, per un totale di 19,54 €.

Valerio Pollastrini

Cittadini extracomunitari – Diritto all’assegno comunale di maternità

Con ordinanza del 30 marzo 2014, il Tribunale di Bergamo ha ritenuto discriminatoria la condotta con la quale un’amministrazione locale e  l’INPS avevano negato ad una cittadina extracomunitaria il diritto al c.d. “assegno di maternità”.

Una cittadina extracomunitaria si era rivolta al Tribunale di Bergamo chiedendo che venisse accertata la condotta antidiscriminatoria posta in essere a suo danno dal Comune di Treviglio e dall’Inps, consistente nel mancato riconoscimento del c.d. assegno comunale di maternità.

La ricorrente, in sostanza, aveva dedotto  la lesione del diritto soggettivo alla parità di trattamento da parte  della Pubblica Amministrazione. Tale diritto costituisce principio generale dell’ordinamento giuridico interno (1),  comunitario (2) e internazionale (3) ed è  oggetto di specifica previsione e tutela nei D.Lgs. 286/1998 e 215/2003.

L’art. 43 del D.lgs. 286/1998, dopo avere definito come discriminatorio «ogni comportamento che direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata ... sull’origine nazionale o etnica e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali», qualifica come “atto di discriminazione” (4)  il rifiuto «di fornire l’accesso ai servizi sociali e socio-assistenziali allo straniero regolarmente soggiornante in Italia soltanto in ragione della sua condizione di straniero».

Ai sensi dell’art. 1 del  D.lgs. 215/2003, la parità di trattamento tra le persone deve essere attuata indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica.

La parità di trattamento si applica (5) «a tutti i soggetti, sia nel settore pubblico che privato» ed è «suscettibile di tutela giurisdizionale».

Le disposizioni di cui ai D.lgs. 286/1998 e 215/2003, quindi, sanciscono  il diritto a non subire discriminazioni, da qualsiasi soggetto provengano e in qualsiasi modo si manifestino.

Le norme suddette pongono dunque uno specifico e tassativo divieto di trattamenti discriminatori.

Nel caso in cui la Pubblica Amministrazione contravvenga a tale divieto, è esperibile la tutela giurisdizionale davanti al giudice ordinario, al quale, a mente degli artt. 2 all. E l. 2248/1865, 102 e 113 Cost., è attribuita la tutela dei diritti soggettivi (6).

Passando al merito, il Tribunale di Bergamo ha ricordato come, ai sensi dell’art. 74 del D.lgs. 151/2001, «per ogni figlio nato dal 1 gennaio 2001, o per ogni minore in affidamento preadottivo o in adozione senza affidamento dalla stessa data, alle donne residenti, cittadine italiane o comunitarie o in possesso di carta di soggiorno, che non beneficiano dell’ordinaria indennità di maternità, è concesso un assegno di maternità ...».

L’art. 19 del D.lgs. 30/2007 prevede che: «fatte salve le disposizioni specifiche espressamente previste dal Trattato CE e dal diritto derivato, ogni cittadino dell’Unione che risiede nel territorio nazionale gode di pari trattamento rispetto ai cittadini italiani nel campo di applicazione del Trattato.

Il beneficio di tale diritto si estende ai familiari non aventi la cittadinanza di uno Stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente.

Per effetto dell’entrata in vigore del D.lgs. 30/2007, il Tribunale ha precisato che  la lista delle beneficiarie dell’assegno di maternità comunale, già contemplata nell’art. 74 del D.lgs. 151/2001, è stata integrata con l’inclusione delle familiari di cittadini italiani e comunitari che si trovino nelle condizioni per il riconoscimento almeno della Carta di Soggiorno.

Nel caso di specie, la ricorrente, nel momento in cui aveva presentato la domanda, si trovava certamente nelle condizioni per ottenere il documento di soggiorno: era in Italia da almeno tre mesi; era in possesso di passaporto o documento equivalente; era moglie e madre di cittadini italiani ed era iscritta all’anagrafe come familiare di cittadini italiani.

D’altra parte, la cittadina straniera, all’epoca, si trovava  in Italia regolarmente, a nulla rilevando la successiva scadenza del suo permesso di soggiorno.

 
La sussistenza delle condizioni reddituali risultava inoltre  attestata dalla documentazione presentata al Comune.

Il giudicante ha quindi concluso ritenendo  discriminatoria la condotta del Comune di Treviglio e dell’INPS volta a negare il beneficio in questione alla ricorrente e, per tale ragione,  ha ordinato al Comune di Treviglio la cessazione di tale condotta, mediante il riconoscimento della prestazione richiesta, con condanna dell’INPS  al pagamento dell’assegno dalla data di presentazione dell’istanza.

Valerio Pollastrini

 
(1)   - artt. 2 e 3 Cost.;
(2)   - artt. 12 e 13 Trattato CE, art. 6 Trattato UE, art. 21 Carta dei diritti fondamentali dell’UE;
(3)   - art. 14 CEDU, art. 1 prot. 12 CEDU, artt. 1, 2, 7 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo;
(4)   - D.lgs. 286/1998, art. 43,co.2, lett. c);
(5)   - D.lgs. 215/2003, art.3;
(6)   - così, Trib. Bergamo, ord. 27-11-2009; Trib. Bergamo, ord. 17-5-2010, in proc. n. 476/2010;

mercoledì 9 aprile 2014

Licenziamenti collettivi - Onere della prova sulla corretta applicazione dei criteri di scelta

Nell’ambito dei licenziamenti collettivi, nella sentenza n.6057 del 14 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che,  qualora il dipendente contesti le modalità di attuazione dei criteri di scelta, spetta al datore di lavoro l’onere di provare le circostanze di fatto poste alla base  dei  criteri adottati per l’individuazione dei lavoratori da licenziare.

Facendo ricorso ai principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità (1), la Suprema Corte ha ricordato che, per ottenere l'inefficacia o l'annullamento del licenziamento intimatogli per riduzione di personale, il dipendente  debba indicare le specifiche omissioni e le specifiche irregolarità contestate al datore di lavoro.

L’obbligo gravante sul datore di lavoro  di indicare e provare le circostanze di fatto poste a base dell'applicazione dei  criteri di scelta, sussiste, pertanto, solo nel caso in cui il dipendente, nel proporre l’impugnativa, abbia sufficientemente allegato i fatti costitutivi della pretesa azionata in relazione alla contestazione della mancata osservanza di tali criteri.

La Cassazione ha quindi concluso affermando che il suddetto onere richiesto al lavoratore,  non può dirsi soddisfatto attraverso  la generica deduzione del mancato rispetto dei criteri di scelta imposti al datore di lavoro, priva di ogni riferimento alle concrete   circostanze   fattuali   che avrebbero dovuto escludere il dipendente dal novero dei soggetti da licenziare.

Valerio Pollastrini


(1)   - Cass., Sentenza n.16629/2005;

Certificato antipedofilia per dipendenti neoassunti in aziende in cui lavorino dei minorenni

Dal 6 aprile, giorno di entrata in vigore del D.Lgs. n.39/2014, i datori di lavoro che occupino nella propria azienda dipendenti di età inferiore ai 18 anni, dovranno richiedere ai neo-assunti  il c.d. “certificato antipedofilia”.

Nel corso del “question time” presso la Camera, il Ministro del lavoro Giuliano Poletti ha chiarito che l'obbligo per i datori di lavoro di richiedere il certificato vale solo per le nuove assunzioni di dipendenti  il cui impiego  preveda contatti diretti e continuativi con i minori presenti in azienda.

Le disposizioni in commento hanno recepito una Direttiva comunitaria che, per prevenire eventuali recidive, prevede che i datori di lavoro siano messi in condizione di conoscere se i potenziali neo-assunti in  impieghi che comportino contatti con minori siano stati in passato condannati per abusi sessuali ai danni di minori.

Nel question time è stato inoltre chiarito che  il datore di lavoro non avrà  l'obbligo di reiterare la richiesta del certificato ogni sei mesi.

Le aziende potranno procedere alle nuove assunzioni a partire dal momento dell’invio della richiesta del certificato al casellario, oppure dopo la dichiarazione del lavoratore sostitutiva della certificazione.

Il costo complessivo della pratica è di 19,50 €, risultato ottenuto sommando i 16 € per il bollo, salvo esenzioni, ai 3,50 € richiesti per i diritti di rilascio.

Particolarmente pesanti le sanzioni. Il datore di lavoro inadempiente rischia infatti un’ammenda dai 10mila ai 20mila euro.

Valerio Pollastrini

martedì 8 aprile 2014

La prova della ricezione del licenziamento

Nella sentenza n.6845 del 24 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che se  il licenziamento risulta inviato all’indirizzo del lavoratore con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, regolarmente ritirata,  deve ritenersi operativa la presunzione di conoscenza.

Si tratta di una  presunzione che ammette quale prova contraria solamente  l’impossibilita’ incolpevole di avere notizia dell’atto recettizio. A tal fine non basta quindi dimostrare la mancata conoscenza, occorrendo invece la prova dell’impossibilità di averne notizia e della non ascrivibilità di tale situazione alla colpevolezza del lavoratore.

Nel caso di specie la Corte di Appello di Messina aveva rigettato il ricorso con il quale un’azienda aveva impugnato la pronuncia del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento dalla stessa intimato ad un proprio dipendente.

La Corte del merito aveva confermato l’inefficacia del recesso  per inosservanza della disposizione dell’art.2 della Legge n.108/1990, che impone la forma scritta per l’atto di licenziamento.

Contro la pronuncia di Appello, il datore di lavoro aveva ricorso in Cassazione, rilevando che il recesso fosse stato ritualmente comunicato al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, ritirata dalla moglie convivente del lavoratore.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondata la censura aziendale, rilevando come la circostanza che dagli atti era risultato che il licenziamento fosse stato inviato all’indirizzo del lavoratore con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, regolarmente ritirata dalla moglie convivente del lavoratore, costituisce un elemento sufficiente a far scattare la presunzione di conoscenza di cui all’articolo 1335 del Codice Civile.

La richiamata presunzione può essere sconfessata unicamente attraverso la prova dell’impossibilita’ incolpevole da parte del lavoratore di avere notizia dell’atto recettizio. A tal fine, dunque, non è sufficiente dimostrare la mancata conoscenza, occorrendo altresì provare  l’impossibilità di averne notizia e la non ascrivibilità di tale situazione ad una condotta colpevole del lavoratore.

La Cassazione ha ritenuto che nel caso di specie una simile prova contraria non fosse stata fornita, sicché l’atto di recesso doveva ritenersi giunto a conoscenza del destinatario.

A proposito della doglianza del lavoratore, che aveva sostenuto di aver ricevuto dal datore di lavoro una busta priva di contenuto, gli ermellini hanno sottolineato come la giurisprudenza avesse già avuto modo di precisare (1) che, nel caso in cui l’atto di costituzione in mora venga spedito in plico chiuso, spetta al destinatario l’onere di provare che tale plico e’ stato consegnato vuoto.

Sempre richiamando i principi espressi dalla Corte di legittimità (2), la Cassazione ha sottolineato che, poiché gli atti ricettizi in forma scritta si considerano conosciuti dal destinatario, a norma dell’articolo 1335 c.c., il termine perentorio di 60 giorni fissato per l’impugnazione del licenziamento, decorre dal momento in cui la comunicazione e’ pervenuta all’indirizzo del lavoratore, salva la dimostrazione della sua incolpevole impossibilità ad avere conoscenza della lettera di recesso.

Con riferimento al caso di specie, a parte ogni considerazione sull’inverosimiglianza della circostanza relativa alla consegna di busta vuota, della quale alcun riferimento era stato riscontrato nella fitta corrispondenza extragiudiziale intercorsa tra le parti, la Cassazione ha rilevato che la deduzione del lavoratore, formulata nella prima difesa utile successiva alla memoria di costituzione del datore di lavoro, e’ rimasta priva di riscontri probatori, non essendo stata ammessa sul punto la prova dal giudice di primo grado in ragione della sua tardività, con statuizione non appellata dal dipendente.

Ritenendo che il licenziamento fosse stato intimato ritualmente al lavoratore, la Suprema Corte ha, pertanto, giudicato legittimo il recesso.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Cass., Sentenza n.12078 del 18 agosto 2003;
(2)   – Cass., Sentenza n.4878 del 23 aprile 1992;

lunedì 7 aprile 2014

Assoggettamento a contribuzione delle indennità corrisposte ai trasfertisti

Nella sentenza  n.5289 del 6 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha analizzato il diverso trattamento contributivo riservato alle indennità erogate in favore dei trasferisti fissi, rispetto a quelle corrisposte invece ai lavoratori in trasferta occasionale.

Il caso al vaglio della Suprema Corte è quello che ha visto un’azienda rivolgersi al Giudice del lavoro in opposizione al verbale di accertamento con il quale l’Inps le aveva  contestato il mancato assoggettamento  a contribuzione, nella misura del 50%, delle indennità specifiche versate ai dipendenti trasferisti.

Si tratta degli emolumenti  erogati in favore dei lavoratori che effettuano la prestazione in luoghi sempre variabili ed assoggettati, ai sensi dell’art.41 comma 6 del Testo Unico delle Imposte Dirette (1), alla contribuzione previdenziale nella misura del 50% del loro ammontare, anche se corrisposti con continuità.

Sia il Tribunale di Livorno che la Corte di Appello di Firenze avevano rigettato la domanda proposta dal ricorrente.

In particolare, la Corte territoriale aveva ritenuto manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale in ordine al sopra citato articolo del Tuir, nella parte in cui, a differenza di quanto previsto per le indennità di trasferta, non esonera dalla contribuzione le indennità erogate ai c.d. “trasferisti fissi”.

La Corte del merito aveva infatti rilevato la diversa funzione dei due istituti. Mentre la trasferta costituisce uno spostamento temporaneo, occasionale e contingente del luogo di abituale svolgimento della prestazione lavorativa, i trasferisti  hanno invece l’obbligo contrattuale di spostarsi continuamente. L’indennità erogata in favore di tali lavoratori  assolve, pertanto, alla funzione di  compensare il disagio patito costantemente dalla lontananza dalla propria sede.

Contro la sentenza di Appello, l’azienda aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo che le somme corrisposte ai trasfertisti sarebbero ricomprese nell’indennità di trasferta ed avrebbero la stessa natura di tale indennità come confermato dall’art. 9 ter della legge n. 166 del 1991, secondo cui nell’indennità di trasferta sono ricomprese anche le indennità spettanti ai lavoratori tenuti per contratto ad un’attività lavorativa in luoghi variabili e sempre diversi da quelli della sede aziendale.

In base a tale assunto, a detta del ricorrente,  la differenzazione dei due istituti ai fini contributivi non troverebbe alcuna giustificazione.

La pronuncia della Cassazione
La Suprema Corte ha ritenuto infondate le censure proposte dall’azienda.

Gli ermellini hanno ricordato come la stessa Corte Costituzionale avesse già affrontato la questione (2) e, confermando la legittimità del diverso trattamento dei due istituti, aveva osservato che la trasferta in senso stretto - postulando la predeterminazione di un luogo fisso per la prestazione lavorativa ed un mutamento meramente provvisorio del luogo stesso (cosiddette missioni) - non è ravvisabile sia quando ci si trovi di fronte alla diversa situazione di un effettivo “trasferimento” del dipendente in altra sede di lavoro, sia quando - pur con fondamentale riferimento ad una sede aziendale fissa- la prestazione di lavoro, per sua natura, si svolga normalmente fuori della sede stessa.

In relazione a questo secondo caso, la Cassazione ha costantemente affermato che la retribuzione imponibile comprende integralmente quanto corrisposto ai  “trasfertisti”, in quanto correlato alla causa tipica e normale del rapporto.

La Corte di legittimità ha dunque ribadito che i compensi erogati a questi lavoratori non rientrano nell’alveo dell’indennità  di trasferta, ma in quello della retribuzione corrispondente alle  attività lavorative caratterizzate da un continuo movimento del dipendente, necessario per raggiungere  località diverse, determinabili sulla base delle opere da eseguire ovvero per la natura dell’attività (come quella di trasporto), oggetto stesso del rapporto di lavoro.

A proposito delle  indennità relative alle trasferte occasionali, la Cassazione ha invece ricordato che la disciplina normativa o collettiva che ne escluda, in tutto o in parte, l’assoggettamento a contribuzione, non necessariamente deve essere rispettata anche   dal legislatore tributario, il quale è tenuto a seguire propri criteri, fondati essenzialmente sul principio della capacità contributiva, e - con riferimento al reddito di lavoro dipendente - sul principio generale della onnicomprensività di “tutti i compensi, comunque denominati”.

Tornando al caso di specie, la Suprema Corte ha concluso affermando che la sostanziale differenza tra l’istituto dell’indennità di trasferta e quello dell’indennità dovuta ai c.d. trasferisti giustifica il diverso trattamento anche ai fini contributivi.

Per tali motivi la Cassazione ha rigettato il ricorso ed ha condannato l’azienda al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in 3.000,00 € per compensi professionali ed in 100,00 € per esborsi, oltre accessori di legge.

Valerio Pollastrini

 
(1)    D.P.R. n.317/1986;
(2)   - Corte Cost. sentenza n.239 del 1993; 

Le nuove procedure per i ricorsi amministrativi contro i provvedimenti dell’Inps

Con la Determinazione presidenziale n.195 del 20 dicembre 2013, l’Inps ha recentemente modificato le procedure inerenti alla gestione dei ricorsi amministrativi contro i provvedimenti emessi dall’Istituto.

Modalità di presentazione del ricorso
I ricorsi potranno essere presentati dal direttamente dal soggetto interessato o per il tramite di patronati o  intermediari abilitati.

L’istanza dovrà essere inoltrata all’Istituto utilizzando unicamente la modalità telematica.

Il soggetto preposto all’invio del ricorso dovrà essere dotato di PIN,  con il quale  potrà accedere alla funzione “servizi on-line” dal  sito internet www.inps.it.

Gli Enti di patronato e gli altri soggetti abilitati all’intermediazione con l’Istituto potranno accedere al servizio seguendo il percorso: www.inps.it - Servizi on-line – per tipologia di utente –aziende, consulenti e professionisti – ricorsi on line.

Qualora il patrocinio venisse affidato ad un patronato o ad un intermediario abilitato, il ricorso dovrà essere firmato dal patrocinante, previa il rilascio di regolare mandato che dovrà essere allegato al ricorso.

Dal momento che il codice Pin, indispensabile per la presentazione dell’istanza, garantisce la riferibilità dell’atto, in caso di mancata  sottoscrizione, il ricorso sarà comunque ritenuto validamente presentato.

Termini per presentare il ricorso
I termini per la presentazione del ricorso sono i seguenti:

-          90 giorni dalla data di ricezione del provvedimento dell’Istituto;
-          dal 121° giorno successivo alla presentazione della domanda, quando l’Inps non abbia comunicato l’esito del ricorso.

Si precisa che l’omissione dell’onere di completezza della domanda, riferita anche alla documentazione allegata, sarà equiparata all’omessa presentazione dell’istanza.

Parimenti, le domande prive di sottoscrizione autografa o elettronica, o carenti degli elementi essenziali, o comunque prive della documentazione richiesta dalle disposizioni normative specifiche, saranno considerate come non presentate e non daranno luogo all'attivazione dei termini per la conclusione del procedimento.

Ricorso irricevibile
Ricevuta l’istanza, l’Istituto dovrà procedere ad un primo esame, circoscritto agli aspetti sostanziali del ricorso.

Ove non sussistano profili di irricevibilità, l'esame preliminare della Direzione territoriale volgerà sui requisiti di ammissibilità, tramite una valutazione  più approfondita dei contenuto del ricorso.

Ricorso inammissibile
Il ricorso sarà  dichiarato inammissibile nelle seguenti circostanze:

-         se riferito a materia istituzionale non di competenza dell’Inps;
-         se presentato prima dell’emissione del provvedimento di contestazione da parte dell’Istituto, nel caso non siano ancora scaduti i termini per la sua emissione;
-         se presentato da soggetto non legittimato ad agire;
-         in assenza di  un interesse attuale e concreto ad agire;
-         se  i termini per la proposizione dell’azione giudiziaria siano scaduti.

Autotutela
Ricorso irricevibile - In tutti i casi in cui il ricorso sia irricevibile, sarà possibile proporre azione di autotutela anche dopo la presentazione del ricorso amministrativo. L’autotutela potrà essere attivata sia d’ufficio che su istanza di parte.

Occorre precisare  che l’esercizio dell’autotutela nel corso del procedimento amministrativo non sospende i termini per la proposizione del ricorso.

In ogni caso, anche in fase amministrativo-contenziosa, l'Ente, nel caso ne ravvisi i presupposti, dovrà creare i presupposti per riconsiderare in autotutela il provvedimento impugnato.

Cessazione del contendere - Nelle ipotesi in cui sia intervenuta una sentenza di primo grado in favore del ricorrente, attraverso  l’azione di autotutela, promossa dall’interessato, in qualsiasi fase del procedimento potrà essere rilevata la cessazione della materia del contendere.

Termini per la decisione
Dalla data di ricezione dell’istanza da parte dell’Inps inizieranno a decorrere i termini per  la decisione del ricorso.

In materia di classificazione dei datori di lavoro, il ricorso dovrà essere deciso entro 90 giorni.

Il comitato periferico/centrale o le speciali Commissione potranno comunque esaminare i ricorsi ed assumere le relative decisioni anche dopo la scadenza dei 90 giorni.

L’esito sarà comunicato al ricorrente in via telematica, ferma la possibilità di accesso telematico di questi all’iter procedurale.

Valerio Pollastrini