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martedì 8 aprile 2014

La prova della ricezione del licenziamento

Nella sentenza n.6845 del 24 marzo 2014 la Corte di Cassazione ha ribadito che se  il licenziamento risulta inviato all’indirizzo del lavoratore con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, regolarmente ritirata,  deve ritenersi operativa la presunzione di conoscenza.

Si tratta di una  presunzione che ammette quale prova contraria solamente  l’impossibilita’ incolpevole di avere notizia dell’atto recettizio. A tal fine non basta quindi dimostrare la mancata conoscenza, occorrendo invece la prova dell’impossibilità di averne notizia e della non ascrivibilità di tale situazione alla colpevolezza del lavoratore.

Nel caso di specie la Corte di Appello di Messina aveva rigettato il ricorso con il quale un’azienda aveva impugnato la pronuncia del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento dalla stessa intimato ad un proprio dipendente.

La Corte del merito aveva confermato l’inefficacia del recesso  per inosservanza della disposizione dell’art.2 della Legge n.108/1990, che impone la forma scritta per l’atto di licenziamento.

Contro la pronuncia di Appello, il datore di lavoro aveva ricorso in Cassazione, rilevando che il recesso fosse stato ritualmente comunicato al lavoratore con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, ritirata dalla moglie convivente del lavoratore.

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondata la censura aziendale, rilevando come la circostanza che dagli atti era risultato che il licenziamento fosse stato inviato all’indirizzo del lavoratore con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, regolarmente ritirata dalla moglie convivente del lavoratore, costituisce un elemento sufficiente a far scattare la presunzione di conoscenza di cui all’articolo 1335 del Codice Civile.

La richiamata presunzione può essere sconfessata unicamente attraverso la prova dell’impossibilita’ incolpevole da parte del lavoratore di avere notizia dell’atto recettizio. A tal fine, dunque, non è sufficiente dimostrare la mancata conoscenza, occorrendo altresì provare  l’impossibilità di averne notizia e la non ascrivibilità di tale situazione ad una condotta colpevole del lavoratore.

La Cassazione ha ritenuto che nel caso di specie una simile prova contraria non fosse stata fornita, sicché l’atto di recesso doveva ritenersi giunto a conoscenza del destinatario.

A proposito della doglianza del lavoratore, che aveva sostenuto di aver ricevuto dal datore di lavoro una busta priva di contenuto, gli ermellini hanno sottolineato come la giurisprudenza avesse già avuto modo di precisare (1) che, nel caso in cui l’atto di costituzione in mora venga spedito in plico chiuso, spetta al destinatario l’onere di provare che tale plico e’ stato consegnato vuoto.

Sempre richiamando i principi espressi dalla Corte di legittimità (2), la Cassazione ha sottolineato che, poiché gli atti ricettizi in forma scritta si considerano conosciuti dal destinatario, a norma dell’articolo 1335 c.c., il termine perentorio di 60 giorni fissato per l’impugnazione del licenziamento, decorre dal momento in cui la comunicazione e’ pervenuta all’indirizzo del lavoratore, salva la dimostrazione della sua incolpevole impossibilità ad avere conoscenza della lettera di recesso.

Con riferimento al caso di specie, a parte ogni considerazione sull’inverosimiglianza della circostanza relativa alla consegna di busta vuota, della quale alcun riferimento era stato riscontrato nella fitta corrispondenza extragiudiziale intercorsa tra le parti, la Cassazione ha rilevato che la deduzione del lavoratore, formulata nella prima difesa utile successiva alla memoria di costituzione del datore di lavoro, e’ rimasta priva di riscontri probatori, non essendo stata ammessa sul punto la prova dal giudice di primo grado in ragione della sua tardività, con statuizione non appellata dal dipendente.

Ritenendo che il licenziamento fosse stato intimato ritualmente al lavoratore, la Suprema Corte ha, pertanto, giudicato legittimo il recesso.

Valerio Pollastrini

 
(1)   – Cass., Sentenza n.12078 del 18 agosto 2003;
(2)   – Cass., Sentenza n.4878 del 23 aprile 1992;

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