Si
tratta di una presunzione che ammette
quale prova contraria solamente l’impossibilita’
incolpevole di avere notizia dell’atto recettizio. A tal fine non basta quindi
dimostrare la mancata conoscenza, occorrendo invece la prova dell’impossibilità
di averne notizia e della non ascrivibilità di tale situazione alla
colpevolezza del lavoratore.
Nel
caso di specie la Corte di Appello di Messina aveva rigettato il ricorso con il
quale un’azienda aveva impugnato la pronuncia
del Tribunale di primo grado che aveva ritenuto illegittimo il licenziamento dalla
stessa intimato ad un proprio dipendente.
La
Corte del merito aveva confermato l’inefficacia del recesso per inosservanza della disposizione dell’art.2
della Legge n.108/1990, che impone la forma scritta per l’atto di licenziamento.
Contro
la pronuncia di Appello, il datore di lavoro aveva ricorso in Cassazione,
rilevando che il recesso fosse stato ritualmente comunicato al lavoratore con
lettera raccomandata con avviso di ricevimento, ritirata dalla moglie
convivente del lavoratore.
La
Corte di Cassazione ha ritenuto fondata la censura aziendale, rilevando come la
circostanza che dagli atti era risultato che il licenziamento fosse stato
inviato all’indirizzo del lavoratore con lettera raccomandata con ricevuta di
ritorno, regolarmente ritirata dalla moglie convivente del lavoratore, costituisce
un elemento sufficiente a far scattare la presunzione di conoscenza di cui
all’articolo 1335 del Codice Civile.
La
richiamata presunzione può essere sconfessata unicamente attraverso la prova
dell’impossibilita’ incolpevole da parte del lavoratore di avere notizia
dell’atto recettizio. A tal fine, dunque, non è sufficiente dimostrare la
mancata conoscenza, occorrendo altresì provare l’impossibilità di averne notizia e la non
ascrivibilità di tale situazione ad una condotta colpevole del lavoratore.
La
Cassazione ha ritenuto che nel caso di specie una simile prova contraria non
fosse stata fornita, sicché l’atto di recesso doveva ritenersi giunto a
conoscenza del destinatario.
A
proposito della doglianza del lavoratore, che aveva sostenuto di aver ricevuto
dal datore di lavoro una busta priva di contenuto, gli ermellini hanno
sottolineato come la giurisprudenza avesse già avuto modo di precisare (1) che, nel caso
in cui l’atto di costituzione in mora venga spedito in plico chiuso, spetta al
destinatario l’onere di provare che tale plico e’ stato consegnato vuoto.
Sempre
richiamando i principi espressi dalla Corte di legittimità (2), la Cassazione
ha sottolineato che, poiché gli atti ricettizi in forma scritta si considerano
conosciuti dal destinatario, a norma dell’articolo 1335 c.c., il termine
perentorio di 60 giorni fissato per l’impugnazione del licenziamento, decorre
dal momento in cui la comunicazione e’ pervenuta all’indirizzo del lavoratore,
salva la dimostrazione della sua incolpevole impossibilità ad avere conoscenza
della lettera di recesso.
Con
riferimento al caso di specie, a parte ogni considerazione
sull’inverosimiglianza della circostanza relativa alla consegna di busta vuota,
della quale alcun riferimento era stato riscontrato nella fitta corrispondenza
extragiudiziale intercorsa tra le parti, la Cassazione ha rilevato che la
deduzione del lavoratore, formulata nella prima difesa utile successiva alla
memoria di costituzione del datore di lavoro, e’ rimasta priva di riscontri
probatori, non essendo stata ammessa sul punto la prova dal giudice di primo
grado in ragione della sua tardività, con statuizione non appellata dal
dipendente.
Ritenendo
che il licenziamento fosse stato intimato ritualmente al lavoratore, la Suprema
Corte ha, pertanto, giudicato legittimo il recesso.
Valerio
Pollastrini
(1)
–
Cass., Sentenza n.12078 del 18 agosto 2003;
(2)
–
Cass., Sentenza n.4878 del 23 aprile 1992;
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